Il conto corrente cointestato non comporta necessariamente la facoltà disgiunta di operarvi

Cass. sez. I, ord. 19/09/2024  n. 25.243, rel. Di Marzio:

<<6. – Il ricorso è inammissibile.

Esso muove dalla premessa che il conto cointestato recasse la facoltà di ciascuna cointestataria di compiere operazioni anche separatamente: ma questa premessa non risulta desumibile da quanto il ricorrente narra in ricorso, e la sentenza impugnata non ne parla, e cioè quella indicata risulta essere una prospettazione fattuale nuova.

L’inammissibilità dunque discende ex articolo 360-bis, n. 1, c.p.c., dall’applicazione del principio che segue: “In tema di conto corrente bancario cointestato a più persone, la facoltà per gli intestatari di compiere operazioni anche separatamente non può essere presunta per il solo fatto della comune intestazione, ma va espressamente menzionata nel contratto attraverso il rispetto di rigorosi requisiti formali, in quanto l’esigenza formale che caratterizza i contratti bancari, ai sensi dell’art. 117 del D.Lgs. n. 385 del 1993, ne preclude il rinvenimento in base al mero comportamento, processuale o extraprocessuale, delle parti” (Cass. 20 marzo 2017, n. 7110)>>.

Rigetto un pò brutale del ricorso, essendo sostanzialmente immotivato (certo non basta ricjhiamare una massima di precedent Cassazione). L’insegnamento evocato è però esatto, anche se probabilmente ovvio (assenti dati normativi contastrastanti)

Gli sconfinamenti non provano la conclusione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito

Cass. sez. I, ord. 24/04/2024 n. 11.016, rel. Terrusi:

premessa:

<<III. – In premessa è necessario evidenziare che il margine di rilevanza della questione sollevata si rinviene in ciò: che il rapporto bancario tra le parti era stato regolato da distinti conti correnti, due di questi chiusi rispettivamente il 22-11-1994 e il 22-12-1994, il terzo chiuso il 30-6-2000.

La causa era stata introdotta con citazione notificata il 20-3-2008.

In base alla sentenza, la banca aveva eccepito la prescrizione nel decennio anteriore alla notifica della citazione, quanto alle pretese relative ai primi due conti, e la prescrizione in ordine a tutte le pretese creditorie sorte prima della scadenza del decennio antecedente alla notifica dell’atto di citazione quanto al terzo, giacché non era “stata provata dall’attore la stipula di un contratto di apertura di credito per la cui validità è richiesta la forma scritta”.

IV. – La corte d’appello ha ritenuto che il termine di prescrizione fosse stato interrotto dal correntista con una lettera racc. del 25-10/2-11-2000, e che i versamenti erano stati eseguiti dal Sa.Vi. sul conto corrente affidato in costanza di rapporto, con conseguente funzione ripristinatoria della provvista.

Questo perché era rimasto incontestato il presupposto di esistenza dell’apertura di credito, per le ragioni indicate in narrativa, e altresì perché la funzione ripristinatoria era stata confermata dalle consulenze eseguite nel corso del giudizio, dalle quali non era emerso che vi fossero state “rimesse a copertura di un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento”>>.

Poi la Sc va al punto:

<< V. – Sennonché, anche prescindendo dal profilo coinvolgente l’art. 115 cod. proc. civ. quanto ai fatti affermati come non contestati al di fuori dell’effettivo esame delle difese delle parti, è essenziale osservare che è apodittica l’affermazione della corte d’appello di Napoli a proposito del riconoscimento della stipulazione di un’apertura di credito per fatti concludenti.

La sentenza ha ritenuto che, non essendo ratione temporis necessaria la forma scritta per i contratti bancari, l’avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito si sarebbe dovuta considerare in base a fatti desumibili dalla non contestazione dell’affidamento del cliente.

E tuttavia le indicazioni in ordine a un affidamento di fatto non sono conformate all’orientamento di questa Corte.

L’art. 3 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, ha imposto l’obbligo della forma scritta ai contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari.

Non è in discussione che, nel regime previgente, fosse invece consentita la conclusione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito (tra le varie, Cass. Sez. 1 n. 17090-08).

Ma pur sempre occorreva che i “fatti” deponessero, ratione temporis, per la avvenuta stipulazione di quel contratto specifico, rispondente, cioè, al regime degli artt. 1842 e 1852 cod. civ., sicché la banca si fosse obbligata a tenere una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato a disposizione del cliente, con diritto di questi di disporre della stessa in più volte, secondo le forme d’uso (salva diversa convenzione) ovvero in qualsiasi momento, e quindi anche immediatamente dopo l’apertura del credito (v. Cass. Sez. 1 n. 1225-00, Cass. Sez. 1 n. 8662-97, Cass. Sez. 1 n. 5389-98).

VI. – In tale ambito, riprendendo precisazioni fatte soprattutto in materia di revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario, questa Corte ha sottolineato che (ratione temporis) la prova della esistenza di un contratto di apertura di credito alla data della rimessa, alla quale correlare la natura non solutoria della medesima, poteva essere assolta anche per facta concludentia, nel caso in cui risultasse applicabile la deroga del requisito della forma scritta prevista nelle disposizioni adottate dal Cicr e dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 117 del T.u.b. e, anteriormente, ex art. 3 della legge n. 154 del 1992, purché il contratto risultasse essere stato in qualche modo previsto e disciplinato da quello di conto corrente stipulato per iscritto (v. Cass. Sez. 1 n. 14470-05, Cass. Sez. 1 n. 19941-06); e quindi a condizione che emergesse per lo meno l’ammontare dell’affidamento accordato al correntista.

D’altronde è intuitivo che una cosa è l’affidamento in apertura di credito in conto corrente, tutt’altra cosa la mera esistenza – eventualmente desunta da un atteggiamento tollerante della banca – di una linea di credito attivabile dal cliente mediante distinte pratiche di sconfinamento. La stessa annotazione nel libro fidi di una banca degli estremi di un affidamento, con riferimento sia al limite dello scoperto sia alla delibera interna di concessione, ancorché corrisposta da una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati da parte della banca di ordini di pagamento del correntista, in assenza di provvista e nell’ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati, è stata sempre normalmente ritenuta non dimostrativa – in sé – della stipulazione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito in conto corrente, per l’appunto in quanto una tale situazione di fatto può trovare fondamento in una posizione di mera tolleranza da parte della banca; la quale ha la possibilità di controllare la situazione patrimoniale e finanziaria del correntista e fare immediato ricorso a forme sollecite di copertura e tutela (cfr. già Cass. Sez. 1 n. 12947-92).

In altre parole, in difetto di una concreta prova del contratto di apertura di credito, gli sconfinamenti del cliente rispetto al tetto massimo riconosciutogli devono ritenersi frutto di mera tolleranza da parte dell’istituto di credito e non anche dimostrativi, di per sé solo, dell’esistenza di un tale contratto da desumersi per facta concludentia (Cass. Sez. 1 n. 9018-98, Cass. Sez. 1 n. 686-99)>>.

Swap, (in-)validità del contratto e costi impliciti

Cass. sez. I,  ord. 19/03/2024 n. 7.368, rel. Falabella:

<<2.3. -Il dibattito sugli swap si è addensato, negli ultimi decenni, intorno a vari temi, ma quello di maggior rilievo è probabilmente legato ai cosiddetti costi impliciti del derivato (costi che integrano, in buona sintesi, il margine di remunerazione dell’intermediario) e alla conoscenza, da parte dell’investitore, dei predetti costi. Il presupposto è che gli swap, che hanno un contenuto non eteroregolamentato e che non sono standardizzati, siano normalmente caratterizzati da un disallineamento tra il prezzo teorico che lo strumento finanziario ha sul mercato e il prezzo di negoziazione del prodotto finanziario.

Tale disallineamento trova ragione nel fatto che l’intermediario che negozia per conto proprio è in grado di conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto (e quindi, essenzialmente, gli scenari probabilistici che sono associati ai flussi monetari che il contratto programma). Il rilievo dei costi impliciti – espressione di conio giurisprudenziale (anche se di “costi (…) che gravano (…) implicitamente sul cliente” parla anche la comunicazione Consob 9019104 del 2 marzo 2009, su cui infra) – non nasce però dall’esigenza che lo swap, al momento della sua stipula, dia origine a prestazioni di contenuto equivalente, giacché come è stato osservato, in dottrina, non vi è necessità che vi sia proporzione (o addirittura piena corrispondenza) tra i flussi di pagamento: il rapporto di valore tra le prestazioni di un negozio patrimoniale oneroso è estraneo alla causa di quel negozio e la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che nei contratti di scambio lo squilibrio economico originario delle prestazioni delle parti non può comportare la nullità del contratto per mancanza di causa, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive (Cass. 4 novembre 2015, n. 22567; in tema di vendita si reputa, così, che solo l’indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, possa determinare la nullità del contratto per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo, notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, ponga solo un problema concernente l’adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisca, quindi, all’interpretazione della volontà dei contraenti e all’eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto: Cass. 19 aprile 2013, n. 9640).

L’importanza dei costi impliciti nasce, piuttosto, dal fatto che l’occultamento del reale valore dello strumento finanziario è stato alternativamente considerato, nelle diverse prospettive ricostruttive che hanno trovato espressione in dottrina e in giurisprudenza, ora come un risultato non coerente con la causa del contratto, ora, come una condizione che rende indeterminabile l’oggetto di questo, ora come un inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi nei confronti dell’investitore: sicché la presenza dei detti costi potrebbe alternativamente rilevare sul piano genetico, determinando la nullità del contratto, oppure sulla dinamica attuativa del rapporto obbligatorio, traducendosi nella mancata osservanza, da parte dell’intermediario, dell’obbligo, posto dall’art. 23, lett. a), t.u.f., di “comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse del cliente”: con conseguente applicazione dell’apparato rimediale operante per il caso di inadempimento>>.

Poi la SC richiama Cass. sez. un. 8770/2020 (anche qui postata)

Poi ancora:

<< 2.5. – Come è stato rilevato in altra occasione da questa Corte, la nullità che viene qui in discorso non è quella, virtuale (art. 1418, comma 1, c.c.), di cui si sono occupate in passato due ben note pronunce delle Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725) per escludere che essa abbia a prospettarsi in caso di inosservanza degli obblighi informativi da parte dell’intermediario; la nullità in esame è, invece, una nullità strutturale (art. 1418, comma 2, c.c.) inerente ad elementi essenziali del contratto (Cass. 10 agosto 2022, n. 24654, in motivazione, punto 5). (…)

2.6. – Quel che conta, nella presente sede, è che il contratto per cui è lite non recasse menzione del mark to market e dei costi impliciti (pag. 13 della sentenza impugnata) e mancasse in conseguenza di esplicitare il fair value (e cioè il valore) negativo del derivato (ivi, pag. 14). La Corte di appello avrebbe dovuto considerare che le richiamate carenze erano incidenti sulla validità del contratto e tali da determinarne la nullità>>.

V. anche Trib. Roma 04.04.2024  n. 5912/2024, RG 64516/2018 per un caso di nullità di un IRS interest rate swap sostanzialmente per mancanza di causa: <<La domanda di nullità, sufficientemente specifica ed ancorata al ragionamento diffusamente proposto dalla difesa attorea circa lo sbilanciamento dell’alea contrattuale, l’assenza ab origine di convenienza per il cliente e l’inidoneità originaria dello swap a svolgere la dichiarata funzione di copertura, è fondata ed il suo accoglimento rende superfluo l’esame delle altre domande formulate>> (presente in Banca dati del merito e in ilcaso.it).

Clausola bancaria di massimo scoperto e determinatezza del periodo di riferimento

Cass.  civile sez. I, ord. 15/01/2024  n. 1.373, rel. Vella:

<<In secondo luogo che, in tema di conto corrente bancario, può ritenersi nulla per indeterminatezza la clausola negoziale che prevede la commissione di massimo scoperto qualora detta indeterminatezza sia effettiva e radicale, come nel caso in cui essa ne indichi semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata (Cass. 19825/2022).

6. – Nel caso in esame, i canoni ermeneutici evocati da parte ricorrente risultano effettivamente violati.

6.1. – Occorre innanzitutto dare atto che nell’art. 9 delle condizioni generali di contratto, specificamente approvato per iscritto e rubricato “chiusura periodica del conto e regolamento degli interessi, commissioni e spese”, si legge (tra l’altro) che “I rapporti di dare e avere relativi al conto, sia con saldo debitore o creditore, vengono regolati con identica periodicità, portando in conto con valuta ‘data regolamento’ dell’operazione gli interessi, le commissioni e le spese ed applicando le trattenute fiscali di legge.

Il saldo risultante dalla chiusura periodica produce interessi secondo le medesime modalità”.

6.2. – Anche dalle condizioni economiche di conto corrente emerge in modo chiaro la periodicità trimestrale della chiusura, da riferire evidentemente non solo alla capitalizzazione, ma anche alla chiusura periodica del conto, poiché, in mancanza, nemmeno potrebbe sussistere la capitalizzazione, sicché i due parametri non possono che essere congruenti.

6.3. – Dall’insieme delle menzionate disposizioni emerge allora, in modo inequivocabile, che la chiusura periodica del conto avveniva ogni trimestre e che, in occasione di ciascuna di esse, dovevano regolarsi tutti i rapporti di dare e avere tra cliente e banca, ivi compresi, perciò, quelli relativi alle “commissioni”, richiamate sia nella rubrica che nell’articolato.

6.4. – Ebbene, trattandosi pacificamente di una “commissione”, una corretta applicazione del disposto di cui all’art. 1363 c.c. avrebbe necessariamente comportato l’accertamento della determinatezza o quantomeno determinabilità della clausola relativa alle c.m.s., applicabili appunto trimestralmente.

6.5. – Anche il criterio interpretativo prescritto dall’art. 1362 c.c., relativo alla comune volontà delle parti – da scrutinare alla luce del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto – avrebbe dovuto deporre in tal senso, attraverso la verifica che, in concreto, le commissioni di massimo scoperto sono state applicate trimestralmente (come da estratti conto prodotti), senza che tale periodicità sia mai stata messa in discussione dalle parti nel corso del rapporto (mentre, è appena il caso di aggiungere, ciò non si sarebbe verificato ove le stesse avessero inteso applicare le commissioni di massimo scoperto con una diversa periodicità).

6.6. – Del pari avrebbe dovuto indurre il tribunale a ravvisare la determinatezza della clausola in questione un’interpretazione secondo buona fede del contratto, ai sensi dell’art. 1366 c.c., tale da non privare la stessa di senso effettivo, tenuto coerentemente conto della natura e dell’oggetto del contratto medesimo.

6.7. – Ad analoghe conclusioni conduce il canone interpretativo di cui all’art. 1367 c.c., in base al quale “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”, poiché, a fronte di una chiusura periodica del conto corrente pacificamente trimestrale, il principio di conservazione del contratto avrebbe dovuto indurre a ritenere determinata la commissione di massimo scoperto nella sua periodicità trimestrale, piuttosto che ravvisarne la nullità.

6.8. – A ciò si aggiunga, in relazione al canone ermeneutico ex art. 1368 c.c., che la pratica generalmente in uso al momento della stipulazione del contratto de quo era notoriamente quella di contabilizzare trimestralmente le commissioni di massimo scoperto, come emerge dalle allegate pronunce di merito dell’epoca.

6.9. – Alla luce di quanto precede appare insomma evidente che la clausola in questione, relativa alle commissioni di massimo scoperto, non aveva ragione di essere ritenuta nulla per indeterminatezza>>.

Nel recesso per giusta causa da rapporto finanziamento la giusta causa va espressa a pena di nullità

Cass. sez. 1 n. 5415 del 29.02.2024, rel. Vanentino, circa (parrebbe) l’aRT. 1845 CC:

<<La Corte d’appello ha ritenuto che il recesso per giusta causa dagli
affidamenti possa essere intimato dalla banca anche senza
indicazione alcuna della causa che lo sorregge.

Il che non è esatto, ad avviso del Collegio, perché la giusta causa è coessenziale alla fattispecie negoziale di cui trattasi, che proprio per la presenza di
essa si differenzia dalla fattispecie del recesso ad nutum; onde non
potrebbe dirsi perfezionata una manifestazione di volontà di
recedere (non già ad nutum, bensì) “per giusta causa”, che non
indichi tale causa.

Del resto, come esattamente osserva il Procuratore generale, la necessità di detta indicazione nell’atto di recesso si connette direttamente al rispetto dei principi di correttezza e buona fede e all’esigenza che la controparte, cui il recesso è rivolto,
sia posta in condizione di difendersi e di contestarlo efficacemente in
giudizio>

Il precetto parrebbe esatto, anche se necessiterebbe forse di miglior motivazione. La mera necessità di difensiva infatti parrebbe insufficiente, in quanto toccherebbe pur sempre al receduto l’onere di provare l’esistenza di giusta causa. Ma forse la buona fede è esattamente invocata, in quanto rende fin da subito chiara la ragione al destinatario: non essendoci ragione per tenerlo momentaneamente all’oscuro dei motivi di una scelta, che potrebbe essere per lui  foriero di conseguenze assai pesanti.

Il danno per essere caduto nella trappola del phishing è a carico della banca

Un caso classico di phishing esaminato da Cass. sez. III sent. 12/02/2024 n. 3.780, rel. Moscarini:

fatto:

<Di.An., in qualità di procuratrice di Po.Ma., convenne in giudizio, davanti al Giudice di Pace di Paola, Poste Italiane Spa chiedendo accertarsi la responsabilità contrattuale o extracontrattuale della società convenuta per la perdita patrimoniale subita dal Polizza ammontante ad Euro 2900 a seguito di un’operazione posta in essere da ignoti sulla propria carta Postepay Evolution.

A sostegno della domanda rappresentò che il Polizza aveva ricevuto una mail in apparenza proveniente da Poste Italiane Spa, con la quale era stato invitato ad accedere al proprio conto mediante un link contenuto nella mail inserendo le proprie credenziali per effettuare il cambio della password; che l’utente aveva effettuato la richiesta operazione ed aveva successivamente riscontrato un addebito di Euro 2.900 per un’operazione a favore di Anytime Paris Fra, da lui mai compiuta.>>

Ecco l’insegnamento in diritto:

<<La giurisprudenza di questa Corte, qualificata in termini contrattuali la responsabilità della banca, ha affermato che la diligenza posta a carico del professionista, per quanto concerne i servizi posti in essere in favore del cliente, ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento assumendo come parametro quello dell’accorto banchiere (Cass. n. 806 del 2016); dunque la diligenza della banca va a coprire operazioni che devono essere ricondotte nella sua sfera di controllo tecnico, sulla base anche di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità tale che la condotta, per esonerare il debitore, la cui responsabilità contrattuale è presunta, deve porsi al di là delle possibilità esigibili della sua sfera di controllo.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti consolidata nel senso di ritenere che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente configurabile, ad esempio, nel caso di protratta attesa prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento ma il riparto degli oneri probatori posto a carico delle parti segue il regime della responsabilità contrattuale. Mentre, pertanto, il cliente è tenuto soltanto a provare la fonte del proprio diritto ed il termine di scadenza, il debitore, cioè la banca, deve provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, sicché non può omettere la verifica dell’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del servizio. Ne consegue che, essendo la possibilità della sottrazione dei codici al correntista attraverso tecniche fraudolente una eventualità rientrante nel rischio d’impresa, la banca per liberarsi dalla propria responsabilità, deve dimostrare la sopravvenienza di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente richiesto al debitore (Cass., 1, n. 2950 del 3/2/2017; Cass., 3, n. 18045 del 5/7/2019; Cass., 6-3, n. 26916 del 26/11/2020).

Era pertanto onere di Poste Italiane, come correttamente ritenuto dalla impugnata sentenza, a dover provare di aver adottato soluzioni idonee a prevenire o ridurre l’uso fraudolento dei sistemi elettronici di pagamento, quali ad esempio l’invio al titolare della carta di appositi sms alert di conferma di ogni singola operazione, sulla base di un principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. In assenza di tale prova è corretta la decisione di imputare alla banca il rischio professionale della possibilità che terzi accedano ai profili dei clienti con condotte fraudolente>>.

Invio di sms alert che, a questo punto, diverrà un onere imprescindibile per la banca.

Determinazione del dare/avere da conto corrente e documentazione richiesta in base all’onere della prova: decalogo operativo dalla Cassazione per il caso di opposte domande

Interessante analisi in Cass. sez. 1 del 17 gennaio 2024 n. 1.763 rel. Campese , segnalata e linkata da Francsco Leo in post Linkedin (Cass. 1.763 che ora viene richiamata, anzi invocata, da Cass. n. 5387 del 29.02.2024, stessa sezione, stesso relatore, sub § 3.2).

Premessa:

<<2.9.2. Innanzitutto, è doveroso muovere dal rilievo che, nei rapporti bancari di conto corrente, una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista (oppure la non debenza di commissioni di massimo scoperto o, ancora, il non corretto calcolo dei giorni valuta) e riscontrata la mancanza di una parte degli estratti conto, l’accertamento del dare ed avere può attuarsi con l’impiego anche di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto stessi (cfr. Cass. n. 22290 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023). Questi ultimi, infatti, non costituiscono l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Essi – come rimarcato dalla già menzionata Cass. n. 37800 del 2022 (e sostanzialmente ribadito dalle più recenti Cass. n. 10293 del 2023 e Cass. n. 22290 del 2023) – consentono di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto; tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, allora, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito: I) ben può valorizzare altra e diversa documentazione, quale, esemplificativamente, e senza alcuna pretesa di esaustività, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni, oppure, giusta gli artt. 2709 e 2710 cod. civ., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974), o, ancora, gli estratti conto scalari (cfr. Cass. n. 35921 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023; Cass. n. 23476 del 2020; Cass. n. 13186 del 2020), ove il c.t.u. eventualmente nominato per la rideterminazione del saldo del conto ne disponga nel corso delle operazioni peritali, spettando, poi, al giudice predetto la concreta valutazione di idoneità degli estratti da ultimo a dar conto del dettaglio delle movimentazioni debitorie e creditorie (come già opinato proprio dalla citata Cass. n. 13186 del 2020, non massimata, in presenza di una valutazione di incompletezza degli estratti da parte del giudice del merito), oppure, come sancito da una recentissima pronuncia di questa Corte tuttora in corso di pubblicazione (resa nel giudizio n.r.g. 14776 del 2019), anche la stampa dei movimenti contabili risultanti a video dal data base della banca, ottenuta dal correntista avvalendosi del servizio di home banking, se non contestata in modo chiaro, circostanziato ed esplicito dalla banca quanto alla sua non conformità a quanto evincibile dal proprio archivio (cartaceo o digitale); II) parimenti, può attribuire rilevanza alla condotta processuale delle parti e ad ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.

2.9.3. Successivamente, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati così acquisiti, quello stesso giudice può certamente avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (cfr. Cass. n. 14074 del 2018; Cass. n. 5091 del 2016. Nel medesimo senso, si vedano pure Cass. n. 31187 del 2018; Cass. n. 11543 del 2019)>>.

Ma son cose note.    Ecco ora la parte più interessante, per il caso in cui la documentazione in atti non permetta in alcun modo la ricostruzione dei movimenti sul conto  per i periodi azionati:

<<2.9.5. In quest’ottica, dunque, potrà certamente trovare applicazione anche il criterio dell’azzeramento del saldo o del cd. saldo zero, il quale, pertanto, altro non rappresenta che uno dei possibili strumenti attraverso il quale può esplicitarsi il meccanismo della ripartizione dell’onere probatorio tra le parti sancito dall’art. 2697 cod. civ.

2.9.6. Ne consegue che se la banca agisca in giudizio per il pagamento dell’importo risultante a saldo passivo ed il correntista chieda, a sua volta, la rideterminazione del saldo, concludendo o per la condanna dell’istituto di credito a pagare in proprio favore o per l’accoglimento della domanda di quest’ultimo in misura inferiore rispetto a quella originariamente formulata, l’eventuale carenza di alcuni estratti conto o, comunque di altra documentazione che consenta l’integrale ricostruzione dell’andamento del rapporto, comporta che: I) per quanto riguarda la banca, il calcolo del dovuto potrà farsi:   I-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto (ricordandosi, in proposito, che la banca non può sottrarsi all’assolvimento di un tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito. Cfr. Cass. n. 13258 del 2017; Cass. n. 7972 del 2016; Cass. n. 19696 del 2014; Cass. n. 1842 del 2011; Cass. n. 23974 del 2010; Cass. n. 10692 del 2007), azzerando il saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e procedendo, poi, alla rideterminazione del saldo finale utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura del conto (o alla data della domanda);   i-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, azzerando i soli saldi intermedi: intendendosi, con tale espressione, che non si dovrà tenere conto di quanto eventualmente accumulatosi nel periodo non coperto da documentazione, sicché si dovrà ripartire, nella prosecuzione del ricalcolo, dalla somma che risultava a chiusura dell’ultimo estratto conto disponibile (la banca, cioè, perde solo quello che si sarebbe accumulato nel periodo non coperto dagli estratti conto mancanti, sicché il dato finale risulterà abbattuto di quella somma); II) per quanto riguarda, invece, il correntista che lamenti l’illegittimo addebito di importi non dovuti (per anatocismo, usura, pagamento di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, commissioni di massimo scoperto etc.) e ne chieda la restituzione, egli si trova, in realtà, in posizione praticamente analoga a quella della banca, atteso che il calcolo del dovuto potrà farsi tenendo conto che:    II-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto, egli o dimostra l’eventuale vantata esistenza di un saldo positivo in suo favore, o di un minore saldo negativo a suo carico (ma, in tal caso, la corrispondente documentazione vale per entrambe le parti, per il congegno di acquisizione processuale), o beneficia comunque dell’azzeramento del saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e della successiva rideterminazione del saldo finale avvenuta utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura (o alla data della domanda);    II-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, anche in tal caso, egli, se sostiene che in quei periodi si è accumulata una somma a suo credito o un minore importo a suo debito per effetto, ad esempio di anatocismo e/o usura e/o pagamento di interessi ultralegali non pattuiti e/o commissioni di massimo scoperto non concordate, lo deve provare, producendo la corrispondente documentazione che, in tal caso, però, nuovamente sarà utilizzabile anche per la controparte, sempre per il congegno di acquisizione processuale. Altrimenti, beneficerà del meccanismo di azzeramento del/i saldo/i intermedio/i nel significato in precedenza chiarito, con l’evidente risultato che la banca, per quel/quei periodo/i, non ottiene niente ed il correntista, per lo stesso o gli stessi periodi, nulla recupera. Questi, cioè, è come se non ci fossero, posto che nessuno ha provato che cosa sia successo. Con la conseguenza che l’estratto conto immediatamente successivo, e tutti i successivi ancora, devono essere corretti ricollegando l’ultimo saldo disponibile al primo saldo in cui ricominciano ad essere presenti gli estratti conto.

2.9.7. In questo modo, dunque, il problema del rischio di due saldi difformi viene meno e, in buona sostanza, il meccanismo dell’azzeramento (anche di quello, prima definito intermedio, per eventuali intervalli temporali in cui mancano gli estratti conto) funziona allo stesso modo sia per la banca che per il correntista>>.

La prima parte della sentenza è pure interessante per il c.d. litigator. Afferma che la condotta silente(omissiva del CT di parte nel subprodedimnti ex art. 198 cpc attuaz. di fronte all’ingresso di documenti mai propdottio prima non può costituire consenso tacito. Il quale ultimo deve provenire proprio e solo dalla aperte: v. infatti il § 1.7.6 per cui “In tema di consulenza tecnica di ufficio ex art. 198 cod. proc. civ., l’acquisizione, da parte del consulente di ufficio, di documenti non precedentemente prodotti dalle parti, possibile anche se volta a provare fatti principali e non meramente accessori, necessita del consenso espresso, tacito o per facta concludentia, delle parti stesse, insufficiente rivelandosi quello eventualmente desumibile dalla condotta tenuta, nel corso delle operazioni peritali, dai loro consulenti, essendo questi ultimi privi del potere di impegnare le prime su questioni diverse da quelle inerenti alle indagini tecniche svolte dal consulente di ufficio”.

Inadempimento della banca nella gestione patrimoniale costituito dalla modifica non acconsentita delle modalità gestionali inizialmente pattuite

Cass. sez. I del 21/09/2023  n. 27.015, rel. Mercolino:

<<in quanto imperniate sull’inosservanza degli obblighi derivanti dall’esecuzione dell’incarico conferito con il contratto di gestione patrimoniale, le censure proposte dai ricorrenti non attingono infatti la ratio decidendi della sentenza impugnata: quest’ultima, pur avendo escluso che la Banca avesse perseguito uno scopo diverso da quello che si erano prefissati i mandanti, ed avendo quindi ritenuto non configurabile un eccesso di mandato, non ha ritenuto affatto insussistente un inadempimento degli obblighi gravanti sulla Banca in qualità d’intermediario, ma ha espressamente riconosciuto che, a partire dall’anno 2000, essa aveva adottato di propria iniziativa modalità di gestione differenti dalle caratteristiche peculiari della linea pattuita con i clienti, omettendo d’informarli, in contrasto con quanto previsto dall’art. 7 delle condizioni generali di contratto; in proposito, la Corte territoriale ha richiamato la relazione del c.t.u. nominato nel corso del giudizio, da cui risultava che la strategia d’investimento programmata, che prevedeva il ricorso ad un’ampia gamma di strumenti finanziari, soprattutto di natura derivata, anche per finalità diverse da quelle di copertura, era stata sostituita da un’allocazione di portafoglio sostanzialmente bilanciata tra strumenti azionari e obbligazionari, con la conservazione di un unico strumento di natura derivata, il cui peso risultava pari all’1,03% del valore complessivo del portafoglio titoli.

Tale comportamento, oltre a porsi in contrasto con le condizioni specificamente concordate tra le parti, costituisce violazione degli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24 per il servizio di gestione di portafogli, i quali comprendono, tra l’altro, quello di attenersi alle caratteristiche della gestione pattuita con il cliente ed alle istruzioni da lui impartite circa le operazioni da compiere, sì da potersi escludere che, in difetto di un’espressa manifestazione di volontà, lo stesso cliente possa pretendere dall’intermediario una modificazione unilaterale della precedente strategia d’investimento (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2012, n. 8237). Nell’ambito di tale contratto, le caratteristiche della linea d’investimento preventivamente concordata con il cliente (grado di rischio, benchmark, operazioni che l’intermediario può compiere senza autorizzazione preventiva, eventuali restrizioni, modalità di utilizzazione degli strumenti derivati, ricorso alla leva finanziaria) costituiscono infatti il parametro fondamentale cui l’intermediario deve attenersi nell’esecuzione del rapporto, nonché un termine di raffronto indispensabile ai fini della valutazione della diligenza del suo comportamento, godendo egli di una discrezionalità nell’impiego del capitale affidatogli, il cui esercizio impone di verificare, nell’ambito del predetto giudizio, anche se, avuto riguardo ai mutamenti eventualmente sopravvenuti nello scenario di mercato, il mantenimento nel portafoglio di determinati titoli precedentemente acquistati possa ritenersi conforme alla strategia pattuita e, in linea più generale, agli obblighi di correttezza gravanti sul gestore (cfr. Cass., Sez. I, 27/10/ 2020, n. 23568; 15/05/2020, n. 9024; 21/04/2016, n. 8089). Tale criterio è destinato d’altronde ad operare in una duplice direzione, ovverosia non solo in funzione del contenimento dei rischi che l’intermediario è autorizzato ad assumere, il quale gl’impone il compimento di scelte prudenziali, volte ad evitare d’incorrere in perdite superiori a quelle ritenute accettabili dall’investitore, sulla base della sua esperienza finanziaria e in conformità dei suoi obiettivi d’investimento, ma anche, in senso contrario, in funzione del raggiungimento di tali obiettivi, il quale gl’impone di cogliere le opportunità d’investimento di volta in volta offerte dal mercato finanziario, in modo tale da garantire al cliente la conservazione o l’incremento del capitale o rendimenti adeguati al livello di rischio concordato, in linea con le caratteristiche specifiche della gestione (cfr. Cass., Sez. I, 3/01/2017, n. 24; 24/02/2014, n. 4393).

Del resto, è proprio la rilevanza decisiva che, nell’ambito del contratto in esame, riveste l’indicazione delle caratteristiche della gestione, ai fini dell’individuazione degli obblighi di comportamento gravanti sull’intermediario, a giustificare la previsione dell’obbligo, posto a carico dell’intermediario dallo art. 28 del regolamento Consob, d’informare prontamente l’investitore, nel caso in cui il patrimonio affidatogli abbia subito una riduzione per effetto di perdite superiori ad una determinata percentuale del suo controvalore, e ciò essenzialmente al fine di consentirgli di determinarsi liberamente e consapevolmente in ordine all’eventuale esercizio della facoltà di recesso, oppure di concordare con lui eventuali modificazioni della strategia d’investimento, che l’intermediario non è autorizzato a variare di propria iniziativa ed all’insaputa del cliente, come accaduto nel caso in esame. E’ in quest’ottica che, pur avendo escluso la configurabilità di una violazione dell’art. 1711 c.c., la sentenza impugnata ha richiamato la valutazione espressa dal c.t.u., secondo cui la Banca non aveva rispettato pienamente il mandato conferitole dai ricorrenti, avendo progressivamente adottato come riferimento un benchmark inadeguato al profilo di rischio/rendimento della linea di gestione concordata: ed ha pertanto concluso per la sussistenza di un inadempimento della mandataria, consistente nell’aver adottato scelte d’investimento non del tutto in linea con quelle previste dal contratto, senza informare i clienti>>.

Sul dovere della banca di vigilare su operaizoni anomale confliggenti con l’interesse del cliente: la base giuridica è il consueto dovere di buona fede in executivis

Cass. 03.11.2023  n. 30.588, rel. Catallozzi:

<<- si osserva che, secondo la giurisprudenza di codesta Corte, nonostante la banca non abbia alcun dovere generale di monitorare la regolarità delle operazioni ordinate dal cliente, nondimeno, in presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, questa, in applicazione dei doveri di esecuzione del mandato secondo buona fede, deve rifiutare l’esecuzione o almeno informare il cliente (Cass. 31 marzo 2010, n. 7956);
tale obbligo di protezione si attiva alla ricorrenza cumulativa di due presupposti: che l’operazione sia ictu oculi anomala e che non risponda agli interessi del cliente;

– può aggiungersi che il dovere di astenersi dall’esecuzione di un’operazione – o almeno di informare il cliente prima di eseguirla – si riferisce a singole operazioni precisamente individuate, non estendendosi l’anomalia di un’operazione, idonea a far sorgere l’obbligo di protezione della banca, a quelle successive;

– la Corte di appello, ha espressamente richiamato tale giurisprudenza facendone discendere la responsabilità della banca in ragione del fatto che quest’ultima – su cui gravava il relativo onere probatorio – non aveva sempre informato preventivamente la cliente di determinate operazioni che andavano considerate ictu oculi «anomale» ed estranee ai suoi interessi;
– per l’esattezza, facendo proprio l’accertamento operato dal Tribunale in sede di liquidazione del danno, ha riconosciuto che una serie di operazioni effettuate sui rapporti intestati alla Audisio, costituite da assegni incassati da Stefano e Corrado Bortolotti quali beneficiari o giratari, prelievi in contanti, bonifici in loro favore, incasso del ricavato della vendita dell’imbarcazione «Clara» e assegni emessi in favore di terzi, erano state poste in essere dai Bortolotti «nel loro interesse esclusivo e in assenza di un interesse della Audisio» (cfr. pagg. 16-17
e 81-82);
– ha, poi, rilevato che sin dal primo semestre 2004 i funzionari della banca si erano resi conto delle anomalie dei movimenti riguardanti la gestione patrimoniale e i conti correnti intestati alla Audisio – in particolare, delle frequenti operazioni del Bortolotti sia di utilizzo della giacenza esistente sui conti correnti, sia di passaggi di liquidità dalla gestione al conto corrente – e avevano segnalato tale circostanza alla Direzione (nella persona dell’Amministratore delegato Pietro D’Aquì), la quale, però si era attivata solo tardivamente, nonostante la Audisio fosse stata individuata quale «cliente di direzione», da seguire con «massima assistenza nel servizio» in quanto segnalata quale «cliente
problematica» in relazione alle sue abnormi spese e alla necessità di prevenire la progressiva erosione del suo patrimonio (cfr. pag. 74-76);

– ha, sul punto, osservato che a far data dal momento in cui il carattere anomale delle disposizioni impartite dal Bortolotti, quale delegato a operare sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti, si era reso evidente la banca, in osservanza degli obblighi di protezione sulla stessa gravanti, avrebbe dovuto astenersi dall’esecuzione delle stesse, se non previa informazione della cliente che, nei casi rilevati, era stata omessa;
– dall’esame congiunto dei richiamati passaggi motivazionali, nonché dal complessivo tenore della sentenza impugnata, emerge che la Corte di appello ha riconosciuto che le operazioni poste in essere dal Bortolotti con riferimento alla gestione patrimoniale e ai conti correnti della Audisio, così come individuate quali voci di danno in sede di liquidazione dell’importo risarcitorio, presentassero carattere di operazioni ictu oculi anomale e non rispondenti agli interessi del cliente e ha accertato che la banca avesse dato corso a tali esecuzioni pur in assenza di una previa specifica informazione della cliente;
– così argomentata la sentenza di appello si sottrae alla censura prospettata, avendo accertato sia l’esecuzione da parte della banca di disposizioni impartite sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti – da parte del delegato Bortolotti – caratterizzate dalla presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, provvedendo alla loro individuazione, sia la mancata relativa
preventiva informazione specifica alla correntista prima della loro
esecuzione;

– le medesime considerazioni svolte con riferimento alla responsabilità contrattuale valgono con riferimento alla responsabilità per fatto illecito, in relazione alla ritenuta cooperazione nell’illecito del terzo, atteso che l’accertata inosservanza degli obblighi informativi gravanti sulla banca possono essere espressivi di un atteggiamento negligente o, comunque, imprudente della banca e, in quanto tale, idoneo a integrare il contestato requisito dell’elemento soggettivo>>

Cautela a carico del cliente della banca nell’uso del bancomat e suo controllo in Cassazione

Cass. sez. 3 del 8 . 11.2023 n. 31.136, rel. Gianniti:

<<Secondo la giurisprudenza di questa corte (cfr. in particolare Cass. n. 26916/2020), “la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare riguardo alla verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, ha natura contrattuale e, quindi, va esclusa solo se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente”  [tecniamente non è così].

Orbene, entrambi i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del suddetto principio, ma, compiendo una diversa valutazione del compendio probatorio, sono addivenuti a conclusioni antitetiche.

Invero, il giudice di primo grado ha accolto la domanda risarcitoria del F. così argomentando:

“Nel merito la domanda è fondata poiché quanto prospettato dall’attore ha trovato dalla documentazione prodotta sufficiente riscontro probatorio in ordine sia all’an sia al quantum debeatur. L’attore, infatti, è riuscito a dimostrare la veridicità della sua tesi a dispetto di quella prospettata dalle convenute…. Pertanto, l’attore lamenta il comportamento poco corretto ed inadempiente dell’istituto bancario che ha consentito nonostante il blocco e le varie denunce presentate, delle operazioni extra fido senza alcuna autorizzazione, comportando ciò un aggravio di spese a quest’ultimo che si è trovato con un saldo negativo di Euro 5.581,97 Euro. Si osserva che nel caso de qua trattasi di carta di debito da utilizzarsi tramite codice segreto (PIN), che dovrebbe essere a conoscenza solo del legittimo possessore e fruitore del servizio bancomat come da contratto. Tuttavia, va detto che più volte è capitato (come riportato anche da fatti di cronaca accaduti recentemente) che le chiavi di accesso ai servizi a pagamento vengono carpite da terze persone con inganno, senza che il titolare abbia la possibilità di rendersi conto del fatto nell’immediato. Ebbene, in tali casi vi è da dire che l’istituto bancario che eccepisca la colpa concorrente del titolare della carta per custodia difettosa del codice personale, ha l’onere di provare concretamente tale negligenza, la quale non può ritenersi in re ipsa per il solo fatto che una tessera bancomat, dopo il furto, sia stata utilizzata illecitamente. Dunque, i convenuti non hanno assolto al loro onere probatorio ai sensi dell’art. 2697 c.c., pertanto, le contestazioni restano delle mere eccezioni senza fondamento. E’ evidente il grave inadempimento e la responsabilità di entrambi gli enti convenuti nella vicenda de qua. E’ evidente, infatti che il comportamento negligente sia della Banca sia della ICCREA terza chiamata in causa, è la concausa della sottrazione illecita delle somme, dal momento che, nonostante l’immediata denuncia e blocco della carta da parte del F., gli enti convenuti non hanno adempiuto agli obblighi di vigilanza, correttezza e buona fede contrattuale, consentendo movimenti ben oltre i limiti contrattuali stabiliti creando così un grave disagio economico e non, oltre che un danno all’attore”.

Al contrario, il giudice di appello ha rigettato la domanda risarcitoria del F., sul presupposto che la di lui condotta gravemente colposa era risultata:

“- dalla ricostruzione dei fatti offerta dal sig. F., il quale nella denuncia presentata ai Carabinieri in data 06/7/2009, alle ore 13.29 – ovvero quattro giorni dopo dal presunto smarrimento – ha dichiarato di essersi accorto della perdita della carta (che di per sé va conservata con la massima attenzione, e dunque con una particolare diligenza) in circostanze del tutto casuali, cioè controllando nel portafogli, dopo aver verificato, rivolgendosi ad un operatore di cassa della filiale di riferimento, l’effettuazione di prelievi non autorizzati sul conto corrente nei giorni immediatamente precedenti;

– dalle dichiarazioni dello stesso sig. F., che non ha potuto escludere di aver dimenticato (…) la carta bancomat “…all’interno dallo sportello sito in Agenzia di Via (Omissis)”, così denotando una significativa superficialità nella conservazione della carta di debito, nonostante sia un dato di comune esperienza, noto ai più, che trova frequente riscontro nelle cronache, che proprio in occasione delle operazioni agli sportelli automatici si verificano episodi di truffa e/o di furto delle carte bancomat a danno degli ignari titolari;

– dalla peculiarità della vicenda oggetto di causa, dove tutte le operazioni contestate dall’attore hanno avuto luogo con il corretto inserimento del P.I.N. (chiaro sintomo che esso potrebbe non essere stato adeguatamente custodito dal titolare sig. F.) e prevalentemente anteriori al blocco della carta richiesto dall’appellato solo il 06/7/2009;

– dal fatto che il sig. F. ha posto a fondamento della domanda risarcitoria soltanto n. 5 operazioni, per complessivi Euro 1.414,10 – avvenute, rispettivamente il 3/7/09, alle ore 20.47 (di Euro 250,00), il 4/7/09, alle ore 11.31 (di Euro 250,00), alle ore 11.38 (di Euro 59,90), ed alle ore 12.24 (di Euro 349,00), il 5/7/09, alle ore 11.57 (di Euro 250,00), ed il 6/7/09, alle ore 10.17 (di Euro 250,00) -, tralasciandone altre n. 3, per complessivi Euro 674,90 – avvenute, rispettivamente, il 4/7/09, alle ore 11.43 (di Euro 89,90), il 5/7/09, alle ore 12.47 (di Euro 290,00), ed il 6/7/09, alle ore 10.32 (di Euro 295,00) -, che pure rientrano nel medesimo contesto temporale delle prime, nel quale, a suo dire, non avrebbe avuto la materiale disponibilità della carta bancomat”.

In sintesi, il giudice di appello ha ritenuto che il F., da un lato, non ha custodito adeguatamente il bancomat (in quanto ha dichiarato di non poter escludere di averlo dimenticato all’interno dello sportello elettronico automatico ed ha aggiunto di essersi reso conto del relativo smarrimento soltanto dopo un controllo fortuito nel proprio portafoglio) e, dall’altro, non ha custodito adeguatamente il PIN necessario per il funzionamento del bancomat, in quanto tutti i prelievi denunciati (oltre ad altri che non hanno formato oggetto di denuncia) sono avvenuti con l’inserimento corretto del PIN e sono avvenuti prima della denuncia e del blocco della carta (incombenti questi entrambi risalenti al 6 luglio 2009).

Non spetta a questa Corte statuire quale sia la motivazione più coerente con le risultanze processuali acquisite: nella presente sede di legittimità, invece, rileva il fatto che, a fronte della motivazione del giudice d’appello, adeguatamente articolata la censura del ricorrente si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice di merito, così in sostanza sollecitando, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, una rivisitazione del suo giudizio.

E tuttavia questa non è consentita a questa Corte, alla quale non spetta il riesame della vicenda processuale, ma solo il controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui competono, in via esclusiva, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento ed il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonché la scelta, tra le complessive risultanze processuali, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr., ex plurimis, Cass. n. 13881/2015; n. 24679/2013; n. 27197/2011; n. 6694/2009).

Quanto, poi, al passaggio in cui (p. 23) il ricorrente si duole che la banca “…nella sua difesa non ha mai precisato i presidi di sicurezza di cui era dotata la tessera bancomat smarrita/sottratta…” – fermo restando che nel giudizio di legittimità non sono prospettabili nuove questioni di diritto (Cass. n. 21633/2018; n. 9812/2002) – occorre qui rilevare che trattasi di censura di cui non vi è traccia nella sentenza impugnata (e che, d’altronde, il ricorrente neppure indica aver formato oggetto di esame nei due giudizi di merito).

Anzi, sotto questo profilo, non può non essere sottolineato il particolare contesto contrattuale della fattispecie, nella quale non risulta che fossero contrattualmente previsti specifici sistemi di controllo e presidi di sicurezza a carico della banca: orbene, in tale specifico contesto contrattuale, l’uso della carta con uso di pin corretto da parte di soggetto ignoto è stato legittimamente posto dal giudice di appello ad esclusivo carico del titolare della carta>>.

Sono qui di interesse le (peraltro scarne) circostanze di fatto relative alla non diligente gestione del tesserino bancmat (nulla si dice però del pin)