E’ difficile ottenere dagli ex amministratori il risarcimento dei danni per violazione del dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2381 cc

Trib. Bologna sent. 1821/2021 del 30.07.2021, RG 11424/2017, rel. Romagnoli, affronta tra gli altri anche il tema inoggetto.ù

<<1. OMESSA PREDISPOSIZIONE DEGLI ASSETTI 2381/5° co. c.c. e SOVVERTIMENTO DEGLI EQUILIBRI TRA CDA e AMM DELEGATI – Quanto agli addebiti ex art. 2381 c.c. il FALLIMENTO attribuisce agli amministratori la dupliceviolazione dell’art 2381 c.c. commi 3 e 5, per avere il Cda da un lato con delibera 9.5.2007 delegato leproprie attribuzioni a tutti i propri componenti, con ciò deprivando il consiglio delle proprieattribuzioni di controllo sull’operato dei delegati (co. 3) e dall’altro per non avere curato l’assettoorganizzativo, amministrativo e contabile in modo adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa (co. 5).

Sul punto è necessario sinteticamente delineare la fisionomia e il progetto imprenditoriale della società. La società è stata costituita nel 2001 tra 5 soci noti imprenditori edili (coop Ansaloni, CostruzioniSveco Buriani, Costruzioni Di Giansante, Impresa Montanari) già operanti sul territorio bolognesespecie nell’edilizia pubblica e convenzionata.

Viene costituita in srl con capitale iniziale di 80 mila euro e nel 2004 si trasforma in spa con capitale di500 mila euro (poi aumentato nel 2009 a 2,5 mio).  Emerge con chiarezza in atti che il progetto imprenditoriale è quello di cogliere le opportunità offertedalla nuova legislazione urbanistica LR 20/2000 che introduce i nuovi strumenti di programmazioneurbanistica (PSC, POC e RUE) al posto dei vecchi PRG, con il fine di procurare alle imprese socie ilavori di realizzazione dei nuovi interventi di sviluppo urbanistico del territorio.

Orbene, il dovere di predisporre assetti interni adeguati (che il FALLIMENTO sembra assumereviolato limitatamente all’assetto organizzativo e amministrativo) è chiaramente finalizzato alla tempestiva verifica dei sintomi di crisi dell’impresa e alla tempestiva adozione degli interventi dirimedio; non è, cioè, un obbligo astratto, né risponde a parametri predeterminati e nella fattispecie non è precisato in quale modo, e con quali accorgimenti gli assetti interni sarebbero stati più adeguati o lacrisi dell’impresa rilevata più tempestivamente.

Né è dato sostenere che gli amministratori avrebbero tout court omesso di predisporre assetti interni adeguati – “quantomeno quello organizzativo e amministrativo” – perché la società aveva una struttura semplice, senza distinzione di mansioni né di aree di competenza, né personale alle sue dipendenze.          Osserva il collegio che ciò si deve alla finalità primaria per cui è stata costituita, quella di cogliere le opportunità offerte dalla nuova legislazione urbanistica del territorio bolognese all’indomani dell’approvazione della LR 20/2000 e, verosimilmente, alla circostanza che la società non è mai giuntaa realizzare l’obiettivo della progettazione e realizzazione dei nuovi insediamenti urbanistici.

Ad ogni modo, osserva il collegio che la norma ove prevede che gli assetti debbano essere adeguati allanatura e alle dimensioni dell’impresa chiaramente rimanda ad una valutazione nel concreto ed alla necessaria individuazione di carenze che abbiano ragionevolmente posticipato l’emersione del dissesto;

in ogni caso, e conclusivamente, osserva il collegio che l’obbligo di predisporre assetti adeguati non può essere svincolato dalle conseguenze pregiudizievoli che direttamente la sua violazione possa avere determinato, cosicchè nella fattispecie la mancata allegazione di alcun danno (che il FALLIMENTO esplicita essere richiesto unicamente per le acquisizioni dei terreni, su cui infra) conduce a ritenere infondato l’addebito di responsabilità.

Quanto alla violazione dell’art. 2381 c.c. là dove demanda al consiglio di amministrazione il controllo sull’operato degli amministratori delegati (3° co.) – che nella fattispecie sarebbe stato eluso con il conferimento a tutti gli amministratori, presidente compreso, disgiuntamente tra loro, di ampie deleghedi ordinaria e straordinaria amministrazione (doc. 11 FALL.) – basti osservare che la norma non impone la composizione “mista” del consiglio, composto da amministratori delegati e da amministratori privi di deleghe e che il CdA, come organo collegiale, non perde la sua autonomia né isuoi poteri di impulso e controllo sull’attività dei suoi delegati per il fatto di essere compostounicamente da AD;    nella fattispecie, inoltre, emerge dai verbali del CdA (prodotti dal FALLIMENTO)che gli amministratori delegati riferivano analiticamente in collegio sull’attività espletata e in particolare che le operazioni inerenti i terreni acquisiti o da acquisire erano approvate all’unanimità deicomponenti, ciò che dimostra che l’attività di controllo del CdA come organo collegiale veniva regolarmente espletata.

In ultima analisi, osserva il collegio che non sono censurati singoli atti compiuti dagli amministratori in virtù delle deleghe operative che non siano stati oggetto di verifica da parte del CdA e soprattutto che,ancora una volta, non viene allegato alcun danno derivante dalla pretesa violazione, sicchè l’addebitoancora una volta si apprezza infondato>>.

Piccolo appunto.   Prima di ragionar sul danno, bisogna individuare l’inadempimento. E trattandosi di assetti asseritamente inadeguati (o mancanti del tutto) , il giudice avrebbe allora dovuto affrontare il tema della esistenza o meno di negligenza organizzativa (a prescidere dal danno, lo ripeto): cosa che non ha fatto, essendo rimasto assai sulle generiche.

La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Auditing sul business etico e intelligenza artificiale: uno studio su una prassi che diverrà sempre più attuale

Uno studio recente affronta un tema,  che (non è previsione difficile) diverrà sempre più importante, quello dell’auditing dei processi applicativi della intelligenza artificiale:  Mökander, J., Floridi, L. Operationalising AI governance through ethics-based auditing: an industry case study. AI Ethics (2022). https://doi.org/10.1007/s43681-022-00171-7 .

Qui trovi ampia bibligrafia sui lavori anteriori e menzione alle note 75-76 delle proposte di legge UE e USA su disciplina armonizzata della IA e rispettivamente su algorithimic accountability .

Precisamente, riferiscono di un lavoro di 12 mesi svolto presso il colosso farmaceutico britannico AstraZeneca relativo alla AI ethic audit (v. § 4).

Gli aa. tengono a precisare che si tratta di “Ethic” AI auditing e che il profilo centrale è quello di organizzare la corporate governnace in funzione di un corretto utilizzo dell ‘AI (v. § 6.4  e § 8 Conclusions)

Sulla natura contrattuale del rapporto di amministrazione nelle società di capitali

Cass. n. 14.592 del 09.05.2022, rel. Nazzicone,  offre qualche delucidazione sull’oggetto.

La natura contrattuale è incontestabile , nonostante qualche contraria originale dottrina passata.

<Non vi è dubbio che il rapporto di amministrazione, di natura contrattuale, si instauri mediante l’incontro dei consensi, avendo l’accettazione la funzione di perfezionare il relativo accordo. Invero, come questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 22 maggio 2001, n. 6928), l’accettazione della nomina ad amministratore di una società è necessaria, avendo i poteri degli amministratori fonte contrattuale.

L’accettazione della nomina non è oggetto di una specifica disciplina nell’art. 2364 c.c., né nell’art. 2383 c.c., laddove si occupano della nomina e della revoca degli amministratori; lo stesso è a dirsi con riguardo agli artt. 2475 e 2479 c.c., in tema di società a responsabilità limitata.>

La SC ricorda poi alcune disposizioni codicistiche, che parlano espressamente di <<accettazione>> da parte di amministratori (e di sindaci).

L’accettazione può essere anche tacita : <<Nel contempo, si è ivi anche sottolineato che l’accettazione, ed in genere il contratto di amministrazione societario, non richiede l’osservanza di specifiche formalità.

Da ciò consegue che l’accettazione può desumersi anche da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina: l’accettazione della nomina può essere anche tacita, né dipende in sé dall’adempimento degli oneri pubblicitari, previsti dall’art. 2383 c.c., comma 4.>>

E spesso sarà tacita almeno delle società minori. O meglio, sarà espressa ma limitatamente alla firma dell’atto da depositare in registro imprese (che allora, a ben vedere,  sarà solo riproduzione a fini documentativi di un scambio di consensi già avvenuto ).

Quando invece riguarderà società  maggiori (quindi con una retribuzione importante e magari a lungo negoziata), proposta e accettazione saranno consacrate in un documento separato (da vedere chi lo avrà firmato per la società, dato che magari è stato stipulato all’oscuro del CEO in carica …).

Impugnazione di delibera del Cda da parte del socio: sul concetto di “deliberazioni lesive dei loro diritti” ex art. 2388 c. 4 c.c.

L’ottimo sito ilcaso.it dà notizia dell’interessante decisione cautelare sull’oggetto (Trib. Catanzaro RG 469/2022 del 27.04.22, giudice F. Rinaldi), che decide su  domanda di sospensione dell’esecuzione ex art. 2378/3 cc, pacificamente applciabile anche alle delibere del Cda (v. pure l’espresso richiamo nell’art. 2388).

Il socio ha legittimazione solo se la delibera lede “un suo diritto”.

Importante è la precisazione del Tribunale che ciò non avviene con la semplice violazione di legge o statuto (dovendo in tale caso semmai agire per revocare l’amminsitratore o gli ammiusntratori.).

Bisogna che ci sia invece una violazione diretta di un suo diverso diritto patrimoniale (anzi, non solo tale, direi): il Tribunle richiama l’analoga disposizione di cui all’rt. 2395 cc. Si v. i precedenti in tale senso citati a p. 5

Due sono le censure prospettate in causa e poi respinte.

1° – non costituisce tale lesione la violazione dell’iter procedimentale statutario che porta alla delibera << A ben vedere gli articoli sopra richiamati, che, secondo la prospettazione attorea, sarebbero stati violati con le delibere impugnate, cagionando un danno “diretto” al socio ricorrente, rappresentano delle disposizioni volte a regolare la costituzione ed il sistema di decisione dell’organo ammnistrativo della società convenuta.
Invero, come eccepito anche dalla difesa della occorre osservare – al fine di verificare l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla ricorrente ex art. 2388 c.c. – che, a fronte della dedotta violazione del disposto degli artt. 10.2. e 10.10 dello Statuto, è configurabile un generale interesse alla regolarità delle deliberazioni consiliari in conformità allo statuto e alla legge ma non anche un diritto del singolo socio direttamente pregiudicato.
Come già evidenziato, infatti, l’art. 10.2 dispone che la delibera che nomina i consiglieri di amministrazione deve indicare il socio che ha nominato l’amministratore mentre l’art. 10.10 dispone che le delibere consiliari sono valide solo se prese con il voto dei due amministratori nominati dai due diversi soci.
Alla luce del chiaro di tali articoli dello Statuto è, pertanto, evidente che l’unico interesse che potrebbe considerarsi leso è quello sociale e non, invece, un eventuale diritto partecipativo o amministrativo del singolo soci
>>

2°  – Nemmeno scelte gestionali scconsiderate costituiscono lesione del diritto del socio : << Infine, ritiene il Tribunale che non è condivisibile neppure l’assunto attoreo secondo il quale la legittimazione del socio ad impugnare ex art. 2388 c.c. discenderebbe dal fatto che sarebbe stato leso il diritto di “ad evitare l’adozione da parte del Consiglio di Amministrazione di scelte imprenditoriali sconsiderate che espongono a gravissimi pregiudizi…” come anche non è condivisibile l’affermazione per la quale la legittimazione deriverebbe dalla necessità di impugnare la nomina di un difensore della che si troverebbe in una situazione di conflitto di interessi.
Come evidenziato anche dalla difesa della società resistente, tali allegazioni non consentono di individuare il diritto patrimoniale, partecipativo o amministrativo leso del singolo socio ricorrente trattandosi, pure sotto questo aspetto, di doglianze espressione di un interesse sociale alla regolarità delle deliberazioni consiliari che devono essere prese in conformità allo statuto e alla legge, con conseguente impossibilità di riconoscere in favore del socio ricorrente il diritto ad impugnare le delibere consiliari oggetto di controversia.
Invero, per quanto già sopra esposto, il nostro ordinamento non consente al singolo socio di una società di capitali di opporsi ad una decisione del consiglio di amministrazione lamentando una qualche violazione da parte degli amministratori di una norma prescrittiva di fonte legale o statutaria che disciplini l’attività sociale in genere ma solo qualora tali violazioni, incorporate in una delibera, pregiudichino proprio il diritto del singolo socio ricorre
>>

Ora, la legge tace sul se debba trattarsi di lesione “diretta” di un diritto del socio e sul tipo di  diritto leso che permetta l’impugnazione.

Se sulla soluzione della seconda questione si può concordare, su quella della prima potrebbe sorgere  qualche dubbio.  La irregolarità procedimentale è in teoria una violazione di un diritto del socio: non si può infatti negare che esista un suo diritto alla corretta esecuzione del contratto di amministrazione , la quale a sua volta implica il dovere di gestire l’impresa secondo le regole di legge e statutarie.

La società è infatti una rete di contratti (nexus of contracts). Tale ricostruzione deve prevalere sul velo della distinzione soggettiva , quando non vi siano esplicite o implicite disposizioni ostative (come ad es, responsabilità limitata, identificazione del soggetto da citare in giudizio o destinatario di dichiarazioni recettizie, divieto di concorrenza etc.).

Però , a ben vedere, ciò toglierebbe d’un tratto il cit. velo della persona giuridica (il rapporto è formalmente tra amministratore e società) e rischierebbe di ingolfare le corti di cause.

Alla fine quindi il giudice catanzarese ha probabilmente deciso bene, almeno in fase cautelare. Un approfondimento maggiore in sede di decisione di merito, invece, potrebbe portare ad esito diverso (la giurisprudenza ivi ricordata è  del tutto contraria a questa ipotesi).

Riduzione del capitale per perdite, scioglimento della società e quantificazione del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori

Due insegnamenti da Cass. sez. 1 n. 4347 del 10.02.2022, rel. Vannucci:

1°  la caduta in scioglimetno ex 2448 n. 4 (oggi rt. 2484 n.4) , in relazione all’rt. 2447 presuipopibne sia la perdita oltre il terzo che l’abbassamento sotto al minimo:

<<L’interpretazione dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), non può dunque prescindere dall’intero contenuto del precedente art. 2447, sì che:

fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione di una delle decisioni indicate dall’art. 2447 c.c., e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta conseguenze negative di sorta quanto alla vita della società;

e’ solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge (il citato art. 2448 c.c.), lo scioglimento della società.>>

E poi sul concetto giuridico di “perdita”: <<La sentenza impugnata afferma in primo luogo che la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. (aventi la funzione di assicurare il rispetto del principio della corrispondenza fra capitale nominale e capitale reale) è solo quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli c.d. “di periodo”; così conformandosi alla costante interpretazione, data dalla giurisprudenza di legittimità (citata dalla stessa sentenza impugnata), del concetto di perdita rilevante per il compimento di una delle operazioni prescritte da tali disposizioni del codice civile (in questo senso, cfr: Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5740 del 2004, in tema di computabilità dei c.d. “utili di periodo” ai fini della determinazione della perdita; Cass. n. 23269 del 2005; Cass. n. 8221 del 2007). In conseguenza di tale interpretazione, in questa sede da ribadire,>>

2° sulla determinazione del danno cagionato dall’amministratore (principio di diritto per il rinvio):

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall., art. 146, comma 2, contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al disotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo“.

Sull’analiticità della messa in mora nelle azioni di responsabilità contro gli amministratori

In Appello Milano 2.458/2021 del 28.07.2021, RG 3736/2019, si legge questo circa l’oggetto, al fine di interrompere la prescrizione:

< Non risulta, invece, condivisibile la censura dell’appellante che considera tale comunicazione inidonea perché non indicherebbe i singoli episodi e non distinguerebbe le posizioni dei diversi amministratori e sindaci, posto che la costituzione in mora idonea ad interrompere la prescrizione non richiede tale specificità, essendo sufficiente “oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto…” (Cass. 15140/21 >>

Le messe in mora del legale della procedura vengono descritte così dal giudice di appello:

<< La lettura di tale documento, che contiene una chiara diffida a corrispondere alla Procedura un importo pari al deficit fallimentare, consente, quindi, di verificare la motivazione contenuta sul punto nella sentenza appellata, che si reputa del tutto condivisibile. 

Il primo giudice ha infatti rilevato che nelle missive inviate dalla Procedura “si contestano l’uso contra legem della intera struttura societaria Mythos Arché al fine di ottenere illegittimi risparmi di imposta, la sistematica violazione della normativa fiscale, la gran parte delle operazioni che costituiscono la struttura dei fatti posti a fondamento della domanda giudiziale, si individuano i danni nei crediti erariali insinuati derivanti dall’illegittimità dell’azione gestoria degli amministratori e dalle carenze nell’azione di controllo e si chiede di voler versare alla procedura importi pari al deficit concorsuale, si preannuncia l’esercizio di azioni di responsabilità”. 

Tali rilievi rendono corretta la seguente conclusione cui perviene il primo giudice, secondo cui “Il contenuto completo e articolato di entrambe le raccomandate consente si ritenerle idonee ad interrompere il termine di prescrizione ex art 2943 co 4 c.c. perché con esse la proceduta di lca ha manifestato alle controparti qui convenute la sua volontà, non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto risarcitorio in relazione ai fatti illeciti fiscali”>>

Alla luce di tale descrizione, probabilmente è esatto che le messe in mora erano valide per la produzione dei loro effetti di legge.

E’ invece assai dubbia l’esattezza del principio declamato dalla cit. Cass.

La messa in mora infatti, nonostante il silenzio in proposito dell’art. 1219 cc,  deve indicare con esattezza il diritto a cui si riferisce: il quale -se risarcitorio-  è individuato dall’inadempimento , dal danno e dal nesso causale tra i due.    Non si può dunque evitare di precisare l’inadempimento stesso.

L’elemento soggettivo nelle sanzioni amministrative irrogate da Consob contro amministratori (non esecutivi) bancari

Cass. 18.02.2022 n. 5.347, rel. Varrone, decide il ricorso su sanzione ex art. 195 tuf,  relativo alla violazione della disciplina dell’offerta al pubblica di acquisto  di azioni  (le tristemente note vicende della Banca Popolare di Vicenza ).

In breve la banca avrebbe di fatto realizzato una sollecitazione del pubblico risparmio senza seguire la procedura ad hoc (art. 94 tuf).

Il punto qui interessante rigurda la posizione dell’amminstrtartore non esecutivo (non ce ne erano di esecutivi, in verità) o meglio i suoi doveri di vigilanza : cioè se egli possa dirsi all’oscuro della violazione solo perchè non esecutivo.

A che titolo questo  problema di diritto codicistico-societario è dalla SC affrontato in sede impgnatoria di sanzione pubblicistica? E’ affrontato per giustificare l’affermaizone della presenza dell’elemento soggettivo (art. 3 l. 689/1981),

Per la SC tale amminsitratore non può dirsi all’oscuro delle violazione commesse dalla Banca. La cosa ci pare evidente già solo per la mancanza di amministratori esecutivi: ciascun memtro del board dunque non può che essere gravato da tutti i doveri a carico degli amministratori, non potendosi applicare la disciplina ripartita tra plenume ed esecutivi ex art. 2381-2392 cc.

Non ci son passaggi particolarmente interessanti o nuovi. Riporto comnque  i principali, collocati nel § 9.2:

<< Giova a tal fine ricordare che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei component, nella specie del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando sugli stessi, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla Consob. (Cass. n. 1602/2021; cnf. Cass. n. 6037/2016).

Con specifico riferimento agli amministratori è stato conformemente affermato che l’obbligo imposto dall’art. 2381 c.c., u.c. agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinchè tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza (Cass. n. 19556/2020). Inoltre è stato precisato che il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacchè anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. n. 24851/2019; conf. Cass. n. 5606/2019).

Proprio le peculiarità del settore bancario hanno quindi indotto ad affermare il principio per cui sussistono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicchè rispondono del mancato utile attivarsi. Ne consegue, inoltre, che in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, nella specie irrogate dalla Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, l’autorità di vigilanza ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848/2015).

Ne deriva che, avuto riguardo al caso in esame, a prescindere dalla qualità di consigliere esecutivo o meno, tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, devono svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati (mancanti nel caso di specie), sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonchè il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente (Cass. n. 2620/2021).

Tali considerazioni permettono altresì di escludere la fondatezza dell’altro motivo di ricorso in esame, emergendo come appunto, la sola attuazione dei doveri comportamentali connessi alla carica di amministratore avrebbe permesso di rilevare le anomalie poi riscontrate in sede ispettiva, senza potersi individuare nella condotta, sia pure illecita dell’alta dirigenza, l’idoneità a rendere inesigibile la condotta addebitata al ricorrente, come espressamente ribadito in sentenza (il che denota come, pur a voler sorvolare circa il fatto che la deduzione non riguarda un fatto ma piuttosto un giudizio, vi è stata in ogni caso un’espressa disamina da parte del giudice di merito, che in fatto ha altresì escluso che fosse stata fornita la prova di un disegno illecito dell’alta dirigenza)>.

Interessante è poi l’esaame dell’ 11° motivo impugnatorio, bassato su una presunta deroga che la famosa circolare 285 di Bankitalia del 2013 (c d Istruzioni diViogilanza; e pure la 263)  avrebbe approtato ai doveri di diligenza ed organizzartivi posti dal c.c.

A parte la pertinenza rica l’element soggettivo (difficilmente può dirsi che tali Istruzioni , pur se rispettate, avrebbero giustiifcaot  lo stato di ignoranza), la Sc così rigetta:

<<  11.1 Il motivo è manifestamente infondato alla luce del richiamato orientamento di questa Corte secondo cui sussistono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicchè rispondono del mancato utile attivarsi. Ne consegue, inoltre, che in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, nella specie irrogate dalla Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, l’autorità di vigilanza ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848/2015; Cass. n. 18846/2018, non massimata; Cass. n. 2737/2013; Cass. n. 17799/2014).

Nè può condividersi l’interpretazione delle circolari della Banca d’Italia richiamate in motivo, così come operata dal ricorrente in quanto idonee ad escludere la responsabilità anche degli amministratori non esecutivi.

In disparte la riferibilità delle violazioni oggetto di causa all’attività di prestazioni di servizi di investimento, per i quali si rivela maggiormente appropriato il richiamo alle previsioni di cui al Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, non può ritenersi che le previsioni di cui alla circolare n. 285/2013 della Banca d’Italia abbiano travolto gli assetti ed i rapporti societari quali dettati da norme di rango primario, quale in primo luogo l’art. 2381 c.c. In tal senso rileva il fatto che si tratta, per quelle regolamentari, di disposizioni volte a rafforzare proprio l’assetto delineato dal codice civile, con la individuazione di regole più specifiche per il settore bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE CDR IV), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il Regolamento UE n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.

Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Pur ad ammettere che la circolare della Banca d’Italia abbia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, non può però avallare la conclusione per cui non sarebbe esigibile da parte degli amministratori non esecutivi la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, confidare sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo sulla correttezza dell’agire delle singole articolazioni societarie.

Va, invece, ribadito, come già fatto in occasione della disamina dei precedenti motivi che le previsioni codicistiche, ed in particolare l’art. 2381 c.c., comma 3, suggeriscono che, proprio sulla base delle previsioni della circolare della Banca d’Italia, sia il CdA a dover esaminare i piani strategici, le norme regolamentari di settore sull’organo con funzione di supervisione strategica, debba deliberare sugli indirizzi di carattere strategico e verificarne nel continuo l’attuazione, e ciò alla luce del fatto che in base alla circolare esso ” definisce l’assetto complessivo di governo e approva l’assetto organizzativo della banca, e verifica la corretta attuazione e promuove tempestivamente le misure correttive a fronte di eventuali lacune o inadeguatezze”.

Ed è sempre la Circolare (part. I, titolo IV, capitolo I, sezione III, p.2, lett. b) ad imporre all’organo con funzione di supervisione strategica di dover approvare “l’assetto organizzativo e di governo societario della banca”, nonchè i sistemi contabili e di rendicontazione e di assicurare un efficace confronto dialettico con la funzione di gestione e con i responsabili delle principali funzioni aziendali e verificare nel tempo le scelte e le decisioni da questi assunte.

Ne risulta quindi la centralità nella governance delle imprese bancarie del ruolo degli amministratori non esecutivi, essendo “compartecipi delle decisioni assunte dall’intero consiglio e chiamati a svolgere un’importante funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi. L’autorevolezza e la professionalità dei consiglieri non esecutivi devono essere adeguate all’efficace esercizio di queste funzioni, determinanti per la sana e prudente gestione della banca” (circolare n. 285, parte I, titolo IV, cap. I, sez. IV, p..1).

Anche a voler dar credito alla tesi del ricorrente, ciò non lo esimeva dall’adempiere all’obbligo di tenersi adeguatamente informato, non potendo a tal fine invocare la settorialità delle proprie competenze, una volta che l’accettazione dell’incarico di amministratore non esecutivo imponeva il rispetto di tutti gli oneri ed obblighi connessi alla carica, in linea con quanto a livello di normativa primaria detta l’art. 2381 c.c., comma 6.

D’altronde è la stessa Circolare della Banca d’Italia che, a prescindere dall’insorgenza di segnali di allarme, impone agli amministratori non esecutivi di dover acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, avvalendosi sia degli eventuali comitati interni sia in via diretta del management, revisione interna e delle altre funzioni di controllo (Circ. 285/13, parte I, titolo IV, cap. 1, sez. IV, p..2.2).

Ne deriva che, anche alla luce del quadro normativo invocato da parte ricorrente, deve darsi continuità al principio secondo cui, in tema di responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonchè il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente. (Cass. n. 2620/2021; Cass. n. 24851/2019), non potendo a tal fine assumersi come causa esimente l’assenza di segnalazioni da parte degli amministratori delegati o delle altre strutture di controllo interno (Cass. n. 5606/2019, relativa a sanzioni irrogate al presidente del consiglio di amministrazione di una società finanziaria, privo di deleghe e membro, altresì, del comitato investimenti che si occupava della gestione strategica, per l’inadeguatezza dello scambio di informazioni tra i due organi, per l’assenza di un effettivo monitoraggio dell’esito delle operazioni approvate e di un controllo sulla liquidità dei fondi di investimento).>>

Di altra decisione della SC quasi contemporanea (Cass. 4.519 del 11.02.2022, stessa sezione 2 ma altro relatore) e  sempre su ricorso contro sanzioni Consob promosse dal medesimo amministratore, ho dato notizia in un precedente post odierno .

La Cassazione conferma la severità di giudizio nelle azioni di responsabilità amministrativa contro amministratori (non esecutivi) bancari

In un giudizio di responsabilità amministrativa contro amministratori non esecutivi bancari, prodotto da opposizione a sanzione Consob ex art. 195 tuf , Cass. n. 4.519 del 11.01.2022, rel. Fortunato,  conferma una linea severa.

In disparte da interessanti questioni processuali, che occupano una prima parte della lunga sentenza, qui ricordo solo quelli relativi alle censure di Bankitalia sulla responsabilità per carenze organizzative.

Si tratta dei motivi da 11 a 17 che la SC tratta assieme, § 12 (il più interessante è il 17 che si riferisce alla violazione dell’art. 15 del regol. congiunto Bankitalia-Consob sui doveri organizzativi).

Una delle difese , naturalmente, era che gli illeciti erano stati commessi dagli esecutivi e/o dalla dirigenza, senza che i non esecutivi potessero averne una qualche notizia o sentore.

Si tratta dei §§ 12.2-12.6, di cui riporto passi scelti, cjhe andranno studiati dagli operatori e dai loro consulenti:

<<12.2. Poste tali premesse, appare evidente come le censure nell’assegnare valenza esimente alla condotta dolosa della dirigenza nelle operazioni di collocamento della azioni proprie BPVI o all’occultamento delle modalità con cui erano stati erogati i finanziamenti o effettuata la profilatura dei clienti, alle carenze informative nei rapporti con il CDA e alle irregolarità nella fissazione del pricing delle azioni proprie – trascurano il decisivo rilievo che correttamente la Corte distrettuale ha assegnato al carattere procedurale delle violazioni e alla mancata predisposizione di presidi idonei a prevenire la consumazione di condotte illecite, circostanza quest’ultima che impone di ricondurre l’elemento soggettivo della violazione non tanto e non solo a valle delle singole condotte illecite imputabili agli organi di gestione o all’alta dirigenza, ma soprattutto alla sfera organizzativa dell’attività bancaria che si colloca a monte della commissione delle singole infrazioni, una volta postulata la piena conoscenza da parte del CdA delle operazioni poi rivelatesi irregolari, in relazione alle quali occorreva attivare i poteri di controllo sulla regolarità della gestione.

Da tale prospettiva, l’ipotizzata impossibilità di avvedersi delle irregolarità gestionali non poteva avere l’effetto di esonerare da responsabilità il ricorrente, né escludere la negligenza imputabile ai componenti del CDA riguardo alle carenze organizzative comunque sussistenti da tempo, le quali avevano poi reso possibile o agevolato le pratiche illecite deliberate e attuate successivamente dalla Banca. L’insufficienza dei sistemi dei controlli e di adeguate regole di carattere procedurale era di per sé condotta sanzionabile e l’affermazione della Corte di merito secondo cui tali carenze rendevano verosimile l’agevolazione delle successive condotte dolose non consente di configurare l’utilizzo di una doppia presunzione per sostenere l’imputazione delle violazioni, le quali, come detto, non concernono le condotte dolose dei dirigenti, né direttamente le violazioni consumate mediante il collocamento delle azioni proprie, ma le originarie carenze strutturali nel sistema dei controlli interni.

12.3. La precondizione per il corretto svolgimento dei servizi di investimento è difatti l’adozione di idonee procedure e di una altrettanto idonea organizzazione, cautele che, sebbene rimesse alla scelta discrezionale dell’intermediario, devono in ogni caso assicurare la tutela del risparmio, nel rispetto degli obblighi di correttezza e trasparenza.

Avuto riguardo ai doveri imposti dalla regolamentazione della Consob e della Banca d’Italia, tutto il CdA era chiamato a dare attuazione alle norme volte al corretto espletamento dei servizi di investimento.

Nello specifico l’illecito era – difatti – riconducibile alle modalità con cui il Consiglio nel suo insieme aveva esercitato le funzioni di controllo e di organizzazione, essendo l’attività dell’organo collegiale imputabile in capo a ciascun componente in mancanza di prova che i singoli si fossero diligentemente attivati nell’assolvimento del dovere di agire informati con riferimento a ciascun settore dell’attività bancaria in cui si erano manifestate criticità, in modo da prevenire la commissione delle gravi violazioni emerse in sede ispettiva.

La responsabilità individuale dei singoli componenti degli organi collegiali degli istituti di credito, lungi dal porsi in contrasto con la “ratio”, i principi regolatori (tra cui il carattere personale della responsabilità) e le norme vigenti in materia di sanzioni amministrative, discende dall’applicazione della disciplina del concorso di persone nell’illecito amministrativo ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 5, secondo cui quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione di legge, salvo che sia diversamente stabilito (cfr. L. n. 689 del 1981, art. 5). La pena pecuniaria è applicabile a tutti coloro che abbiano offerto un contributo alla realizzazione dell’illecito, concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei quali l’evento punito costituisce il risultato (Cass. 21797/2006; Cass. s.u. 20934/2009; Cass. 2406/2016 in tema di responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione).

12.4. Sotto il profilo soggettivo, la fattispecie dell’illecito amministrativo è ricalcata su quella dei reati penali di natura contravvenzionale.

La L. n. 689 del 1981, art. 3, prescrive che, ai fini della sussistenza della colpa del trasgressore, è sufficiente la prova della condotta (anche omissiva) in violazione di norme specifiche di legge o di precetti generali di comune prudenza, gravando sull’incolpato la prova dell’inesigibilità del comportamento volto ad impedire la violazione (Cass. s.u. 20930/2009).

Anche le ipotesi di cui si discute contemplano illeciti cd. “di mera trasgressione”, nel senso che l’azione, esaurendosi nella oggettiva difformità rispetto alla fattispecie astratta, si identifica con la condotta inosservante (cd. suitas), che è neutra sotto l’ulteriore profilo del dolo o della colpa del responsabile (Cass. 9546/2018).

Sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia, si è precisato che il legislatore ha individuato una serie di fattispecie destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito. Una volta provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore l’onere di dimostrare di aver agito in assenza di colpevolezza (Cass. n. 24081/2019; (Cass. 11777/2020; Cass. 1921/2019).

In definitiva, la Consob, anche in base ai principi ricavabili dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, era tenuta unicamente a dimostrare l’esistenza delle carenza organizzative e procedurali e quindi di segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre i consiglieri di amministrazione, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo per ovviare alle criticità esistenti, mentre spettava agli incolpati provare di avere tenuto la condotta attiva idonea a scongiurare la commissioni di irregolarità (Cass. 22848/2015).

Sulla scorta di tali argomentazioni – già sostenute da questa Corte anche con riferimento a sanzioni amministrative ritenute di natura penale – non è legittimo ravvisare un contrasto della disciplina interna con la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 6, comma 2, CEDU (Cass. 1529/2018).

12.5. La sentenza impugnata è – in definitiva – conforme ai principi espressi da questa Corte in tema di interpretazione dell’art. 3 citato, palesandosi infondate le critiche che investono la asserita genericità dell’affermazione di responsabilità quanto alla verifica dell’adeguatezza della struttura organizzativa dell’impresa.

Le norme in tema di intermediazione finanziaria, nel prevedere, nei confronti di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione presso imprese d’investimento, banche o altri soggetti abilitati nonché dei relativi dipendenti, la comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria per l’inosservanza, tra l’altro, delle “disposizioni generali o particolari impartite dalla CONSOB o dalla Banca d’Italia”, non costituiscono norme punitive “in bianco”, né comportano alcuna indeterminatezza del precetto, poiché, atteso il particolare tecnicismo dell’ambito di operatività di tali disposizioni, realizzano solo una etero integrazione del precetto, consentita dalla riserva di legge sancita dalla L. n. 689 del 1981, art. 1 (Cass. 18683/2014).

Nella specie, tenuto conto delle indicazioni fornite in sede regolamentare dall’autorità di vigilanza, il giudice distrettuale ha riscontrato le evidenti violazioni procedurali e comportamentali poste in essere dall’intermediario, non senza sottolineare che, per la loro gravità, la sussistenza delle violazioni non poteva sfuggire ad un operatore che avesse improntato la propria condotta ai principi di diligenza e correttezza, secondo le possibilità correlate alla qualifica professionale richiesta dalla legge per ricoprire le cariche societarie, non avendo rilievo, per quanto detto, l’eventuale disegno fraudolento dell’alta dirigenza.

Giova a tal fine ricordare che la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo che compete a ciascun componente, che, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali per la corretta gestione societaria, è sanzionabile a titolo di omissione “quoad functione”, stante l’obbligo di vigilanza in vista non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob (Cass. 1602/2021; Cass. 6037/2016).

L’obbligo imposto dall’art. 2381 c.c., u.c., agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza (Cass. 19556/2020).

Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere una costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.

Ne consegue che il consigliere di amministrazione (anche se non esecutivo) di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. 24851/2019; Cass. 5606/2019; Cass. 2620/2021).

Consegue, per tali ragioni, l’infondatezza di tutte le suesposte doglianze, dovendo peraltro precisarsi, riguardo all’omesso esame di fatti decisivi, censurato – sotto più profili – nei motivi di ricorso, che anche in tal caso si lamenta non già la mancata considerazione di singoli accadimenti oggettivi capaci di determinare un diverso esito del processo, ma la mancata condivisione delle tesi difensive formulate in ricorso riguardo all’incidenza causale della condotta dei vertici aziendali e riguardo all’esigibilità del dovere di agire informato da parte del ricorrente, sollecitando un controllo che esula da quello consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, trascurando inoltre che la Corte di merito ha puntualmente valutato le obiezioni sollevate dall’interessato su tali aspetti, reputandole infondate.

12.6. Di nessuna utilità per il ricorrente risultano le disposizioni regolamentari invocate con il sedicesimo motivo, la cui corretta interpretazione conferma – anziché escluderla – la sussistenza degli addebiti.

In disparte la riferibilità delle violazioni oggetto di causa all’attività di prestazioni di servizi di investimento, per i quali si rivela maggiormente appropriato il richiamo alle previsioni di cui al Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, non può ritenersi che le previsioni di cui alla circolare n. 285/2013 della Banca d’Italia abbiano innovato l’assetto dei compiti e dei profili di responsabilità delineati dall’art. 2381 c.c..

Le norme regolamentari appaiono volte a rafforzare proprio l’assetto delineato dal codice civile, con la individuazione di regole più specifiche per il settore bancario e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE CDR IV), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, il tutto in correlazione con il Regolamento UE n. 575/2013, componendo un quadro complessivo che include la disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.

Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, non vanno intese come disposizioni che esonerino i componenti del CdA dall’osservanza dei doveri comportamentali che competono a ciascuno di essi.

Pur ad ammettere che la circolare della Banca d’Italia abbia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, operato una più rigorosa distinzione organizzativa della strutture ed un più rigoroso riparto di competenze, un tale assetto non vale a privare gli amministratori non esecutivi dei poteri (e dei doveri) di controllo generale sull’attività, non potendosi dovendosi, quanto agli indici di allarme, confidare sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo sulla correttezza dell’agire delle singole articolazioni societarie.

Va invece ribadito, come già fatto in occasione della disamina dei precedenti motivi che le previsioni codicistiche, ed in particolare l’art. 2381 c.c., comma 3, suggeriscono che, proprio sulla base delle previsioni della circolare della Banca d’Italia, sia il CdA a dover esaminare i piani strategici, le norme regolamentari di settore sull’organo con funzione di supervisione strategica, debba deliberare sugli indirizzi di carattere strategico e verificarne nel continuo l’attuazione, e ciò alla luce del fatto che in base alla circolare esso ” definisce l’assetto complessivo di governo e approva l’assetto organizzativo della banca, e verifica la corretta attuazione e promuove tempestivamente le misure correttive a fronte di eventuali lacune o inadeguatezze”.

Ed è sempre la Circolare (part. I, titolo IV, capitolo I, sezione III, p.2, lett. b) ad imporre all’organo con funzione di supervisione strategica di dover approvare “l’assetto organizzativo e di governo societario della banca”, nonché i sistemi contabili e di rendicontazione e di assicurare un efficace confronto dialettico con la funzione di gestione e con i responsabili delle principali funzioni aziendali e verificare nel tempo le scelte e le decisioni da questi assunte.

Risulta confermata la centralità nella governance delle imprese bancarie del ruolo degli amministratori non esecutivi, essendo “compartecipi delle decisioni assunte dall’intero consiglio e chiamati a svolgere un’importante funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi.

L’autorevolezza e la professionalità dei consiglieri non esecutivi devono essere adeguate all’efficace esercizio di queste funzioni, determinanti per la sana e prudente gestione della banca” (circolare n. 285, parte I, titolo IV, cap. I, sez. IV, p..1).

Anche a voler considerare che il ricorrente era privo di deleghe, ciò non lo esimeva dall’adempiere all’obbligo di tenersi adeguatamente informato, non potendo a tal fine invocare la settorialità delle proprie competenze, dato che l’accettazione dell’incarico di amministratore non esecutivo imponeva il rispetto di tutti gli oneri ed obblighi connessi alla carica, in linea con quanto a livello di normativa primaria detta l’art. 2381 c.c., comma 6 [qui però la SC dimentica la questione della rilevanza solo interna o anche esterna della specificità di competenze di cui al secondo periodo dell’art. 2392 / 1 cc: a meno che pensasse che riguardano solo il rapporto con la società e non la corrisponsabilità ex art. 5 L. 689/1981, ma avrebbe dovuto dirlo. E poi ciò sarebbe strano sanzionare in via amministrartiva ciò che non  è sanzionabile nel rapporto civilistico predetto]

D’altronde è la stessa Circolare della Banca d’Italia che, a prescindere dall’insorgenza di segnali di allarme, impone agli amministratori non esecutivi di dover acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, avvalendosi sia degli eventuali comitati interni sia in via diretta del management, delle revisione interna e delle altre funzioni di controllo (Circ. 285/13, parte I, titolo IV, cap. 1, sez. IV, p..2.2).

Ne deriva che, anche alla luce del quadro normativo invocato da parte ricorrente, deve darsi continuità al principio secondo cui, in tema di responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente. (Cass. 2620/2021; Cass. 24851/2019), non potendo a tal fine assumersi come causa esimente l’assenza di segnalazioni da parte degli amministratori delegati o delle altre strutture di controllo interno (Cass. 5606/2019, relativa a sanzioni irrogate al presidente del consiglio di amministrazione di una società finanziaria, privo di deleghe e membro, altresì, del comitato investimenti che si occupava della gestione strategica, per l’inadeguatezza dello scambio di informazioni tra i due organi, per l’assenza di un effettivo monitoraggio dell’esito delle operazioni approvate e di un controllo sulla liquidità dei fondi di investimento).>>

Nessun insegnamento nuovo, tutto sommato.

Infine , le specifiche carenze organizzative non sono riportate: il che appare strano, dato che si tratta di questio iuris, e non facti . Potrebbe essere stata una scelta difensiva, nel senso di difendersi censurando solo l’estensione del relativo addebito ai non esecutivi, anzichè anche -a monte – contestando che ci fosse stata la carenza organizzativa medesima .

Un caso di annullamento di delibera assembleare per abuso di maggioranza

Gli annullamenti di delibere societarie per abuso di potere da parte della maggioranza sono rari, avendo gli impugnanti un onere provatorio arduo.

Però Trib. Milano 24.3.2021 n. 2488/2021, RG 3794318, riesce in tale senso: il riporto a nuovo degli utili per il quinto ano consecutoivo e quindi l’omesa distribuzione, in assenza di motivo palusibile, è abusivo e la delbiera è anullata.

L’abuso sussiste <<se la decisione a) non trova alcuna giustificazione nell’interesse della società; b) è il risultato di una intenzionale attività dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli ( Cass 27387/2005 e in questo senso anche Tribunale Torino sentenza n. 2100/2017). Ritiene il Tribunale che la delibera 24 aprile 2018 di Ser-Fid impugnata, autonoma anche se dipendente da quella di approvazione del bilancio di esercizio da cui emergono gli utili conseguiti, sia effettivamente viziata da abuso del diritto da parte della maggioranza non trovando proprio alla luce delle spiegazioni offerte in comparsa di costituzione dalla società, non contestate nei suoi presupposti di fatto dalla difesa dell’attore , giustificazione se non nel contrasto tra il gruppo dei soci che costituiscono la maggioranza e De Lillo socio di minoranza al 9,5%.    Infatti, la società ha allegato che la decisione di non distribuire gli utili si fonda sulla scelta di prudente politica societaria volta a garantirle la disponibilità liquida per far fronte alla sua ordinaria attività sociale di finanziaria esercente attività fiduciaria iscritta all’albo ex art 106 Tub e per poter anticipare ogni anno gli acconti fiscali dovuti dai clienti in relazione ai redditi di natura finanziaria provenienti dal risparmio amministrato.

Ebbene, va osservato, pur senza sindacare la descritta politica societaria, che l’esigenza di garantire alla società liquidità necessaria per far fronte ai suoi impegni quanto all’esercizio 2017, non necessitava la decisione di portare a nuovo i contenuti utili di € 81.232,00 considerando che, come segnalato dalla difesa dell’attore, la società aveva una disponibilità liquidità di € 5.123.038 a fine esercizio 2017 (doc.2 convenuta) con un incremento di circa un milione dall’esercizio precedente; si tratta di componente del patrimonio di immediata disponibilità ed utilizzabilità che garantiva il bisogno di risorse per far fronte all’anticipo fiscale per i clienti, considerando che la società ha evidenziato i valori di questi anticipi in un  importo di 4 milioni di euro nel 2015. La società era, inoltre, ben patrimonializzata (patrimonio netto ammontante a € 4.188.007, come emerge dal bilancio 2017 (doc.12 fasc.att)).

La rilevante disponibilità di liquidità è certamente anche il risultato delle pregresse e indiscutibili decisioni di non distribuire gli utili, ma la sistematica negazione della distribuzione dei dividendo diviene illegittima nel 2018 in quanto in sé non si giustifica più avendo la società raggiunto l’obiettivo che si era posta di avere adeguate risorse disponibili in via immediata che il modesto incremento di 81.000,00 non modifica nella sostanza, tanto più che la delibera è assunta in una situazione di forte conflitto tra i soci della famiglia Paganini/Pizzoccaro componenti la maggioranza da un lato e De Lillo, socio di minoranza
dall’altro.

La delibera valutata in questo contesto e dati gli elementi di fatto descritti (forte
patrimonializzazione della società, ingente somma liquida a disposizione, importo residuo degli utili portati a nuovo) risulta priva di una giustificazione causale nell’ottica del perseguimento degli interessi sociali, risulta assunta non nell’interesse dichiarato in atti della società, già conseguito alla data della delibera, ma per fini extrasociali e vessatori verso De Lillo nei cui confronti pendevano richieste volte a fargli retrocedere le azioni alla donante Pizzoccaro, essendo venuto meno il legame con Laura Paganini (figlia della Pizzoccaro) dalla quale si stava separando (doc. 13 attore).

Il vizio di abuso di potere che inficia la delibera 24 aprile 2018 dell’assemblea di Sr-Fid nella parte in cui stabilisce “di riportare a nuovo tutto l’utile netto di esercizio di euro 81.232,00” è causa di annullamento della stessa>>.