Inadempimento della banca nella gestione patrimoniale costituito dalla modifica non acconsentita delle modalità gestionali inizialmente pattuite

Cass. sez. I del 21/09/2023  n. 27.015, rel. Mercolino:

<<in quanto imperniate sull’inosservanza degli obblighi derivanti dall’esecuzione dell’incarico conferito con il contratto di gestione patrimoniale, le censure proposte dai ricorrenti non attingono infatti la ratio decidendi della sentenza impugnata: quest’ultima, pur avendo escluso che la Banca avesse perseguito uno scopo diverso da quello che si erano prefissati i mandanti, ed avendo quindi ritenuto non configurabile un eccesso di mandato, non ha ritenuto affatto insussistente un inadempimento degli obblighi gravanti sulla Banca in qualità d’intermediario, ma ha espressamente riconosciuto che, a partire dall’anno 2000, essa aveva adottato di propria iniziativa modalità di gestione differenti dalle caratteristiche peculiari della linea pattuita con i clienti, omettendo d’informarli, in contrasto con quanto previsto dall’art. 7 delle condizioni generali di contratto; in proposito, la Corte territoriale ha richiamato la relazione del c.t.u. nominato nel corso del giudizio, da cui risultava che la strategia d’investimento programmata, che prevedeva il ricorso ad un’ampia gamma di strumenti finanziari, soprattutto di natura derivata, anche per finalità diverse da quelle di copertura, era stata sostituita da un’allocazione di portafoglio sostanzialmente bilanciata tra strumenti azionari e obbligazionari, con la conservazione di un unico strumento di natura derivata, il cui peso risultava pari all’1,03% del valore complessivo del portafoglio titoli.

Tale comportamento, oltre a porsi in contrasto con le condizioni specificamente concordate tra le parti, costituisce violazione degli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24 per il servizio di gestione di portafogli, i quali comprendono, tra l’altro, quello di attenersi alle caratteristiche della gestione pattuita con il cliente ed alle istruzioni da lui impartite circa le operazioni da compiere, sì da potersi escludere che, in difetto di un’espressa manifestazione di volontà, lo stesso cliente possa pretendere dall’intermediario una modificazione unilaterale della precedente strategia d’investimento (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2012, n. 8237). Nell’ambito di tale contratto, le caratteristiche della linea d’investimento preventivamente concordata con il cliente (grado di rischio, benchmark, operazioni che l’intermediario può compiere senza autorizzazione preventiva, eventuali restrizioni, modalità di utilizzazione degli strumenti derivati, ricorso alla leva finanziaria) costituiscono infatti il parametro fondamentale cui l’intermediario deve attenersi nell’esecuzione del rapporto, nonché un termine di raffronto indispensabile ai fini della valutazione della diligenza del suo comportamento, godendo egli di una discrezionalità nell’impiego del capitale affidatogli, il cui esercizio impone di verificare, nell’ambito del predetto giudizio, anche se, avuto riguardo ai mutamenti eventualmente sopravvenuti nello scenario di mercato, il mantenimento nel portafoglio di determinati titoli precedentemente acquistati possa ritenersi conforme alla strategia pattuita e, in linea più generale, agli obblighi di correttezza gravanti sul gestore (cfr. Cass., Sez. I, 27/10/ 2020, n. 23568; 15/05/2020, n. 9024; 21/04/2016, n. 8089). Tale criterio è destinato d’altronde ad operare in una duplice direzione, ovverosia non solo in funzione del contenimento dei rischi che l’intermediario è autorizzato ad assumere, il quale gl’impone il compimento di scelte prudenziali, volte ad evitare d’incorrere in perdite superiori a quelle ritenute accettabili dall’investitore, sulla base della sua esperienza finanziaria e in conformità dei suoi obiettivi d’investimento, ma anche, in senso contrario, in funzione del raggiungimento di tali obiettivi, il quale gl’impone di cogliere le opportunità d’investimento di volta in volta offerte dal mercato finanziario, in modo tale da garantire al cliente la conservazione o l’incremento del capitale o rendimenti adeguati al livello di rischio concordato, in linea con le caratteristiche specifiche della gestione (cfr. Cass., Sez. I, 3/01/2017, n. 24; 24/02/2014, n. 4393).

Del resto, è proprio la rilevanza decisiva che, nell’ambito del contratto in esame, riveste l’indicazione delle caratteristiche della gestione, ai fini dell’individuazione degli obblighi di comportamento gravanti sull’intermediario, a giustificare la previsione dell’obbligo, posto a carico dell’intermediario dallo art. 28 del regolamento Consob, d’informare prontamente l’investitore, nel caso in cui il patrimonio affidatogli abbia subito una riduzione per effetto di perdite superiori ad una determinata percentuale del suo controvalore, e ciò essenzialmente al fine di consentirgli di determinarsi liberamente e consapevolmente in ordine all’eventuale esercizio della facoltà di recesso, oppure di concordare con lui eventuali modificazioni della strategia d’investimento, che l’intermediario non è autorizzato a variare di propria iniziativa ed all’insaputa del cliente, come accaduto nel caso in esame. E’ in quest’ottica che, pur avendo escluso la configurabilità di una violazione dell’art. 1711 c.c., la sentenza impugnata ha richiamato la valutazione espressa dal c.t.u., secondo cui la Banca non aveva rispettato pienamente il mandato conferitole dai ricorrenti, avendo progressivamente adottato come riferimento un benchmark inadeguato al profilo di rischio/rendimento della linea di gestione concordata: ed ha pertanto concluso per la sussistenza di un inadempimento della mandataria, consistente nell’aver adottato scelte d’investimento non del tutto in linea con quelle previste dal contratto, senza informare i clienti>>.

La Banca negligentemente ritarda l’esecuzione dell’ordine di vendita dato del cliente di vendita di azioni della Banca stessa

Trib. Bari con sentenz 15.11.20022, sent. nb° 4372/2022 – RG 11937/2018, decide la lite in oggetto, iniziata da clienti a cui era stata postposta l’esecuzione della vendita, per non riuscire più ad eseguirla ad alcun prezzo.

La negligenza è spiegata dal Triobnale ed è ovvia (per non dire del conflitto di interessi, per cui si sarà probabilmente trattato di dolo, non di colpa): l’ordine va eseguito il prima possibile.   IL Trib cita l’art. 21.1d) TUF , l’art. 1176.2 cc e la comuncaizone Consob DI/30396 del 2000.

Ex art. 23/6 TUF , l’onere di provare la propria diligenza spetta alla banca.

Interessante è la determinazione del danno, non semplicissima.

<Infatti, se è acclarato che l’ordine di vendita di Sportelli abbia subìto uno scavalco, dalla
documentazione in atti non è possibile sapere quanti altri risparmiatori abbiano subìto il medesimo
trattamento, considerato anche il lungo lasso temporale che è intercorso tra l’ordine dell’attore
(08.10.2015 – 05.11.2015) e il consistente ordine del quale il consulente ha verificato l’esecuzione
(18.03.2016).
Va peraltro ribadito che l’onere di provare la corretta esecuzione degli ordini secondo la priorità
cronologica acquisita era della Banca, ai sensi dell’art. 23 TUF.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, si può concludere che vi è una elevata probabilità che una
negoziazione vi sarebbe stata, ma non è probabile che, se tutti gli ordini fossero stati eseguiti, tutte le
azioni di Sportelli sarebbero state vendute, considerata la mole di ordini pervenuti alla banca e la
concreta possibilità che altri ordini siano rimasti ineseguiti.
Perciò, ipotizzando che le azioni avrebbero potuto essere negoziate al prezzo unitario di almeno €.
7,50, per un valore complessivo di €. 87.502,50 (come calcolato dal C.T.U.), il danno potrà essere
calcolato in una misura pari al 50% di tale importo, dovendosi assumere che tale percentuale, con
riguardo al particolare periodo ed al numero di richieste, misuri il grado di probabilità (la chance) per
l’attore di cedere le azioni.
Da tale somma, pari ad €. 43.751,25, non possono essere detratti i dividendi riscossi dal risparmiatore,
come richiesto dalla convenuta. Tale danno, infatti, non è un danno da perdita economica per
l’esecuzione di operazioni inadeguate e in mancanza dell’informativa richiesta dalla legge, ma è un
danno da perdita di un risultato utile, di un guadagno, che, con ogni probabilità, se la Banca fosse stata
adempiente, il cliente avrebbe conseguito.>

Una perdita di chance, pare (così dire lo stesso Trib.)

L’obbligo informativo opera per l’intermediario anche quando non fa consulenza ma solo l’esecutore di ordini

Così  Cass. sez. 1 del 05.05.2022 n. 14.208, rel. Falabella.

<<2.2. (…) L’obbligo informativo sussiste, poi, anche se l’intermediario non sia tenuto per contratto a prestare, in favore del cliente, un servizio di consulenza: infatti, ove l’investitore affidi all’intermediario il solo incarico di eseguire degli ordini, ma non anche quello di consulenza in relazione alla scelta dei prodotti finanziari da acquistare” il detto intermediario è comunque tenuto a fornire al primo adeguate informazioni sulle operazioni in sé, oltre che in ordine alla loro adeguatezza rispetto al suo profilo di rischio (Cass. 23 settembre 2016, n. 18702, con riguardo al reg. Consob n. 11522/1998).>>

Poi: << Come è noto, il reg. Consob n. 11522/1998 prevedeva, per l’intermediario, un obbligo di acquisizione di informazioni che non era graduato in ragione dell’operazione posta in essere. Il regolamento n. 16190 del 2007 distingue, invece, l’obbligo informativo a seconda del servizio prestato: per la prestazione dei servizi di consulenza e di gestione individuale di portafogli si richiede che l’intermediario acquisisca precise indicazioni dal cliente quanto alla conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento (art. 39) (…) . Nella prestazione degli altri servizi – salvi i servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione di ordini in ipotesi particolari (art. 43) – l’intermediario è tenuto invece a formulare un più sommario giudizio di appropriatezza, che è basato sul livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi che lo strumento o il servizio di investimento offerto o richiesto comporta (art. 42, comma 1).

La Corte di appello non si è occupata dell’appropriatezza dell’investimento consistente nell’acquisto delle obbligazioni (OMISSIS), ma ha formulato, piuttosto, un giudizio di adeguatezza: ha espresso quindi una valutazione che, per sua natura, non può che inerire al servizio di consulenza. Il punto, per la verità, non è del tutto chiaro: infatti, a norma dell’art. 1, comma 5 septies, t.u.f., la consulenza in materia di investimenti consiste in raccomandazioni personalizzate al cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative a strumenti finanziari; nella fattispecie, invece, la Corte di appello fa questione di una “operazione autonomamente richiesta dal cliente” (sentenza, pag. 13).

In ogni caso, la segnalazione di non adeguatezza, come quella di non appropriatezza, non è in sé idonea ad esonerare la banca dall’obbligo di sottoporre al cliente il corredo informativo che deve essere associato all’operazione o al servizio di investimento. In particolare, la somministrazione dei pertinenti elementi conoscitivi circa la natura e i rischi di una specifica operazione (nel caso in esame consistente nell’acquisto del titolo (OMISSIS)) assume un rilievo autonomo, in vista di razionali scelte di investimento o disinvestimento, e non è esclusa dalla rappresentazione della non adeguatezza o non appropriatezza di quell’operazione (nel quadro del giudizio che l’intermediario è tenuto a formulare a seconda che l’attività da compiersi consista, o meno, nel raccomandare i servizi di investimento e gli strumenti finanziari adatti al cliente o potenziale cliente, nella prestazione dei servizi di consulenza in materia di investimenti o di gestione di portafoglio).

Da tale autonomia discende il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui l’intermediario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari e, segnatamente, circa la natura di essi e i caratteri propri dell’emittente, restando irrilevante, a tal fine, ogni valutazione di adeguatezza – o, può qui aggiungersi, di appropriatezza – dell’investimento (cfr. Cass. 18 giugno 2018, n. 15936, che infatti sottolinea come l’assenza di una tale attività esplicativa integri una specifica e distinta ragione di inadempimento dell’intermediario).>>

Risarcimento del danno, cagionato dalla banca all’investitore per omesso avviso di aumento del rischio, e restituzione dei titoli

Importante insegnamento da Cass. sez. I , 5 maggio 2022, rel. Nazzicone sull’oggetto, anche se  del tutto in linea con le regole comuni sul risarcimento del danno.

Un investitore aveva chiesto i danni alla banca per non essere stato avvertito del peggioramento del rischio portato da un investimento obbligazionario, avvertimento cui la banca si era contrattualmente impegnata in base all’accordo c.d. <Patti Chiari>.

La banca tra le sue difese propone, per il caso di soccombenza, la domanda di restituzione dei titolo de quibus

La corte di appello respinge detta domanda restitutoria ma la Cass. la accoglie. E per la semplice ragione che l’investitore, avendo già ottenuto compensazione in toto del danno, non può trattenersi anche i titoli, se potrebbero in futuro avere qualche valore.  Ciò infatti determinebbe una ultra compensaizone e cioè un suo arricchimento, inammissibile in base all’art. 1223 cc

<<Se, invero, la restituzione costituisce applicazione del principio del ripristino dello status quo ante conseguente ad una pronuncia caducatoria del contratto, come indica l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, il quale espressamente richiama la disciplina dell’indebito (salvi gli adattamenti che possano ritenersi necessari nell’ambito di una restituzione conseguita a caducazione del contratto), non è men vero che i principi del risarcimento del danno – i quali richiedono che esso copra l’intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, a sua volta un indebito arricchimento del danneggiato (e’ appena il caso di rilevare come qui sia del tutto estraneo il tema dei c.d. danni punitivi) – implicano la necessità, in caso di condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, commisurato all’integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall’inadempimento dell’intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze) …

La restituzione dei titoli ha così lo scopo, sotto tale profilo, di commisurare il risarcimento all’effettivo danno patito.

A completamento di tali principi, occorre ora pure considerare, sul piano della esatta liquidazione del danno, come dovuta la restituzione dei titoli, pur al momento della decisione reputati privi di valore residuo e come tali non scomputati dal quantum liquidato: ciò, almeno tutte le volte in cui non sia stato, da parte del giudice del merito, altresì accertato non solo che quei titoli non avessero valore al momento della decisione, ma anche che essi siano insuscettibili di riacquistarlo in futuro in favore del cliente, ad esempio perché annullati, ceduti definitivamente o per altra ragione.

Onde occorre considerare, nella specifica situazione in esame, che il giudice del merito ha concluso nel senso che qualora la banca, in ipotesi controfattuale, avesse informato il cliente, in luogo che restare inerte, tempestivamente permettendogli di conoscere i rischi sopravvenuti – e, dunque, se la banca avesse adempiuto alla propria obbligazione informativa – il cliente avrebbe venduto i titoli, così incassando, secondo la ricostruzione sottesa alla sentenza impugnata, proprio la somma di Euro 79,00 a titolo obbligazionario, ma ovviamente privandosi, nel contempo, della titolarità dei titoli, in tale ipotetica operazione definitivamente alienati. Ed ha liquidato il danno in conformità.

Donde la regola del risarcimento integrale e non superiore del danno implica che, del pari, nella situazione patrimoniale del cliente i titoli non permangano, in quanto egli, bensì, incassi dalla controparte inadempiente l’equivalente dell’intero prezzo, ma, nel contempo, restituisca i titoli medesimi.

L’accertato valore nullo dei titoli ad una certa data, che abbia indotto la sentenza alla condanna al risarcimento pari all’integrale pagamento del prezzo ipoteticamente conseguibile a tale momento, in punto di fatto attiene unicamente il “valore zero” del titolo alla data della liquidazione, ma non in futuro, in quanto la illiquidità attuale di un prodotto finanziario non vuol dire mancanza di valore anche in epoca successiva. Invero, nonostante la perdita di valore al momento della decisione per il blocco dei pagamenti, i titoli possono, secondo l’id quod plerumque accidit, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo, posto che il default potrebbe avere comportato non già l’estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni…

La soluzione qui accolta ha, quindi, anche il fine dell’economia processuale, prevenendo future liti.

6.3. – Nell’ambito di una visuale sistematica, può dirsi altresì che la condanna al risarcimento del danno, pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contenga in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venir meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto a mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

In simili casi, la tutela ripristinatoria realizzata a favore del cliente si avvicina sensibilmente ad una tutela “reale”. Se funzionalmente la restituzione del valore investito serve indubbiamente a rimuovere un danno provocato, ciò si realizza con una tecnica che è in fatto ripristinatoria.

Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all’esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l’obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell’attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res.>>

Principio di diritto:

In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, in ragione dell’inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull’assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all’art. 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l’impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza“.

Resta oscuro, però: i) come possa dirsi venuto meno (risolto) il rapporto contrattuale (solo così infatti può ordinarsi la restituzione dei titoli), e ii) a chi incomba probatoriamente l’onere di provare che il titolo non avrà più valore.

Sub i) , si potrebbe ravvisare perdita di interesse reciproca sull’esecuzione del contratto inziale e dunque di risoluzione tacitamente accettata da entrambe le aprti (rectius: proposta tacitamente tramtie la domanda giudiziale dall’investitore e tacitamente accettata dalla banca tramite le difese svolte).

Sub ii), spetterà alla banca convenuta.

Investitore qualificato nel TUF e nel reg. Consob 11522 del 1998: rilevanza della dichiarazione in tal senso emessa dal cliente

In Cass. 20.249 del 15.07.2021, rel. Amatore, trovi precisazioni sul concetto di <OPERATORE QUALIFICATO> nel TUF ai fini della disciplina del servizio di investimento (art. 21 TUF e art. 31 reg. Consob 11522 del 1998):

<<Giova ricordare in termini generali che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nei contratti di intermediazione finanziaria, la dichiarazione formale di cui all’art. 31, comma 2, Reg. Consob n. 11522 del 1998 (applicabile “rationae temporis”), sottoscritta dal legale rappresentante, in cui si affermi che la società amministrata dispone della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in strumenti finanziari, vale ad esonerare l’intermediario dall’obbligo di effettuare per suo conto ulteriori verifiche al riguardo, gravando sull’investitore l’onere di provare elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario. Ne consegue che in giudizio, sul piano probatorio, l’esistenza dell’autodichiarazione è sufficiente ad integrare una prova presuntiva semplice della qualità di investitore qualificato in capo alla persona giuridica, gravando su quest’ultima l’onere di allegare e provare specifiche circostanze dalle quali emerga che l’intermediario conosceva, o avrebbe dovuto conoscere con l’ordinaria diligenza, l’assenza di dette competenze ed esperienze pregresse (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 8343 del 04/04/2018).

L’art. 31, comma 2, Reg. Consob n. 11522 del 1998 individua come operatore qualificato “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante”.

Dal rivestire tale qualifica discende – per la SC- l’inapplicabilità <<di numerose prescrizioni, come dispone l’art. 31, comma 1, del citato regolamento, vale a dire la previsione della forma scritta D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 23, la disciplina del conflitto di interessi (art. 27 reg. Consob), gli obblighi di informazione attiva e passiva (art. 28 reg. Consob), le previsioni in tema di operazioni inadeguate (art. 29 reg. Consob). La legge prevede forme di tutela differenziata, sulla base della vigilanza regolamentare svolta dalla Consob, riconoscendo la necessità di graduare la tutela giuridica offerta alla clientela degli intermediari finanziari, in particolare nei casi in cui il cliente sia già, di per sé, in grado di riconoscere e valutare le caratteristiche e i rischi specifici dell’operazione finanziaria proposta dall’intermediario.

Occorre anche ricordare la differenza di trattamento, nel vigore del reg. n. 11522 del 1998, delle persone giuridiche dalle persone fisiche, quanto alla qualità di operatore qualificato. Mentre, per le prime, la disposizione richiede una dichiarazione per scritto del cliente (c.d. autoreferenziale), per le persone fisiche l’accento è posto direttamente sul possesso delle effettive qualità, che vanno rese note (“documentino”) all’intermediario, non rilevando la mera autodichiarazione (cfr., al riguardo, infatti, il diverso principio di diritto enunciato da Cass. 27 ottobre 2015, n. 21887).

Secondo questa Corte, nel vigore dell’analogo disposto di cui all’art. 13 del regolamento Consob approvato con delibera 2 luglio 1991 n. 5387, è sufficiente, ai fini dell’appartenenza del soggetto alla categoria delle persone giuridiche aventi la veste di operatore qualificato, l’espressa dichiarazione scritta richiesta dal regolamento, la quale esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in suo possesso, e permette al giudice ex art. 116 c.p.c. di ritenere sussistente detta qualità (Cass. 26 maggio 2009, n. 12138). Tale sentenza, dunque, ha ritenuto la dichiarazione dell’investitore sufficiente sia per esonerare l’intermediario dal compiere accertamenti ulteriori al riguardo, sia per ritenere provata in giudizio la qualità, anche come unica e sufficiente fonte di prova. A fronte della menzionata dichiarazione scritta per le persone giuridiche, la sentenza sopra ricordata ha dunque reputato come la dichiarazione autoreferenziale dell’investitore, la quale attesti, nella fase genetica del contratto, di essere un operatore qualificato ai fini della normativa di settore, integri una presunzione semplice di tale qualità (cfr. sempre, Cass. n. 8343/2018).>>

Conflitto di interessi dell’intermediario e risarcimento dei danni cagionati

Cass. 20.251 del 15.07.2021 rel. Marulli, decide una lite sul conflitto di interessi (cdi)  tra intermediario (I.)  e cliente, regolato dalla’rt. 21.1bis TUF e spt. dall’art. 23 reg. congiunto BANCA D’ITALIA E DELLA CONSOB AI SENSI DELL’ARTICOLO 6, COMMA 2-BISTUF del 29.10.2007.

Detto art. 23 recita: << 1.  Gli intermediari adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o tra clienti, al momento della prestazione di qualunque servizio e attività di investimento o servizio accessorio o di una combinazione di tali servizi.
2. Gli intermediari gestiscono i conflitti di interesse anche adottando idonee misure organizzative e assicurando che l’affidamento di una pluralità di funzioni ai soggetti rilevanti impegnati in attività che implicano un conflitto di interesse non impedisca loro di agire in modo indipendente, così da evitare che tali
conflitti incidano negativamente sugli interessi dei clienti.
3. Quando le misure adottate ai sensi del comma 2 non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano>>

Per l’I., non c’era più l’obbligo di astensione in caso di cdi (§ 3.1) a seguito di modifiche normtive.

Per contro, la SC precisa che semplicemente è stato ritenuto sufficiente il consenso tacito, nulla di meno.

Dice la SC: <<L’art. 23 Reg. congiunto, nel testo applicabile alla specie, non ha affatto abdicato al principio “disclose or abstain” alla base della previgente disciplina del conflitto di interesse risultante dall’art. 27 Reg. Consob 1 luglio 1998, n. 11522, ma nel quadro di una riorganizzazione di essa fondata sul principio della prevenzione si è passati, quanto alla posizione dell’investitore, da un’impostazione basata sul principio del consenso espresso ad un’impostazione basata ora sul principio del consenso tacito.

In ragione dei mutamenti che attraversano senza sosta il mercato finanziario e che rendono il conflitto di interessi una dimensione potenzialmente presente in qualunque contrattazione finanziaria, l’intento dei riformatori si è infatti indirizzato in direzione di un’attualizzazione della relativa disciplina per mezzo principalmente di un’accresciuta responsabilizzazione degli intermediari, chiamati, qui, come già più in generale previsto dall’art. 21, comma 1 bis, TUF, ad adottare “ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o tra clienti” (art. 23, comma 1) e a gestire “i conflitti di interessi anche adottando idonee misure organizzative… da evitare che tali conflitti incidano negativamente sugli interessi dei clienti” (art. 23, comma 2); e ciò non senza, però, fare nel contempo salva l’avvertenza che “quando le misure adottate ai sensi dell’art. 2 non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano” (art. 23, comma 3).

Quest’ultima disposizione rafforza la convinzione che l’intermediario che intenda promuovere la conclusione di un’operazione in conflitto di interessi deve informarne previamente il cliente (“gli intermediari informano chiaramente i clienti prima di agire per loro conto”) e solo dopo averne ottenuto il consenso (“possano assumere una decisione informata”) l’operazione può avere seguito. E’ vero, a questo riguardo, che la norma non ne fa cenno, ma la prestazione del consenso è implicitamente presupposta dalla circostanza che l’intermediario non può agire se non dopo aver posto il cliente nella condizione di prendere una decisione informata, che non può che essere perciò espressione di assenso da parte sua, dato che diversamente l’intermediario si troverebbe nella condizione di non potere portare a termine l’operazione. Il passaggio normativo rilevante sta piuttosto nel fatto non già che l’intermediario possa prescindere dal consenso dell’investitore, ma che quel consenso che in precedenza doveva essere prestato in forma espressa oggi può essere manifestato anche per mezzo di un comportamento concludente, quale è da ravvisarsi nel fatto che l’investitore, debitamente notiziato della conflittualità dell’operazione, non si opponga ad essa e ne autorizzi così tacitamente la conclusione. Il che e’, all’evidenza, cosa ben diversa da quella predicata dal motivo, persistendo in difetto di /’disclosure,, il dovere dCabstain,, dell’intermediario, che non può infatti effettuare l’operazione in conflitto di interessi se non dopo aver informato il cliente ed avere da questo ottenuto, sia pure per effetto di un comportamento concludente, il consenso alla sua esecuzione.>>

Inoltre  circa la censura dell’aver ravvisato nesso di causa in re ipsa tra inadempimento e danno, quando dovere di astensione -per il ricorrente- non c’era, la SC ribadisce sia il dovere di astensione che la esattezza della tesi della causalità in re ipsa.

Così motiva:  <<Esso riposa su un presupposto (l’insussistenza di un dovere di astensione da parte dell’intermediario in caso di conflitto di interessi) del tutto inveritiero come si è spiegato rigettando il secondo motivo di gravame, non avendo il legislatore – e, per esso, le autorità delegate all’adozione dei provvedimenti attuativi – con le disposizioni regolanti la specie inteso disgiungere l’obbligo di trasparenza, che impone di informare il cliente che l’operazione avviene in conflitto di interessi, ed il dovere di astensione ove il cliente non sia posto in condizione di prendere una decisione informata, prestando il proprio consenso all’operazione. Sicché, come bene ha indicato il P.M. una volta “individuato l’oggetto della tutela che è la consapevole e compiuta informazione del cliente su ogni aspetto dell’operazione in strumenti finanziari, la violazione delle misure apprestate in quella direzione e delle regole poste per impedire il pericolo del pregiudizio definisce come tale la responsabilità del soggetto intermediario o collocatore a titolo omissivo”.

Ciò del resto rispecchia un intendimento già enunciato da questa Corte in relazione alla fattispecie a suo tempo prevista dall’art. 27 Reg. Consob 11522/1998, che postulava, non diversamente del resto da quanto si è osservato in relazione alle disposizioni applicabili al caso di specie, l’obbligo dell’intermediario di astenersi dalle operazioni in conflitto di interessi se non debitamente autorizzate dall’investitori. In tali ipotesi si sosteneva, sottolineandosi segnatamente la peculiarità di essa rispetto alla violazione degli obblighi informativi più generalmente previsti a carico dell’intermediario, ove, come si è ricordato ancora di recente, la funzione dei medesimi di colmare l’asimmettria informativa tra le parti è foriera solo di una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio (Cass., Sez. I, 17/04/2020, n. 7905), “la violazione dell’obbligo giuridico di astensione a carico dell’intermediario esclude la necessità dell’accertamento del nesso causale, da ritenersi in “re ipsa“; invece nella differente ipotesi dell’inosservanza dell’obbligo di informazione attiva, specificamente prevista dall’art. 28, comma 2, del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, l’esistenza del nesso causale andrà accertata in concreto, non potendosi escludere che l’investitore, una volta correttamente informato, avrebbe deciso di dar corso ugualmente all’investimento”.

Ne’ vi è ragione di deflettere da siffatto indirizzo in considerazione dei visti mutamenti normativi, poiché come si è precisato, rigettando il secondo motivo di ricorso, il principio in virtù del quale le operazioni in conflitto di interessi non possono avere seguito senza il consenso dell’investitore non è stato accantonato, ma ha solo visto mutare il suo assetto, con la conseguenza che l’operazione posta in essere dall’intermediario in una situazione di conflitto di interessi del quale egli non abbia previamente informato l’investitore e rispetto al compimento della quale, sia pure nella vista forma del consenso tacito, egli non sia stato perciò autorizzato, qualora si riveli pregiudizievole, è fonte di indubbia responsabilità dell’intermediario, dato che solo l’adesione ad essa dell’investitore recide il nesso di causalità altrimenti sussistente tra la violazione dello specifico obbligo informativo a cui è tenuto l’intermediario nel dar corso ad un’operazione in conflitto di interessi e il danno che ne patisce l’investitore.>>

<Indubbia responsabilità>, però, è eccessivo: la responsabilità c’è solo se c’è danno. E’ fonte di eventuale danno <indubbiamente collegato da nesso causale alla violazione>, semmai.

Sul quantum:

<<La Corte d’Appello, nel confermare sul punto l’assunto del giudice di primo grado e nel ritenere quindi corretta la liquidazione del danno patito dal R. nella differenza tra quanto investito e quanto riscosso, mostra di condividere il criterio più generalmente enunciato in materia da questa Corte, che ne raccomanda la parametrazione “in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento del relativo acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria” (Cass., Sez. I, 14/11/2018, n. 29353).>>.

Nell’indirizzarsi in questa direzione la C. di appello <<ha dato forma ad un giudizio di valore che basandosi sull’apprezzamento di circostanze di fatto emerse nel corso della vicenda sostanzia un accertamento di merito non suscettibile di essere sindacato da parte questa Corte, tanto più considerando che la pretesa “potenzialità” del danno, eccepita dalle ricorrenti nel formulare il motivo, è tale non già in forza dei dati concreti disponibili al momento della decisione ma in ragione di ipotetici e non prevedibili rimborsi futuri, sicché, come ancora annota il PM, potenziale non è il danno liquidato dal decidente ma, potenziali sono semmai gli ulteriori rimborsi che l’investitore potrebbe essere deputato a ricevere in futuro.>>.

Pertanto, motivo di ricorso inammissibile.

La consulenza della banca per gli investimenti: solo fino alla scelta iniziale o anche dopo?

la Cassazione ha chiarito che l’art. 21 TUF (d. lgs. 58/1998) non obbliga la banca a fare consulenza ai clienti in relazione all’andamento dei titoli in cui hanno investito. Si tratta di Cass., I, 27.08.2020 n. 17.949, rel. Nazzicone, R.F. c. Unicredit.

L?art. 21 TUf, comma 1, così recita:

Nella prestazione dei servizi e delle attivita' di  investimento
e accessori i soggetti abilitati devono: 
    a) comportarsi con  diligenza,  correttezza  e  trasparenza,  per
servire al meglio l'interesse dei  clienti  e  per  l'integrita'  dei
mercati; 
    b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare  in
modo che essi siano sempre adeguatamente informati; 
    c)  utilizzare   comunicazioni   pubblicitarie   e   promozionali
corrette, chiare e non fuorvianti; 
    d) disporre di risorse e procedure, anche di  controllo  interno,
idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento  dei  servizi  e  delle
attivita'.

Dunque obbliga le banche si ad agire al meglio per gli interessi dei clienti; ma una vota deciso ed effettuato l’investimento, l’obbligo della banca cessa.

E’ allora errata la tesi del rirrente, dice la SC, <laddove sostiene la tesi della  perduranza dell’obbligo informativo della banca per tutta la durata dell’investimento, affermando che l’intermediario sarebbe tenuto, pur al di fuori di un rapporto di gestione patrimoniale, a consigliare tempo per tempo al cliente se mantenere, o cedere il titolo finanziario>.

Per la Corte è infatti esatto il principio (già affermato -lo ricorda- da Cass. 24 aprile 2018, n. 10112 e Cass. 22 febbraio 2017, n. 4602), <secondo cui “In materia di investimenti finanziari, gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, 1 comma, lett. b), sono finalizzati a consentire all’investitore di operare investimenti pienamente consapevoli, sicchè tali obblighi, al di fuori del caso del contratto di gestione e di consulenza in materia di investimenti, vanno adempiuti in vista dell’investimento e si esauriscono con esso”.>>

Ne segue, conclude la Corte, che, <salvo che operi in forza di contratto di gestione patrimoniale o di consulenza, l’intermediario non è tenuto anche ad informare, tempo per tempo, l’investitore circa l’andamento dei titoli acquistati, in ipotesi di abbassamento del loro rating o rischio di default dell’emittente>>

Nullità dell’ordine di investimento per carenza di forma scritta del contratto-quadro (art. 23 TUF): si sono pronunciate le Sezioni Unite

Con sentenza 04.11.2019 n. 28.314 la Corte di Cassazione a sezioni unite ha deciso sul tema in oggetto: precisamente sull’individuazione dei limiti alla propagazione della nullità del contratto quadro ai successivi ordini di acquisto.

La questione di massima sottopostale è quella di cui al secondo motivo di ricorso:  <<Il contrasto che si è determinato all’interno della prima sezione riguarda, come già rilevato, la legittimità della limitazione degli effetti derivanti dall’accertamento della nullità del contratto quadro ai soli ordini oggetto della domanda proposta dall’investitore, contrapponendosi a tale impostazione, quella, ad essa alternativa, che si fonda sull’estensione degli effetti di tale dichiarazione di nullità anche alle operazioni di acquisto che non hanno formato oggetto della domanda proposta dal cliente, con le conseguenze compensative e restitutorie che ne possono derivare ove trovino ingresso nel processo come eccezioni o domande riconvenzionali>> (§ 6 , § 11)

Il nucleo centrale della divergenza risiede dunque <<proprio nella diversa declinazione dell’ambito di operatività delle nullità di protezione, in relazione alla correlazione tra legittimazione e propalazione degli effetti. Ove si ritenga che il regime di protezione si esaurisca nella legittimazione esclusiva del cliente (o nella rilevabilità d’ufficio, nei limiti precisati nel par.15.2) a far valere la nullità per difetto di forma, una volta dichiarata l’invalidità del contratto quadro, gli effetti caducatori e restitutori che ne derivano possono essere fatti valere da entrambe le parti. Il principio, posto a base dell’accurata requisitoria dell’Avvocato Generale, è stato così espresso in Cass. n. 6664 del 2018: “una volta che sia privo di effetti il contratto d’intermediazione finanziaria destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti in quanto esso sia dichiarato nullo, operano le regole comuni dell’indebito (art. 2033 c.c.) non altrimenti derogate. La disciplina del pagamento dell’indebito è invero richiamata dall’art. 1422 c.c.: accertata la mancanza di una causa adquirendi- in caso di nullità (…) l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione dello stesso è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo; la pronuncia del giudice è l’evenienza che priva di causa giustificativa le reciproche obbligazioni dei contraenti e dà fondamento alla domanda del solvens di restituzione della prestazione rimasta senza causa” >> (§ 17.1.1.).

L’opinione contraria si fonda invece <<sull’operatività piena, processuale e sostanziale, del regime giuridico delle nullità di protezione esclusivamente a vantaggio del cliente (nella specie dell’investitore), anche ove l’invalidità riguardi l’intero contratto. L’intermediario non può avvalersi della dichiarazione di nullità in relazione alle conseguenze, in particolare restitutorie, che ne possono scaturire a suo vantaggio, dal momento che il regime delle nullità di protezione opera esclusivamente in favore dell’investitore. Il contraente privo della legittimazione a far valere le nullità di protezione può, di conseguenza, subire soltanto gli effetti della dichiarazione di nullità selettivamente definiti nell’azione proposta dalla parte esclusiva legittimata, non potendo far valere qualsiasi effetto “vantaggioso” che consegua a tale declaratoria. L’indebito, così come previsto nell’art. 1422 c.c., può operare solo ove la legge non limiti con norma inderogabile la facoltà di far valere la nullità ed i suoi effetti in capo ad uno dei contraenti, essendo direttamente inciso dallo “statuto” speciale della nullità cui si riferisce. Le nullità di protezione sono poste a presidio esclusivo del cliente. Egli ex lege ne può trarre i vantaggi (leciti) che ritiene convenienti. La selezione degli ordini sui quali dirigere la nullità è una conseguenza dell’esercizio di un diritto predisposto esclusivamente in suo favore. Una diversa interpretazione del sistema delle nullità di protezione condurrebbe all’effetto, certamente non voluto dal legislatore, della sostanziale abrogazione dello speciale regime d’intangibilità ed impermeabilità proprio delle nullità di protezione (Cass. 8395 del 2016). In particolare, con riferimento alla tipologia contrattuale oggetto del presente giudizio, l’investitore, ove fosse consentito all’intermediario di agire ex art. 2033 c.c., non potrebbe mai far valere il difetto di forma di alcuni ordini in relazione ad un rapporto di lunga durata che abbia avuto parziale esecuzione, perchè le conseguenze economico patrimoniali sarebbero per lui verosimilmente quasi sempre pregiudizievoli, così vanificandosi la previsione legale di un regime di protezione destinato ad operare a suo esclusivo vantaggio>> (§ 17.1.2).

Il Collegio ricorda che c’è una terza opinione: <<18. Vi è una terza opzione che rinviene nel principio della buona fede, variamene declinato, lo strumento più adeguato, per affrontare il tema dell’uso eventualmente distorsivo dello strumento delle nullità di protezione in funzione selettiva, perchè, senza alterarne il regime giuridico ed in particolare l’unilateralità dello strumento di tutela legislativamente previsto, consente, per la sua adattabilità al caso concreto, di ricostituire l’equilibrio effettivo della posizione contrattuale delle parti, impedendo effetti di azioni esercitate in modo arbitrario o nelle quali può cogliersi l’abuso dello strumento di “protezione” ad esclusivo detrimento dell’altra parte>>

In breve, il dubbio è se il favor per il cliente/investitore è solo processuale nel senso che riguarda solo la legittimazione a sollevare la nullità (con la conseguenza che anche l’intermdiario può chiedere le restituzioni conseguenti) oppure riguarda anche gli effetti di diritto sostanziale (per cui le restituzioni disponibili dal giudice son solo quelle a favore del cliente).

Il testo applicabile ratione temporis dell’art. 23 TUF è: <<1. I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo.   2.  E’ nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tal casi nulla è dovuto.   3.   Nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente>>.

Il Collegio iniziando ad affrotnare la questione, ritiene <<che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento debba essere affrontata assumendo come criterio ordinante l’applicazione del principio di buona fede, al fine di accertare se sia necessario alterare il regime giuridico peculiare di tale tipologia di nullità, sotto il profilo della legittimazione e degli effetti, per evitare che l’esercizio dell’azione in sede giurisdizionale possa produrre effetti distorsivi ed estranei alla ratio riequilibratrice in funzione della quale lo strumento di tutela è stato introdotto>> (§ 17).

Opta quindi  preliminarmente per <<escludere entrambe le opzioni che prescindono del tutto dalla considerazione del principio di buona fede o perchè negano la legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione fino al riconoscimento del diritto a richiedere la ripetizione dell’indebito in relazione agli investimenti non selezionati dall’investitore ma travolti dalla nullità del contratto quadro, o perchè ne considerano legittima l’azione senza alcun limitazione, ritenendo tale soluzione l’unica coerente con l’operatività ad esclusivo vantaggio del cliente delle nullità di protezione. In contrasto con le tesi criticate, il Collegio reputa che la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento, possa essere risolta ricorrendo, come criterio ordinante, al principio di buona fede, da assumere, tuttavia, in modo non del tutto coincidente con le illustrate declinazioni dell’exceptio doli generalis e dell’abuso del diritto>> (§ 22)

Ritiene allora di dover ribadire <<22.1 … che, in relazione ai contratti d’investimento che costituiscono l’oggetto del presente giudizio, della dichiarata invalidità del contratto quadro, ancorchè accertata con valore di giudicato, come già rilevato nei par.13 e 13.1, può avvalersi soltanto l’investitore, sia sul piano sostanziale della legittimazione esclusiva che su quello sostanziale dell’operatività ad esclusivo vantaggio di esso. 22.2  L’uso selettivo del rilievo della nullità del contratto quadro non contrasta, in via generale, con lo statuto normativo delle nullità di protezione ma la sua operatività deve essere modulata e conformata dal principio di buona fede secondo un parametro da assumersi in modo univoco e coerente. Ove si ritenga che l’uso selettivo delle nullità di protezione sia da stigmatizzare ex se, come contrario alla buona fede, solo perchè limitato ad alcuni ordini di acquisto, si determinerà un effetto sostanzialmente abrogativo del regime giuridico delle nullità di protezione, dal momento che si stabilisce un’equivalenza, senza alcuna verifica di effettività, tra uso selettivo delle nullità e violazione del canone di buona fede. Deve rilevarsi, tuttavia, l’insufficienza anche della esclusiva valorizzazione della buona fede soggettiva, ove ravvisabile solo se si dimostri un intento dolosamente preordinato a determinare effetti pregiudizievoli per l’altra parte>>.

Ed allora se nè l’uso selettivo della nullità è di per sè contrario a buona fede, nè rileva l’intento soggettivo di dannegiare la controparte, come si potrà distinguere la domanda conforme a buona fede da quella ad essa contraria?

Le sezioni unite provano a rispondere così:

<< 22.3  Al fine di modulare correttamente il meccanismo di riequilibrio effettivo delle parti contrattuali di fronte all’uso selettivo delle nullità di protezione, non può mancare un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato. In questa ultima ipotesi deve ritenersi che l’investitore abbia agito coerentemente con la funzione tipica delle nullità protettive, ovvero quella di operare a vantaggio di chi le fa valere. Pertanto, per accertare se l’uso selettivo della nullità di protezione sia stato oggettivamente finalizzato ad arrecare un pregiudizio all’intermediario, si deve verificare l’esito degli ordini non colpiti dall’azione di nullità e, ove sia stato vantaggioso per l’investitore, porlo in correlazione con il petitum azionato in conseguenza della proposta azione di nullità. Può accertarsi che gli ordini non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto un rendimento economico superiore al pregiudizio confluito nel petitum. In tale ipotesi, può essere opposta, ed al solo effetto di paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, l’eccezione di buona fede, al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso. Può, tuttavia, accertarsi che un danno per l’investitore, anche al netto dei rendimenti degli investimenti relativi agli ordini non colpiti dall’azione di nullità, si sia comunque determinato. Entro il limite del pregiudizio per l’investitore accertato in giudizio, l’azione di nullità non contrasta con il principio di buona fede. Oltre tale limite, opera, ove sia oggetto di allegazione, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede. Ne consegue che, se, come nel caso di specie, i rendimenti degli investimenti non colpiti dall’azione di nullità superino il petitum, l’effetto impeditivo è integrale; [in realtà qui c’è una virgola ma è un errore] ove invece si determini un danno per l’investitore, anche all’esito della comparazione con gli altri investimenti non colpiti dalla nullità selettiva, l’effetto paralizzante dell’eccezione opererà nei limiti del vantaggio ingiustificato conseguito.>>

Nel § seguente la S.C. sintetizza così l’insegnamento appena offerto: <<23.  Anche in relazione al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3, il regime giuridico delle nullità di protezione opera sul piano della legittimazione processuale e degli effetti sostanziali esclusivamente a favore dell’investitore, in deroga agli artt. 1421 e 1422 c.c. L’azione rivolta a far valere la nullità di alcuni ordini di acquisto richiede l’accertamento dell’invalidità del contratto quadro. Tale accertamento ha valore di giudicato ma l’intermediario, alla luce del peculiare regime giuridico delle nullità di protezione, non può avvalersi degli effetti diretti di tale nullità e non è conseguentemente legittimato ad agire in via riconvenzionale od in via autonoma ex artt. 1422 e 2033 c.c.. I principi di solidarietà ed uguaglianza sostanziale, di derivazione costituzionale (artt. 2,3,41 e 47 Cost., quest’ultimo con specifico riferimento ai contratti d’investimento) sui quali le S.U., con la pronuncia n. 26642 del 2014, hanno riposto il fondamento e la ratio delle nullità di protezione operano, tuttavia, anche in funzione di riequilibrio effettivo endocontrattuale quando l’azione di nullità, utilizzata, come nella specie, in forma selettiva, determini esclusivamente un sacrificio economico sproporzionato nell’altra parte. Limitatamente a tali ipotesi, l’intermediario può opporre all’investitore un’eccezione, qualificabile come di buona fede, idonea a paralizzare gli effetti restitutori dell’azione di nullità selettiva proposta soltanto in relazione ad alcuni ordini. L’eccezione sarà opponibile, nei limiti del petitum azionato, come conseguenza dell’azione di nullità, ove gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti dall’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore. Ove il petitum sia pari od inferiore ai vantaggi conseguiti, l’effetto impeditivo dell’azione restitutoria promossa dall’investitore sarà integrale. L’effetto impeditivo sarà, invece, parziale, ove gli investimenti non colpiti dall’azione di nullità abbiano prodotto risultati positivi ma questi siano di entità inferiore al pregiudizio determinato nel petitum. 

L’eccezione di buona fede operando su un piano diverso da quello dell’estensione degli effetti della nullità dichiarata, non è configurabile come eccezione in senso stretto non agendo sui fatti costitutivi dell’azione (di nullità) dalla quale scaturiscono gli effetti restitutori, ma sulle modalità di esercizio dei poteri endocontrattuali delle parti. Deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione>>.

A chiusura della sentenza, la SC formula il principio di diritto ex art. 384 cpc: << “La nullità per difetto di forma scritta, contenuta nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3, può essere fatta valere esclusivamente dall’investitore con la conseguenza che gli effetti processuali e sostanziali dell’accertamento operano soltanto a suo vantaggio. L’intermediario, tuttavia, ove la domanda sia diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, può opporre l’eccezione di buona fede, se la selezione della nullità determini un ingiustificato sacrificio economico a suo danno, alla luce della complessiva esecuzione degli ordini, conseguiti alla conclusione del contratto quadro” >> (§ 24).

La sintesi operativa dovrebbe allora essere la seguente:

A) qualora il guadagno derivante dagli investimenti, di cui non è chiesta la nullità, sia (pari o) maggiore della perdita relativa a quelli, di cui invece è chiesta, l’intermediario può paralizzare integralmente la domanda del cliente perchè contraria a buona fede;

B) nel caso opposto, può paralizzare la domanda di nullità solo fino a concorrenza dei guadagni ottenuti dagli investimenti, per cui la nullità non è chiesta; in tal caso allora la domanda di nullità e restituzione potrà essere accolta solo per il supero.