Il concorso in contraffazione di chi tiene in deposito (ed eventualmente spedisce) merci contraffatte per conto terzi (sulla posizione di Amazon Logistics)

Pende presso la Corte di Giustizia una causa relativa alla posizione di Amazon per lo stoccaggio e l’eventuale invio di merci per conto di un venditore, qualora si tratti di merci contraffatte: Coty Germany GmbH contro Amazon Services Europe Sàrl, Amazon FC Graben GmbH, Amazon Europe Core Sàrl, Amazon EU Sàrl, C-567/18.

Sono state pubblicate le conclusioni 28.11.2019 dell’avvocato generale M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA  (di seguito solo : AG) , delle quali mi occupo in questo post.    Si tratta di causa importante, quanto alle questioni trattate.

Coty, già protagonista di un’altra vertenza in tema di divieto di avvalersi di piattaforme elettroniche (amazon.de) nella distribuzione selettiva (Coty Germany GmbH c. Parfümerie Akzente GmbH, Corte di Giustizia 6 dicembre 2017, C-230/16), ha poi iniziato una lite in Germania, chiedendo ad Amazon il nome del venditore da cui provenivano i prodotti contraffatti. Amazon ha risposto che non sarebbe stato possibile risalire a tale impresa, § 12 (non è chiaro se per scelta o per impossibilità di recupero dei dati: verosimilmente si trattava della prima alternativa)

Coty allora ha proposto domanda di inibitoria contro Amazon, ritenendo che violasse il diritto di marchio : in particolare proponendo domanda di inibitoria dello stoccaggio o spedizione dei profumi marcati Davidoff hot water, § 13.

Il processo è arrivato al Bundesgerichtshof, il quale, pur ritenendo che non vi fosse contraffazione addebitabile ad Amazon (§ 18), ha ugualmente proposto la seguente domanda pregiudiziale: «Se una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo, senza aver conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

La normativa applicabile è quella del regolamento 207 del 2009, poi sostituito dal reg. 2017 n° 1001. Il giudice del rinvio ragiona su entrambi , ma sottolinea che deve applicarsi quello ora in vigore (2017/1001), forse perché la misura richiesta è processuale (riporta infatti l’AG: <<, data la natura dell’azione proposta>>: § 4): affermazione però di dubbia esattezza, poiché è dubbio che sia processuale l’inibitoria, essendo una delle misure a tutela del diritto.  Tuttavia si dice ivi che non ci sono state modifiche significative tra le due normative.

Ragionerò quindi sul regolamento del 2017 n. 1001-

Le  norme rilevanti sono:

– l’articolo 9 comma 2, che indica quando c’è contraffazione : <<Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando: ...>>;

– l’articolo 9 comma 3, che precisa alcune fattispecie rientranti nel comma 2, e in particolare la lettera B : <<Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2: …b) l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;>>

L’AG nei §§ 33-43 esamina precedenti sentenze in tema di uso del segno di terzi da parte dell’intermediario e soprattutto la sentenza L’Oréal ed altri c. eBay 12.07.2011,  C‑324/09.

Ai §§ 41 e 42 propone una duplice alternative interpretativa, a seconda che si dia un’accezione ristretta o lata ai servizi offerti da Amazon (impostazione già presente i paragrafi 22 e 27) (impostazione importante visto che percorre tutte le sue Conclusioni)

Passa poi ad indicare i requisiti per aversi la fattispecie di “stoccaggio ai fini dell’immissione in commercio”, di cui all’articolo 9 c. 3 lettera b) (§ 44 ss); anche lo stoccaggio, del resto, rileva solo se finalizzato alla  immissione in commercio, come si ricava pianamente dal dettato della norma (§ 47).

L’ AG  conclude dunque che sono due le condizioni per  per ravvisare la ricorrenza di tale fattispecie: 1) un elemento materiale e 2) un elemento intenzionale (cioè la volontà di possesso ai fini dell’immissione in commercio) (§ 48).

POSSESSO – circa il possesso l’AG dice che, se si intende in senso stretto il servizio di Amazon Logistics, probabilmente non ricorre

Tuttavia  la valutazione potrebbe essere diversa, <<se si adottasse l’approccio alternativo ai fatti al quale ho fatto riferimento in precedenza. In tale ottica, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a un modello integrato di negozio, tengono un comportamento attivo nel processo di vendita, che è per l’appunto ciò che la norma esemplifica là dove elenca atti quali «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Corollario di siffatto comportamento attivo sarebbe l’apparente controllo assoluto del processo di vendita>> § 51.

In particolare l’AG ricorda la complessità del servizio offerto da Amazon Logistics:  <<con il programma «Logistica di Amazon» le imprese di tale gruppo, che agiscono in modo coordinato, non si occupano soltanto dello stoccaggio e del trasporto «neutri» dei prodotti, bensì di una gamma di attività molto più ampia.  Infatti, optando per detto programma, il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano (possono anche etichettarli, imballarli adeguatamente o confezionarli come regali) e li spediscono all’acquirente. Amazon può occuparsi anche della pubblicità (37) e della diffusione delle offerte sul proprio sito Internet. Inoltre, Amazon offre il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestisce i rimborsi dei prodotti difettosi (38). Sempre Amazon riceve dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario (39).      Tale coinvolgimento attivo e coordinato delle imprese del gruppo Amazon nella commercializzazione dei prodotti comporta l’assunzione di buona parte dei compiti del venditore, del quale Amazon svolge il «lavoro pesante», come evidenziato sul suo sito Internet. Su tale pagina si può leggere, quale incentivo al venditore per aderire al programma «Logistica di Amazon», la seguente frase: «Inviaci i tuoi prodotti e lascia che ci occupiamo del resto». In tali circostanze, le imprese del gruppo Amazon tengono «un comportamento attivo [ed esercitano] un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso [del marchio]»>> (§§ 55-57).

Se dunque nel caso di specie fosse confermato che le imprese del gruppo Amazon hanno prestato tali servizi (o quanto meno i più importanti) nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», <<si potrebbe ritenere che, in qualità vuoi di gestori del mercato elettronico vuoi di depositari, esse svolgano funzioni nell’immissione in commercio del prodotto che vanno oltre la mera creazione delle condizioni tecniche per l’uso del segno. Di conseguenza, dinanzi a un prodotto lesivo dei diritti del titolare di un marchio, la reazione di quest’ultimo potrebbe legittimamente consistere nel vietare loro l’uso del segno>> § 58.

Nè del resto sono applicabili le esenzioni alla responsabilità previste dalla direttiva 2000/31  articolo 14 paragrafo 1, stante la non neutralità di Amazon (paragrafo 62).

Quest’ultima affermazione lascia perplessi per due motivi:

motivo 1 :  perché è assai dubbio che il servizio di stoccaggio fisico rientri nel concetto di <<servizi della società dell’informazione>>. Tale nozione secondo  l’art. 2 dir. 2000/31 è costituita dai <<servizi ai sensi dell’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE, come modificata dalla direttiva 98/48/CE>>, la quale così recita:

<< “servizio”: qualsiasi servizio della società dell’informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

Ai fini della presente definizione si intende:

– “a distanza”: un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti;

– “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento (compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici od altri mezzi elettromagnetici;

– “a richiesta individuale di un destinatario di servizi”: un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale.

Nell’allegato V figura un elenco indicativo di servizi non contemplati da tale definizione.

La presente direttiva non si applica:

– ai servizi di radiodiffusione sonora,

– ai servizi di radiodiffusione televisiva di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva 89/552/CEE (*).>>

Ebbene, il servizio di stoccaggio e spedizione non è <<prestato (…) a distanza, per via elettronica>>!

Può essere invocata a conferma in tale senso Corte Giustizia 20.12.2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi c. Uber Systems SpainSL. La C.G. ha detto che la mera intermediazione tra domanda ed offerta di servizi di trasporto rientra bensì nel concetto di «servizio della società dell’informazione» (§ 35). Però il servizio di Uber non è solo questo o meglio la sua intermediazione è così ampia che è essa stessa ad offrire sul mercato il servizio di trasporto (§§ 37-40): per cui complessivamente è questo il servizio offerto da Uber. Analoghe considerazioni valgono nel nostro caso: in Amazon Logistics lo stoccaggio e il deposito hanno importanza non minore della presenza sul marketplace digitale, come il software di Uber è la premessa per l’esecuzione poi del trasporto.

La Corte di Giustizia invece ha ragionato in modo opposto nel recente caso Airbnb (sentenza 19.12.2019, C-390/18). Qui ha ravvisato un «servizio della società dell’informazione» , dato che <<la raccolta delle offerte presentate in modo coordinato con l’aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto di tali offerte costituisce, per la sua importanza, un servizio che non può essere considerato come un semplice accessorio di un servizio globale al quale vada applicata una qualifica giuridica diversa, ossia una prestazione di alloggio>> (§ 54 e in generale §§ 52-57)

motivo 2: perché la domanda azionata da Coty era di inibitoria e le inibitorie verso gli intermediari prescindono per opinione comunemente ricevuta dalle necessità di una loro corresponsabilità civile.

L’ELEMENTO INTENZIONALE  (il fine di offrire o immettere in commercio i prodotti stoccati o posseduti) – Nei §§§ 64 ss. , l’AG ricorda che già l’impostazione del giudice a quo escludeva la presenza dell’elemento del possesso o detenzione, dal momento che elemento soggettivo veniva ravvisato solamente in capo al terzo e non ad Amazon (§ 67). Anche qui però la l’AG dice che , aderendo ad un concetto più ampio di servizio offerto da Amazon, la conclusione potrebbe essere diversa:  <<anche in tal caso, però, la risposta potrebbe essere diversa qualora si adottasse un’interpretazione dei fatti che ponga l’accento sulla situazione specifica delle imprese di Amazon in quanto ampiamente implicate nella commercializzazione dei prodotti in questione, nell’ambito del programma «Logistica di Amazon» . In tale prospettiva, che supera ampiamente quella di un mero assistente neutro del venditore, è difficile negare che dette imprese intendano anch’esse, insieme al venditore, offrire o immettere in commercio i prodotti controversi.>> (§ 68-69).

LA RESPONSABILITà (RISARCITORIA, PARREBBE) – Circa la responsabilità infine, da intendere parrebbe come soggezione al rimedio del risarcimento del danno, l’AG offre alcune considerazioni alla lettera C), §§ 70 ss. Se tale mia interpretazione (riferimento al risarcimento del danno) è corretta, la pertinenza di quest’ultima parte delle conclusioni è dubbia: il rinvio pregiudiziale infatti si concentrava solo sul se ricorresse o meno il concetto normativo di stoccaggio, senza menzionare il rimedio risarcitorio (v. quesito al paragrafo 19). La violazione del diritto e la risarcibilità dell’eventuale , però, costituiscono due profili diversi.

L’AG ai §§ 71-75 ricorda alcune norme europee, che danno rilevanza all’elemento soggettivo. Egli ancora distingue le due configurazioni possibili del servizio di Amazon Logistics, distinguendo infatti in base al ruolo concretamente svolto dall’intermediario. L’AG concede che i meri depositari vadano esenti da responsabilità (§§ 79-80). Il panorama è invece diverso <<quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità. Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo (52), potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi» (53), esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore>>. ( § 81-82).

L’intera causa lascia perplessi dal momento che le condizioni per l’emissione delle  inibitorie (ciò che aveva chiesto Coty inizialmente in Germania) sono notoriamente lasciate ai diritti nazionali, come si ricava senza particolari difficoltà dall’articolo 11 dir. 48/2004, ultima parte. Per cui la ricerca di un elemento soggettivo per la sottoposizione ad inibitoria è probabilmente non pertinente. Del resto il giudice a quo aveva semplicemente chiesto se, secondo la normativa europea, la fattispecie integrasse o meno il concetto di <<stoccaggio>> dei prodotti contraffatti, senza alludere minimamente il profilo soggettivo (v. quesito al § 19).

Staremo a vedere la risposta della Corte su questi importanti -anzi apicali- aspetti  del diritto europeo della proprietà intellettuale

Sul giudizio di validità e (quindi) di contraffazione di un disegno o modello comunitario

Il Tribunale di Roma  offre qualche insegnamento sul giudizio di validità e (successivamente) di contraffazione in tema di modelli o disegni comunitari disciplinati dal reg. CE 6/2002  del 12.12.2001.

Si tratta di Trib. Roma 19.11.2019 n. 22320/2019, Rg 72218/2016, Federal Signal Vama s.a. c. INTAV srl.

Le parti erano due società specializzate nella produzione e nella commercializzazione di dispositivi, apparecchi e accessori di segnalazione luminosa e acustica destinati ad essere installati su veicoli di emergenza, mezzi della polizia, nonché su veicoli ad uso della Pubblica Amministrazione in diversi settori. Il disegno (rectius: modello) comunitario azionato dall’attrice (dopo una fase cautelare sfavorevole) era appunto relativo ad un dispositivo segnalatore luminoso per autoveicoli .

Il collegio inizia ricordando che <<costituisce quindi contraffazione di un disegno registrato la produzione e/o commercializzazione di prodotti aventi forme che suscitano, nell’utilizzatore informato, la medesima impressione generale, riproducendo le caratteristiche individualizzanti del titolo di privativa, tenuto anche conto del margine di libertà del designer nel realizzare il modello.

Il giudizio sulla contraffazione di un design prende dunque come riferimento quello di un utilizzatore informato, ossia un consumatore finale attento che, pur non essendo un esperto di settore e/o un designer, usi il prodotto e conosca il mercato specifico all’interno del quale si colloca il modello.

All’utilizzatore informato si chiede quindi di operare un confronto tra il modello ed il prodotto asseritamente contraffattivo, al fine di accertare se quest’ultimo susciti o meno, all’esito di una analisi di insieme e complessiva, una impressione generale diversa rispetto alle linee rivendicate dal disegno o modello registrato.

Nella conduzione di tale test il disegno o modello va considerato nel suo effetto di insieme e non va dato peso alle modifiche insignificanti apportate dal presunto contraffattore; va invece attribuito particolare rilievo all’identità degli elementi formali che conferiscono al disegno o modello un proprio carattere individuale. (…) In sintesi, il carattere individuale, consiste nella capacità di un design di farsi notare per la peculiarità del suo aspetto e tale requisito consente al prodotto di riferimento di istituire un contatto privilegiato con l’utilizzatore informato >> (§ 8).

Osserva poi che <<il giudizio (incidentale) di validità del Design comunitario VAMA, da un canto, e il confronto tra i prodotti INTAV dedotti in contraffazione e il predetto Design VAMA, dall’altro, vanno effettuati alla luce dei criteri comuni innanzi indicati, esaminando le loro somiglianze e le loro differenze, al fine di stabilire, prendendo in considerazione l’affollamento del settore e il margine di libertà dell’autore nel realizzare il disegno o modello contestato, se essi producono nell’utilizzatore informato un’impressione generale significativamente diversa.

I due profili sono strettamente collegati, in quanto il riconoscimento del carattere individuale del Disegn VAMA rispetto allo stato dell’arte nota e dell’affollamento del settore, condiziona necessariamente l’estensione dell’ambito di tutela del disegno registrato rispetto alle sue possibili contraffazioni.

Conseguentemente, le analisi e le valutazioni sviluppate in funzione dell’eccezione di nullità del Design VAMA, sollevata in riconvenzionale da INTAV, vanno tenute in considerazione anche nel successivo giudizio di contraffazione, al fine di accertare se il confronto produce o meno nell’utilizzatore informato un’impressione generale significativamente diversa>>, § 9.

Gli ultimi due periodi riguardano uno dei punti teoricamente più interessanti, che viene solitamente poco approfondito: se i requisiti di validità siano uguali (seppur visti dal lato opposto, quasi specularmente) a quelli richiesti per aversi contraffazione, come avviene per i marchi nel rapporto tra requisiti di novità (artg. 12 c.p.i.) e requisiti per aversi contraffazione (<<diritti conferiti dalla registrazione>>, art. 20 cpi). Il giudice risponde positivamente, come emerge dal passo che vale la pena di ripetere: <<I due profili sono strettamente collegati, in quanto il riconoscimento del carattere individuale del Disegn VAMA rispetto allo stato dell’arte nota e dell’affollamento del settore, condiziona necessariamente l’estensione dell’ambito di tutela>>.

SUL <<CARATTERE  INDIVIDUALE>> – Dice il Collegio che <<il CTU ha utilizzato le differenze rilevanti appena indicate  [per il giudizio di novità] anche nella valutazione della sussistenza del requisito del carattere individuale del Design VAMA, al fine di stabilire se esso suscita in un utilizzatore informato una impressione generale significativamente differente dalle anteriorità analizzate, tenuto conto del margine di libertà dell’autore in considerazione dell’affollamento del settore. Nell’ambito di tale giudizio assumono rilievo la figura dell’utilizzatore informato ed il profilo dell’affollamento del settore che riduce il margine di libertà dell’autore.>>, § 12.

La legge (art 6/2 reg. CE e art. 33 c. 2 c.p.i.) per vero parla solo di margine di libertà dell’autore, non di affollamento del settore: per cui possono immaginarsi anche altri aspetti limitanti la libertà creativa (elenco in Fabbio, Disegni e modelli, Cedam, 2012,  49 ss).

Nel caso specifico la figura dell’utilizzatore informato viene individata <<“nel  professionista  che si occupa della scelta e dell’acquisto dei dispositivi di segnalazione luminosa per veicoli, ad esempio nell’ambito delle pubbliche amministrazioni”.>>, § 12. Si tratta dell’altro punto interessante della decisione: l’utilizzatore informato è l’ipotetico addetto (=responsabile?) dell’Ufficio Acquisti dell’impresa acquirente (impostazione dunque relativa al caso in cui si tratti di prodotto destinato ad imprese; da precisare come vada adattato al caso di microimprese prive di specifico Ufficio Acquisti).

Accertata la validità del titolo giuridico, il giudice passa al giudizio di contraffazione, <<rispetto al quale vanno utilizzati i concetti di utilizzatore informato, di affollamento del settore e di margine di libertà dell’autore già enucleati a proposto della valutazione della validità>>, (§ 13 ss.) (art. 10 reg. CE e art. 41 c.3-4 c.p.i.). Si è sopra accennato al rapporto di specularità tra requisiti di validità e quelli di contraffazione.

Anche qui vale la precisazione per cui la legge letteralmente menziona solo il margine di libertà creativa.

Il giudice fa un’altra precisazione interessante per gli operatori:   <<a tale proposito, va ribadito che l’arte nota acquisita al presente giudizio e considerata dal CTU, anche con riferimento al predetto settore “ristretto” innanzi detto, comporta, rispetto alla validità del design, che in tale settore possa ottenere tutela anche per varianti di entità limitata rispetto alla tecnica nota, mentre, riguardo alla contraffazione, che la protezione così ottenuta sia confinata alle suddette varianti >>, § 13. Si legga poi subito dopo il modus procedendi del CTU: <<individuati correttamente in tal modo i parametri del giudizio di contraffazione, il CTU ha confrontato tutte le caratteristiche salienti del Design VAIMA con quelle dei prodotti INTAV, predisponendo per ciascuno di essi un’apposita e dettagliata Tabella di comparazione.>> e poi <<la differente ricostruzione dello stato dell’arte nei due giudizi rende quindi corretta la valutazione compiuta dal CTU in punto di “affollamento” del settore “ristretto” e il suo discostamento dalle decisioni EUIPO (p. 20).

Ne consegue il riconoscimento di un più ristretto margine di libertà dell’autore che rende apprezzabili, nell’aspetto complessivo, anche differenze meno evidenti tra i prodotti e il disegno tutelato e fa si che nel settore in considerazione, da un canto, si possa ottenere tutela anche per varianti alla tecnica nota di limitata entità, e, dall’altro canto, che la protezione così ottenuta sia in genere confinata a tali limitate varianti>> , (§ 14.2 in fine).

SULL’UTILIZZATORE INFORMATO –  Al § 14.3 il giudice ricorda una non rigorosa decisione EPO del 2013, che però il CTU non condivide, sicchè -come già sopra accennato- così conclude: <<Nel presente giudizio, invece, il CTU ha correttamente ritenuto, anche secondo le posizioni sostanzialmente concordi assunte dalle parti, che l’utilizzatore informato dovesse essere identificato nell’acquirente finale dei prodotti esaminati dotato di un certo grado di attenzione e, dunque, “nel professionista che si occupa della scelta e dell’acquisto dei dispositivi di segnalazione luminosa per veicoli, ad esempio nell’ambito delle pubbliche amministrazioni”. (…) Pertanto, il riconoscimento in questa sede di un apprezzabile livello di conoscenza e di un considerevole livello di attenzione, avvicina l’utilizzatore informato all’uomo del mestiere e lo allontana dal consumatore medio, rafforzando la considerazione che i disegni che presentano differenze significative nelle caratteristiche in cui la libertà dell’autore non è soggetta a restrizioni suscitano un’impressione generale differente nel medesimo utilizzatore informato  >>, § 14.4.

Se però il consumatore medio è chi lo usa in via professionale, come avviene per i prodotti destinati ad uso imprenditoriale, le due figure dovrebbero coincidere.

SULLA CONCORRENZA SLEALE – Venuti meno i presupposti per ravvisare contraffazione, viene meno anche la possibilità di ravvisare concorrenza sleale: <<una volta accertata in questa sede l’insussistenza della contraffazione del Design VAMA da parte di tutti prodotti INTAV in contestazione, vengono meno anche i presupposti per considerare concorrenzialmente illecita, sotto i vari profili denunciati da parte attrice (imitazione servile, appropriazione di pregi, concorrenza parassitaria, comportamenti contrari alla correttezza professionale e sfruttamento del lavoro altrui), l’attività di produzione e commercializzazione da parte di INTAV dei tre modelli del Prodotto C “denominati Freeway”. Invece, per i Prototipi A e B sui quali si era svolto il procedimento cautelare ante causam dinanzi al Tribunale di Torino, parte attrice non ha fornito alcuna prova della loro effettiva o potenziale produzione e/o commercializzazione>> § 15.

Siffatta perentorietà nell’escludere la concorrenza sleale  è così motivata subito dopo: <<difatti, una volta stabilito (e ammesso dalla stessa società attrice) che, nel settore “ristretto” dei dispositivi di segnalazione luminosa apposti sui veicoli, la figura del consumatore finale da prendere in considerazione coincide con quella dell’utilizzatore informato, il quale (come sostiene parte attrice) “non può che essere individuato nell’acquirente finale dotato di un certo grado di attenzione” da individuare nel responsabile degli acquisti delle case automobilistiche o della pubblica amministrazione, al quale va riconosciuto un elevato grado di attenzione e una spiccata sensibilità nell’individuazione delle differenze tra i vari prodotti del medesimo settore, deve escludersi che le differenze tra i medesimi prodotti e il Design VAMA innanzi evidenziate possano creare confusione nel consumatore medio di tale tipologia di prodotti.

Con particolare riferimento all’imitazione servile, essa deve riguardare le forme esteriori di un prodotto altrui e deve consistere nella riproduzione pedissequa di quei dettagli individualizzanti del modello imitato agli occhi del consumatore medio.

Non avendo parte attrice fornito la prova, mediante l’allegazione di elementi diversi da quelli sui quali si è fondata l’asserita e indimostrata contraffazione, che la mancanza di significative differenze renda confondibili per il consumatore medio i prodotti delle rispettive parti concorrenti sul mercato, con conseguente pericolo di sviamento della clientela, la condotta concretamente tenuta dalla società convenuta non può essere considerata concorrenzialmente illecita sotto il profilo dell’imitazione servile o dell’appropriazione dei pregi dei prodotti riconducibili al Design VAMA ad opera dei Prodotti Freeway di INTAV.

Neppure può essere considerato comportamento contrario alla correttezza professionale e/o sfruttamento del lavoro altrui la mera circostanza che la INTAV nel 2016 ha assunto, con qualifica di ingegnere elettronico, il sig. Rafael Sadrà Valluvi che, in precedenza, lavorava alle dipendenze di VAMA e che ben conosceva i design e i prodotti di tale azienda>> (§ 15)

Brevettazione di invenzioni create dall’intelligenza artificiale: chi va indicato come inventore?

Rose Hughes nel sempre interessante blog IPkat.com in un post 22.12.2019 dà notizia del rifiuto da parte dell’EPO (European Patent Office) della brevettazione di due trovati creati dall’ intelligenza artificiale.

Si tratta di due invenzioni “parallele” basate sulla tecnologia frattale, la sintesi della cui descrizione è la seguente:

<<Un contenitore (10) da utilizzare, ad esempio, per bevande, ha una parete (12) con una superficie esterna (14) e una parete interna (16) di spessore sostanzialmente uniforme. La parete (12) ha un profilo frattale che fornisce una serie di elementi frattali (18-28) sulle superfici interna ed esterna (14-16), formando fosse (40) e rigonfiamenti (42) nel profilo della parete e in cui una fossa (40) vista da una delle superfici esterne o interne (12, 14) forma un rigonfiamento (42) sull’altra delle superfici esterne o interne (12, 14). Il profilo consente di accoppiare più contenitori insieme mediante un impegno di pozzi e rigonfiamenti su quelli corrispondenti dei contenitori. Il profilo migliora anche l’aderenza, nonché il trasferimento di calore all’interno e all’esterno del contenitore>> (domanda EP20180275163);

<<La presente invenzione descrive dispositivi e metodi per attirare una maggiore attenzione. I dispositivi includono: un segnale di ingresso di un treno di impulsi lacunari avente caratteristiche di una frequenza di impulsi di circa quattro Hertz e una dimensione frattale del treno di impulsi di circa la metà; e almeno una sorgente di luce controllabile configurata per funzionare in modo pulsante dal segnale di ingresso; in cui una fiamma neurale emessa da almeno una sorgente di luce controllabile a seguito del treno di impulsi lacunari è adattata per servire come segnale di segnalazione identificabile in modo univoco su fonti di attenzione potenzialmente concorrenti attivando selettivamente filtri di rilevamento di anomalie umane o artificiali, attirando così maggiore attenzione.>> (domanda EP20180275174)  (traduzioni automatiche prese dal database dell’EPO)

In breve si tratta -par di capire- di creazione di contenitore per bevande e -rispettivamente- di produzione di segnali luminosi per emergenze.

La particolarità è che il creatore dell’algoritmo, dovendo designare l’autore dell’invenzione secondo l’art. 81 dell’EPC (European Patent Convention 05.10.1973) e l’art. 19 c. 1 del suo regolamento di esecuzione,  non ha indicato sè stesso bensì: i) inizialmente ha lasciato in bianco il campo del nome dell’inventore, ii) poi ha designato come inventore una macchina (“machine”) chiamata DABUS e ha precisato la propria qualifica di richiedente  e attuale titolare dei diritti quale employer/datore di lavoro. Successivamente ha corretto tale designazione indicando di essere titolare dei diritti in qualità di “successor in title”.

Successivamente l’ufficio nel documento allegato alla lettera 13 settembre 2019 di convocazione per l’udienza del 21 novembre 2019 [Summons to attend oral proceedings pursuant tu Rule 115(1) EPC – Annex to Summons (EPO form 2901AK). Points to be discussed (R.116(1) EPC)] ha negato la legittimità di queste indicazioni: l’ha fatto sostenendo che un inventore deve essere una persona fisica e non può essere una macchina, poiché queste non hanno personalità giuridica e non possono essere titolari di diritti  (§ 11). Ha anche anticipato che, se non rimedierà alle designazioni insufficienti, la domanda verrà respinta (§ 17)

Gli avvocati del richiedente hanno replicato con dettagliate controdeduzioni: v. le Submission in preparation for oral  proceedings scheduled for 25 november 2019 dello studio Williams Powell di Londra del 25.10.2019, che fra l’altro sollevano un profilo interessante circa i diritti morali (p.5-6).

Successivamente è stata diffusa il 20 dicembre 2019 la minuta della discussione orale davanti alla Receiving Section tenutasi il 25 novembre (Minutes of the oral proceedings before the Receiving Station); ivi sono riepilogate le tesi difensive del richiedente, basate sostanzialmente sul fatto che la normativa non impedisce la brevettazione di invenzioni create da sistemi di intelligenza artificiale (ad es. § 10 e 13).

Il delegato dell’EPO Chairperson Magdalena Kolasa, dopo una camera di consiglio di 16 minuti, dichiarato che le due domande di brevetto sono respinte poiché non rispettano i requisiti dell’articolo 81 e della regola 19 dell EPC.

Si attendono ora le motivazioni-. Il richiedente ha già dichiarato che presenterà appello.

Secondo un recente studio, il diritto di privativa sui prodotti realizzati da un sistema di intelligenza artificiale andrebbe attribuito al soggetto che lo utilizzi (Spedicato, Creatività artificiale, mercato e proprietà intellettuale, Riv. dir. ind., 2019, 284-287).

[ Nota: i documenti citati sono presenti nel database dell’EPO: nella pagina sopra ricordata a proposito del riassunto della descrizione, vedasi  la voce Global Dossier e il link ivi sotteso che porta all’elenco di tutti i documenti]

Sul punto si era espresso come l’EPO già Noam Shemtov, A study on inventorship in inventions involving AI activity, febbraio 2019 (studio commissionato dall’EPO stesso, che evidentemente poi si è attenuto alle relative conclusioni), sub 2.c.i, pag. 33: <<As discussed in length above, it is clear that at present all of the relevant jurisdictions limit the definition of inventor to natural persons. Although the EPC does not contain a definition of the term  “inventor”, it is submitted that it is unambiguously implicit that AI systems cannot be identified as inventors, as discussed above. To recap, identification of AI systems as inventors is not reconcilable with the overall legal framework of the EPC, and in particular the rights enumerated under Article 60 EPC. As mentioned, inventorship is the starting point of an entitlement/ownership enquiry, with the inventor being a first owner unless the invention was made in the course of employment. However, since AI systems do not have a separate legal personality, and are not
expected to have one in the foreseeable future, such systems are incapable of owning property. In the same vein, AI systems cannot be part of employment relationships in the legal sense of the term; they cannot be considered as employees unless and until they have legal personality. To conclude, considering AI systems as inventors and applying the provisions of Article 60 to such “inventors” as would be the case under the EPC is unworkable. In addition, it has been established that the moral right to be mentioned as an inventor, which serves a number of key interests in the case of human inventors, would serve no desirable purpose whatsoever if applied to AI systems. Thus, not only does the present legal position not allow for AI systems to be considered as inventors, it is submitted that at present there are no convincing reasons to consider a change in this respect.    In light of the above, should a patent application be filed designating an AI system as an inventor, it would be likely to be found deficient under Art>> (v. la pagina dell’EPO sull’A.I., in cui è presente questo studio, assieme ad altri due documenti in forma di slides).

L’Ufficio europeo ha inserito un paragrafo specifico nelle sue Guidelines for Examination, Patentability-List of esclusions, relativo a Artificial intelligence and machine learning (G.II.3.3.1).

E’ probabile dunque che i richiedenti brevetto, per invenzione prodotta dall’A.I., indicheranno il nome  di un <<proxy human inventor>> (così per D. Gervais, Is intellectual property law ready for artificial intelligence?, GRUR International, 2020, 1-2, p.2)

Diritto morale d’autore e obbligo di menzione del nome dell’autore

Il tribunale di Milano (sent.  11037/2018 del 31.10.2018, RG 41630/2016, rel. Dal Moro, Carrubba Pintaldi c. Giorgio Armani spa) affronta la questione del se l’impresa committente (e cessionaria di ogni diritto) debba menzionare il nome dell’autore nel pubblicizzare i gioielli da lui creati. La risposta è negativa. Una cosa infatti è il dovere di menzionare e quindi -nel caso in cui non esista- il tacere sul nome del creatore (condotta omissiva); altra cosa invece è usurpare la paternità affermando di essere l’autore (condotta commissiva).

Il dato normativo non è chiarissimo, limitandosi a dire <<l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera>> (art 20 c. 1 legge d’autore; del resto è irrilevante l’ammettere le  domande di accertamento del diritto, diverse dalla pretesa di essere sempre menzionati). Tuttavia applicando il tralatizio canone ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, si può forse concludere che l’obbligo di menzione sussista solo nei casi espressamente previsti. Si pensi ad esempio nella legge di autore a: -art. 40 c. 1, -art. 48, -art. 54 c. 2, -art. 98 c. 2, -art. 138 e, per le libere utilizzazioni, art. 65 c. 1, -art. 67, -art. 70 c. 3, -art. 71 bis c. 2 septies.

L’altro punto interessante è il giudizio sui fatti di causa, relativo al se l’apposizione del marchio Armani sui gioielli -senza menzione della stilista creatrice- abbia costituito usurpazione e cioè attribuzione a sé della paternità oppure semplicemente apposizione di marchio per la commercializzazione: condotta, quest’ultima, che nulla lascia intendere sulla paternità. La risposta del Tribunale è stata nel secondo senso.

Ecco i passi  più rilevanti della sentenza.

<<La tesi attorea fonda la sua difesa sull’erroneo presupposto per cui l’omessa menzione del nome di un autore costituisca invariabilmente una manifestazione concreta di violazione del diritto autorale; al contrario, l’essenza del diritto morale d’autore consiste nel diverso diritto a non vedere disconosciuto il proprio ruolo di autore; tale diritto negativo non necessariamente si traduce nell’obbligatoria indicazione del nome dell’autore (aspetto la cui regolamentazione è nella disponibilità delle parti); quindi, l’omessa menzione del nome dell’autore di un’opera nella sua diffusione non implica di per sé che sia messa in discussione la paternità della stessa. Peraltro nel caso di specie non sussiste un diritto alla menzione del disegnatore di gioielli né per contratto né in considerazione degli usi invalsi nel settore della gioielleria e bigiotteria; in tal senso il Tribunale condivide la giurisprudenza sul punto 3. Peraltro una comune volontà delle parti nel senso della non menzione della disegnatrice o quantomeno una tacita acquiescenza della signora, può desumersi dal fatto che per circa 12 anni dalla pubblicazione del primo catalogo nessuna contestazione è mai stata mossa da parte attrice nei confronti di Armani in punto di modalità di pubblicizzazione/presentazione dei gioielli. Sicchè il prolungato periodo di inerzia di parte attrice corrobora la tesi della infondatezza della domanda>>

Ed inoltre: <<Non è stata offerta da parte della attrice prova idonea di un avvenuto disconoscimento della propria opera creativa. Infatti, premesso che – come già visto – l’omessa menzione dell’autore di per sé sola non costituisce una prova di disconoscimento, tutte le altre prove addotte riguardano immagini che si limitano a evidenziare come i gioielli in questione siano associati al marchio Armani e non alla persona dello stilista quale loro creatore. Il fatto che il nome Armani contraddistingua i gioielli sui cataloghi non significa che lo stilista ne rivendichi la creazione a sé, disconoscendo il ruolo della disegnatrice, al contrario costituisce prassi diffusa e ovvia nonché strategia commerciale più fruttuosa che il brand – ciò che agli occhi del pubblico dei consumatori rende immediatamente riconoscibile il prodotto – sia posto in evidenza da solo. Né valgono in senso opposto gli articoli giornalistici che riportano la notizia del lancio della nuova linea di gioielli “Armani” tanto più che il documento più significativo risale al 2011 e si riferisce ad una collezione pertanto di molto successiva a quelle create nel corso della collaborazione con l’attrice. In ogni caso, come correttamente osserva la convenuta, sono reperibili in atti anche documenti ove il ruolo della signora Carrubba è riconosciuto e reso noto al pubblico e da cui si può altresì evincere come parte attrice dovesse essere consapevole del vantaggio di immagine conseguito grazie alla collaborazione con Armani>>

Singolarmente elevata la liquidazione delle spese di lite: euro 21.387,00+15% per spese forfettarie.

Sull’esaurimento del diritto d’autore relativo a libro digitale (il caso Tom Kabinet)

La questione della assoggettabilità ad esaurimento del diritto d’autore (del solo diritto di distribuzione (art. 4 § 2 dir. 29/2001; art. 17 c. 2 l. aut.) su libro digitale ha trovato -per ora, almeno- definizione. La Corte di Giustizia con sentenza 19.12.2019, C-263/18, NUV-GAU c. Tom Kabinet, dopo le accurate conclusioni dell’avvocato generale Szpunar 10.09.2019, ha preso posizione ed ha risposto negativamente: la fornitura di un libro elettronico per uso permanente (cioè senza limiti di tempo) rientra nella comunicazione al pubblico (in particolare nella messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente ex art. 3/1 dir. 29/2001) e non nella distribuzione. Di conseguenza non opera l’esaurimento, che è limitato al diritto di distribuzione. Quindi il mercato dell’usato di libri elettronici non può svilupparsi, essendo soggetto al consenso del titolare del diritto.

La sentenza richiederà meditazione accurata per la complessità degli interessi in gioco e le difficoltà ermeneutiche, per cui qui propongo solo brevissime considerazioni ad una prima lettura.

La Corte inizia ricordando le disposizioni del  WCT (WIPO Copyright Treaty 20.12.1996) , di cui la Direttiva 29 è anche attuazione (cons. 15) le quali nelle agreed statements agli articolo 6 e 7 riferiscono il diritto di distribuzione (e di noleggio) solo alle copie fisiche. Tuttavia è comunemente accettato che le Agreed Statements non possiedono forza interpretativa vincolante.

Inoltre la Corte si riferisce alla relazione sulla proposta di direttiva sfociata nella direttiva 29 da cui emerge che  <<che la proposta di direttiva mirava a far sì che qualsiasi comunicazione al pubblico di un’opera, diversa dalla distribuzione di copie materiali di quest’ultima, rientrasse non nella nozione di «distribuzione al pubblico» di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, bensì in quella di «comunicazione al pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva.>>§ 45.

Solo che anche qui si può dire che il materiale preparatorio è sempre di dubbia utilizzabilità in sede ermeneutica potendosi anche  argomentare in senso opposto: ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit . Cioè  proprio perché la precisazione in sede di lavori preparatori non è stata ripetuta nel testo definitivo, può dirsi che non sia stata voluta.

Altro argomento è quello della tutela estesa del diritto d’autore (paragrafi 46-48): anche qui però  la genericità di queste considerazioni non è di ausilio interpretativo

A questo proposito La Corte ricorda i considerando 28 e 29 dir. 29 i quali parlano di “supporto tangibile” per la distribuzione  e di esclusione dell’esaurimento per i servizi e le copie materiali realizzate dall’utente del servizio stesso. Anche queste considerazioni non sono persuasive. Da un lato i considerando non sono vincolanti; dall’altro il concetto di servizio è diverso da quello di libro digitale. A nulla rileva che si parli nel paragrafo 29 di “copie tangibili” realizzate dagli utenti di un servizio: si presuppone infatti che ricorra un servizio, il che non avviene nel caso de quo.

Ancora (§ 52 seguenti) per la CG il concetto di distribuzione si riferisce ai supporti tangibili in base non al dettato dell’art. 4 -muto sul punto- ma alla giurisprudenza. C’è però giurisprudenza contraria, come ricorda la stessa CG. Nella nota sentenza Usedsoft del 2012 ( C‑128/11, del 03.07.2012), relativa alla distribuzione di software, la CG assimilò la distribuzione su supporto a quella via internet, per cui l’esaurimento per allo stesso modo in entrambi i casi. Qui la situazione è diversa perché il libro digitale non è un software, per cui la ripresa del ragionamento è dubbia. Vi sono infatti differenze economiche e funzionali e il discorso richiederebbe approfondimenti qui non possibili. Mi limito a dire che nella dir. sul software 2009 n. 24 manca il diritto di comunicazione al pubblico (salvo dire che lo si può invocare dalla normativa generale ex dir. 21/2001), essendo esplicitati solo la riproduzione i diritti di elaborazione e di distribuzione (art. 4 comma 1).

Da ultimo la Corte affronta l’obiezione per cui non ricorre il concetto usuale di comunicazione al pubblico (§ 60 seguenti).   La Corte lo supera dicendo che <<nel caso di specie, è pacifico che la Tom Kabinet mette le opere di cui trattasi a disposizione di qualunque persona si registri sul sito Internet del club di lettura, la quale può avervi accesso dal luogo e nel momento individualmente scelto, sicché si deve considerare che la fornitura di un tale servizio configura la comunicazione di un’opera ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, senza che sia necessario che detta persona si avvalga di tale possibilità scaricando effettivamente il libro elettronico da detto sito Internet >>, § 65.

Però  l’ostacolo non è in realtà superato: il libro acquistato viene rivenduto ad un solo soggetto e dunque non è a disposizione scaricabile per chiunque. E ciò non costituisce certo “pubblico”, trattandosi di trasferimento ad un unico soggetto. La Corte supera questo ostacolo precisando che, oltre che per la possibilità di qualunque interessato di poter divenire membro del club di lettura [e quindi Acquistare il libro], nella comunuicazione al pubblico  rileva -per ravvisare il “pubblico”- anche <<l’assenza di misure tecniche, nell’ambito della piattaforma di tale club, che consentano di garantire che possa essere scaricata un’unica copia di un’opera durante il periodo in cui l’utente di un’opera ha effettivamente accesso a quest’ultima e che, scaduto tale periodo, la copia scaricata da tale utente non sia più utilizzabile da quest’ultimo (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 2016, Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, EU:C:2016:856), si deve considerare che il numero di persone che possono avere accesso, contemporaneamente o in successione, alla stessa opera tramite tale piattaforma è notevole. Pertanto, fatta salva una verifica da parte del giudice del rinvio che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, l’opera di cui trattasi deve essere considerata come comunicata a un pubblico ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 >>, § 69.

Non è chiaro il riferimento alla sentenza Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, la quale si limita a dire che l’eccezione di prestito pubblico  ex art. 6 dir. 115/06 si applica pure ai libri digitali (purchè uno alla volta e con successiva inutilizzabilità di quello “scaduta”): ciò perchè non vi ostan il WCT WIPO Copyright Treaty 20.12.1996, che nell’Agreed Statement all’art. 7 pone il requisito della copia tangibile solo per il noleggio, non per il prestito (sentenza C-174/15, Prima Questione, § 39 e §§ 53-54).

Qui però la sentenza in esame dà per provato ciò che in realtà era da provare e cioè che nel caso specifico più persone contestualmente o in successione potevano acquistare copia del libro.

La Corte conclude al § 69 dicendo che, <<tenuto conto della circostanza, rilevata al punto 65 della presente sentenza, che qualsiasi interessato può divenire membro del club di lettura, nonché dell’assenza di misure tecniche, nell’ambito della piattaforma di tale club, che consentano di garantire che [1] possa essere scaricata un’unica copia di un’opera durante il periodo in cui l’utente di un’opera ha effettivamente accesso a quest’ultima e che [2] , scaduto tale periodo, la copia scaricata da tale utente non sia più utilizzabile da quest’ultimo (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 2016, Vereniging Openbare Bibliotheken, C‑174/15, EU:C:2016:856)>>, ricorre la comunicazione al pubblico (numeri in rosso da me aggiunti). Aggiunge in coda, però, che va  <<fatta salva una verifica da parte del giudice del rinvio che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti>> (§ 69, in fine)

Il punto è importante. Par infatti di capire che, se si accerta che nel caso specifico ricorrono misure tecniche tali da garantire il download di una sola copia per volta, in modo che non ci sia mai più di una copia del libro acquistgato da quel rivenditore, allora si rientra nel diritto di distribuzione (soggetto ad esaurimento) e non di comunicazione al pubblico.

La Corte però non dà indicaizoni di dettaglio su quest’ultimo punto e in particolare su chi incomba l’onere di provare che il libro è soggetto non ad una sola vendita bensì a alla possibilità di plurimi download. Verosimilmente toccherà all’acquirente/rivenditore provarlo, quantomeno per la sua maggior vicinanza alla prova.

Queste osservazioni descriverebbero <<in maniera puntuale l’evoluzione di modelli di gestione della proprietà intellettuale e del diritto d’autore mediante sistemi blockchain, che consentono di creare artificialmente condizioni di scarsità in senso economico – creando dunque copie digitali “uniche” di un determinato asset digitale-, favorendo nel contempo modalità di trasferimento univoche di tale asset tra i partecipanti>> (Galli M.-Bardelli E., Il mercato secondario degli ebook tra distribuzione, comunicazione al pubblico e principio dell’esaurimento, Riv. dir. dei media, 12.02.2020, p. 3, § 5).

La Corte infine non considera un ostacolo all’assoggettamento alla distribuzione (e quindi ad esaurimento), che era invece stato acutamente rilevato dall’avvocato generale:  quello del diritto di riproduzione. Infatti mentre nel mondo analogico la rivendita del libro non comporta alcuna riproduzione, in quello digitale si. Ed è certo che la prima vendita non ha attribuito all’acquirente il diritto di riprodurre i fini delle rivendite. per cui questo obiezione potrebbe essere risolutiva. In senso negativo. Si potrebbe forse ragionare su un’interpretazione evolutiva nel senso che la riproduzione temporanea è ammessa al solo scopo di poter rivendere il libro: con la conseguenza che l’acquirente/rivenditore dovrebbe subito poi cancellare la copia rimasta sul proprio dispositivo.

Il vero problema allora è come evitare che le dichiarazioni di intenti relative a tali cancellazioni siano eseguite nella pratica e provate in causa. Secondo la regola generale dell’onere probatorio potrebbe dirsi che -visto che è una riproduzione c’è-  toccasse all’acquirente/rivenditore dare prova di ciò. Certo che qui emerge la differenza vera tra mondo analogico e mondo digitale. Anche nel primo l’acquirente prima di rivendere teoricamente poteva farsi una copia del libro per tenerla per sé: solo che era improbabile, data  la fatica del lavoro di copiatura, a meno di detenere le fantasmagoriche tecniche di copiatura di Google Books.

Sembra quindi che sia questo il punctum dolens dell’assoggettabilità al diritto di distribuzione (e quindi all’esaurimento) della rivendita di libri digitali.

Decisione automatizzata della Pubblica Amministrazione e divulgazione (accessibilità) dell’algoritmo sottostante

Iniziano ad aumentare i casi di richiesta di accesso all’algoritmo utilizzato per l’emissione di provvedimenti amministrativi.

Ls sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 13.12.2019, n. 8472/2019, Reg. Ric. 2936/2019, è molto interessante perchè analizza il ruolo dell’algoritmo nell’azione amministrativa, affermandone la piena utilizzabilità, dati gli evidenti vantaggi (§§ 7-11).

Ne afferma anche però la piena soggezione al principio di trasparenza (§ 13.1)

Nel caso specifico alcuni docenti hanno contestato i provvedimenti di assegnazione delle sedi, resi sulla base di un algoritmo sconosciuto, sopratutto perchè non avevano tenuto conto delle preferenze da loro espresse in domanda, nonostante i posti preferiti fossero disponibili (§ 1).

Nè <<in senso contrario … può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza >> (ivi).

L’espressione pare da intendere nel senso che l’invocazione della riservatezza (tecnicamente: la non riproducibilità causata dalla vigenza di diritto di autore)  va disattesa. Infatti l’impresa, che “negozia” con la PA la realizzazione e consegna di software, sa che il suo uso sarà soggetto agli obblighi di trasparenza dell’azione amministrativa.

Sorgono dubbi circa la proprietà intellettuale.  L’affermazione può forse condividersi quando negli atti negoziali (o amministrativi) di affidamento dell’incarico nulla sia detto in proposito. Se però la fornitrice fosse riuscita ad imporre il divieto assoluto di divulgazione dell’algoritmo, quid iuris? L’interesse pubblico alla trasparenza amministrativa dovrebbe di certo prevalere sull’interesse privato tutelato con la privativa di autore: ma su quale base giuridica?

A fini pratici, inoltre, il CdS ne afferma sì la soggezione alla disciplina del procedimento amministrativo, ma con gli opportuni adattamenti  (§ 16): <<l’amministrazione, nel presente contenzioso, si è limitata a postulare una coincidenza fra la legalità e le operazioni algoritmiche che deve invece essere sempre provata ed illustrata sul piano tecnico, quantomeno chiarendo le circostanze prima citate, ossia le istruzioni impartite e le modalità di funzionamento delle operazioni informatiche se ed in quanto ricostruibili sul piano effettuale perché dipendenti dalla preventiva, eventualmente contemporanea o successiva azione umana di impostazione e/o controllo dello strumento. In tal senso la sentenza può essere confermata ma con diversa motivazione. Infatti, l’impossibilità di comprendere le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, siano stati assegnati i posti disponibili, costituisce di per sé un vizio tale da inficiare la procedura, in termini analoghi e coerenti rispetto al precedente della sezione più volte citato che, tuttavia, in parte se ne differenziava essendo state provate singole violazioni di legge mentre qui la censura finisce per involgere il metodo in quanto tale per il difetto di trasparenza dello stesso. Ciò ha trovato indiretta conferma dall’avvenuta esecuzione della sentenza appellata, in termini satisfattivi delle posizioni azionate>>.

Commentando la decisione, la dottrina ha evidenziato quattro garanzie (requisiti) per il legittimo ricorso alla decisione algoritmica: conoscibilità, trasparenza, partecipazione e sindacabilità. Circa le prime due, ha precisato che <<si deve poter accedere quanto meno ai seguenti elementi: a) creatori del software; b) criteri utilizzati per la sua  elaborazione; c) modalità di svolgimento della fase istruttoria procedimentale; d) criteri utilizzati per l’adozione della decisione>> (Dalfino, Decisione amministrativa robotica ed effetto performativo. Un beffardo algoritmo per una “buona scuola”, 13.01.2020, Questionegiustizia.it , § 3).

Del resto la P.A. deve fornire ai soggetti “trattati” (i cui dati sono trattati) <<informazioni necessarie per garantire un trattamento corretto e trasparente>>, relative all’ <<esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all’articolo 22, paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato>> (art. 13.2.f; art. 14.2.g; art. 15.1.h, GDPR reg. 679/2016).

La direttiva sulla tutela dei segreti commerciali (dir. UE 94372015), del resto, pone la riserva per cui <<La presente direttiva non dovrebbe pregiudicare l’applicazione delle norme dell’Unione o nazionali che prevedono la divulgazione di informazioni, inclusi i segreti commerciali, … alle autorità pubbliche, né essa dovrebbe pregiudicare l’applicazione delle norme che consentono alle autorità pubbliche di raccogliere informazioni per lo svolgimento dei loro compiti>> (cons. 11): compiti tra cui c’è amministrare la giustizia.

Questa sentenza ne cita un altra della medesima sezione sesta, diverso estensore, molto simile come fattispecie da esaminare e come iter ed esito decisionale: Cons. Stato sez. VI, 08.04.2019, n. 2270/2019, Reg. Ric.  4477/2017 , della quale riporto i seguenti passaggi:

  • utilità e legittimità del processodecisionale automatico, § 8.1;
  • necessità però di sottostare alla disciplina comune del procedimento amministrativo, per cui il <<In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”>>, § 8.2. Ne seguono due conseguenze:
  • primo: <<il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti>>, § 8.3
  • secondo: <<la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo. La suddetta esigenza risponde infatti all’irrinunciabile necessità di poter sindacare come il potere sia stato concretamente esercitato, ponendosi in ultima analisi come declinazione diretta del diritto di difesa del cittadino, al quale non può essere precluso di conoscere le modalità (anche se automatizzate) con le quali è stata in concreto assunta una decisione destinata a ripercuotersi sulla sua sfera giuridica>>,  § 8.4.

In altre parole, secondo il C.d.S. questo comporta <<che la traduzione della regola tecnica in regola giuridica avvenga in modo chiaro per l’utente e per il giudice che deve verificarne la legittimità, in un’ottica di trasparenza “irrobustita”; sganciata da schemi predefiniti e orientata unicamente a garantire il risultato della massima spiegabilità. Per rispettare il concetto di massima trasparenza e dunque consentire di attuare quel meccanismo di spiegabilità che consiste nella traduzione della formula tecnica nella regola giuridica a essa sottesa, non basta fornire le istruzioni del software ma occorre che siano resi noti i suoi autori, il procedimento utilizzato per la sua elaborazione, il meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati sele-zionati come rilevanti: in altri termini, il linguaggio sorgente del software. Infatti, gli algoritmi funzionano attraverso appositi software, cioè programmi informatici specifici. A ben vedere, il fulcro della sentenza del Consiglio di Stato sta proprio in questo passaggio argomentativo e nell’accezione “sostanziale” di trasparenza che propone. Non vi è alcun ostacolo giuridico all’utilizzo dell’algoritmo nei procedimenti amministrativi che, anzi, si pone del tutto in linea con il favor generale dell’ordinamento per la digitalizzazione degli uffici pubblici>> (cosi Nicotra-Varone , L’algoritmo, intelligente ma non troppo, in Rivista A.I.C., 2019/4, 22.11.2019, p. 15, a commento di Cons. Stato n. 2270/2019).

L’attività di bilanciamento degli interessi allora dovrà essere compiuta dalla PA a monte e cioè in sede di costruzione dell’algoritmo (V. Canalini, L’algoritmo come “atto amministrativo informatico” e il sindacato del giudice,  nota a C.S. 2270 del 2019, Giorn. dir. amm., 2019, 6, 784).

La dottrina riporta un esito opposto in un caso simile da parte del BGH: <<Nell’ordinamento tedesco, una pronuncia del Bundesgerichtshof ha affrontato la specifica questione dell’incidenza della tutela del segreto sul diritto di accesso alla logica del trattamento automatizzato in relazione a un sistema di scoring sulla affidabilità creditizia . La richiesta di un soggetto interessato ad accedere alle informazioni relative alla logica del sistema di scoring e dunque alle informazioni sui metodi della valutazione dell’affidabilità creditizia, è stata da ultimo respinta dalla Corte federale tedesca. I giudici hanno affermatocome il diritto di accesso alla logica utilizzata dal trattamento automatizzato debba essere interpretato come comprensivo unicamente di dati personali che sono stati rilevanti ai fini del trattamento (input) e della decisione conseguente (output), ma non le formule di scoring, i dati statistici e le informazioni relative ai cluster di riferimento>> (Schneider G., <<Verificabilità>> del trattamento automatizzato dei dati personali e tutela del segreto commerciale nel quadro europeo, in Merc. concorr. regole, 2019, 2, 375). Bisognerebbe però vedere di quale ente si trattava: se fosse un ente sottoposto a disciplina privatistica non essendo una PA, il paragone non sarebbe pertinente. Non pare infatti che la base giuridica del diritto di accesso alle regole del’algoritmo verso la PA possa essere estesa al caso di algoritmo usato da ente privato (nè offrono appigli gli artt. 124, 124 bis, 125 T.U.B. su informazioni precontrattuali e merito creditizio).

Esamina la maggior tutela, emergente dalla giurisprudenza nazionale rispetto a quella offerta dal GDPR Reg. UE 679/2016, Simoncini A., Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, Riv. dir. pubbl., 2019, 1169 ss., §§ 3.2-3-3.

Ricorda alcune decisioni TAR 2018-2019 in senso più restrittivo circa l’utilizzabilità degli algoritmi L. Musselli, La decisione amminsitrativa nell’età degli algoritmi, medialaws.eu 2020, p. 8.

Un a. propone di <<pensare all’algoritmo come ad un atto endoprocedimentale, ed al suo utilizzo come ad una fase del procedimento amministrativo destinato poi a concludersi con l’adozione del provvedimento finale>> (Muciaccia N., Algoritmi e procedimento decisionale: alcuni recenti arresti della giustizia amministrativa, www.federalismi.it , 15.04.2020, n. 10/2020, p. 358).

Un recente saggio affronta le questioni in materia: Prosperetti, Accesso al software e al relativo algoritmo nei procedimenti amministrativi e giudiziali. Un’analisi a partire da due pronunce del TAR Lazio, in Dir. informazione e informatica, 2019, 979 ss L’a. ricorda che tra le eccezioni al diritto di autore c’è quella della riproducibilità nei procedimenti amministrativi e giudiziari (art. 67 e 71 quinquies l. aut.).

Tra l’altro , dato che la decisione  è sostanzialmente predeterminata nelle istrizioni date dalla PA alle software house, sulle quali non c’è contraddittorio nè possibilità di intervento dei cives, la partecipazione procedimentale ex legge 241/1990 risulta radicalmente inapplicabile (così G. Avanzini, Decisioni amministrative e algoritmi informatici. Predeterminazione, analisi predittiva e nuove forme di intellegibilità, Editoriale Scientifca, 2019,  134-5 e 138

V. anche l’intervista al giudice Pajno, già presidente del Consiglio di Stato, sulla prima sentenza effettuata da C. Morelli 20.01.2020 su Altalex.

Per un breve saggio introduttivo all’uso degli algoritmi da parte della P.A. in Parona L., Government by algorithm: un contributo allo studio del ricorso allintelligenza artificiale nellesercizio di funzioni amministrative, Giorn. di dir. amm., 2021/1, 10 ss (con indicazioni statunitensi)

Responsabilità del socio per sottocapitalizzazione della società?

Una recente sentenza del tribunale di Milano affronta la questione della responsabilità dei soci per sottocapitalizzazione della società stessa ovverosia per inadeguatezza delle risorse patrimoniali destinate all’attività da essa condotta. Naturalmente si tratta di responsabilità nei confronti dei creditori.

La sentenza è Trib. Milano  3 dicembre 2019, n° 11105/2019, RG 57848/2015: si trattava di una srl semplificata con capitale sociale di euro 2000 interamente versati

Il giudice ha escluso la responsabilità  del socio, dicendo che dal 2012 è possibile srl anche con capitale inferiore € 10.000,00.

Qui però il ragionamento è fallace poiché il problema non è quello della capitalizzazione inferiore al minimo di legge, bensì inferiore a quanto necessario per un sostenibilità prospettica delle attività. Il che significa che si può porre anche quando il capitale è superiore al minimo esplicitato dalla legge.

Più centrata è semmai la considerazione per cio la tesi prospettata dall’attore porterebbe alla decadenza del beneficio della responsabilità limitata, <<almeno fino  al momento in cui la stessa non si sia dotata di “adeguate risorse patrimoniali”, cosicché i soci finirebbero per rispondere per le obbligazioni assunte dalla società fino al momento in cui non risultino accantonate risorse patrimoniali pari ad almeno 10.000 euro>> (p. 5). Solamente un po’ più centrata, però, dato che la tesi del giudice non viene correttamente recepita. Infatti l’insufficiente patrimonializzazione non opera solo al di sotto dei €10000, ma -come accennato- anche al di sopra: cioè opera sempre.

Secondo il giudice dunque la tesi della patrimonializzazione costituisce una <<conclusione evidentemente contraria all’attuale  assetto normativo ed ai principi generali che regolano tutti i tipi di società a responsabilità limitata ed in particolare  il principio cardine e imprescindibile in base al quale “per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società (a responsabilità  limitata) con il suo patrimonio”, anche nel caso in cui la partecipazione appartenga ad una sola persona, sempre che siano stati effettuati i conferimenti e sia stata attuata la dovuta pubblicità (art. 2462, secondo comma,c.c.)>>

La dottrina, prendendo soprattutto dall’ordinamento belga e tedesco, aveva già sollevato da tempo il problema: sono noti gli scritti di Portale ad es. ampiamente in Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, Tratt. delle s.p.a. a cura di Colombo Portale, 1**, Utet, 2004, spt. § 7, 112 segg. Questo a. ,  pur sostenendo questa teoria, non manca di ricordare l’obiezione secondo cui in tal modo si stravolge il principio della responsabilità limitata (p. 116). Egli si limita però a replicare che è poco giustificata sul piano effettuale, dal momento che nella prassi, se la società è sottocapitalizzata, i soci saranno costretti ad offrire garanzie personali ai finanziatori.

La replica dell’autore non raggiunge del tutto l’obiettivo, però, dal momento che un conto è l’estesa e generalizzata responsabilità da fatto illecito di tutti i soci (a meno di collegarla solo i soci in posizione dominante), mentre altro conto è limitarla solo a quelli che (pur se non sponteneamente!) offrono garanzia.

Il vero punctum dolens sta nel fatto che solo i creditori più forti riusciranno a farsi dare garanzie dai soci: ed è allora da chiedersi se questa discriminazione a danno dei creditori meno forti sia ragionevole oppure no : nel qual caso potrebbe riprendere vigore la tesi di Portale.

Il quale segnale che il fondamento a suo parere preferibile di tale responsabilità è la qualificazione come fatto illecito

 La sentenza Si segnala perché le decisioni sul punto sono pochissime.

La domanda decisa dal Tribunale era di responsabilità del socio unico. Ma può porsi pure quella degli amministratori, la quale allora è diversa dalla responsabilità ex articolo 2394 cc. Questo riguarda solamente la violazione dei doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio e cioè di conservazione di un patrimonio che già esiste: mentre la tesi del qua riguarda l’insufficienza del patrimonio esistente. Si tratterebbe cioè di responsabilità non da mancata conservazione bensì’ da mancato incremento.

Su originalità, libertà artistica e parodia nel diritto d’autore (un caso francese tra fotografia e scultura)

Il prezioso sito IPKat a firma Eleonora Rosati il 23.12.2019 dà notizia della sentenza francese Corte di appello di Parigi 17.12.2019, n° 152/201.

Il fotografo francese Jean Francois Bauret, morto nel 2014, realizzò nel 1970 una fotografia chiamata <<Enfants>>, mai venduta come stampa ma riprodotta in cartolina

Gli eredi si accorgono che l’artista statunitense Jeff Koons l’ha riprodotta con modeste varianti in una sua scultura, chiamata <<Naked>>.

Ecco le fotografie (presenti in  sentenza e in IPKat, prese da quest’ultimo).  A sinistra quella di Bauret e a destra quella riproducente la scultura di Koons:

La corte parigina respinge l’eccezione di Koons di mancanza di originalità e pure quella di eventuale riproduzione di elementi non originali. E’ del resto intuibile anche al profano che i bimbi nella fotografia non hanno una posizione spontanea,  come vorrebbe Koons, bensì guidata dal fotografo.

La Corte respinge l’eccezione di necessità per libertà artistica e di comunicazione (p. 19-21) : afferma che <<Il revient au juge de rechercher un juste équilibre entre les droits en présence, soit la liberté  d’expression artistique et le droit d’auteur, et d’expliquer, en cas de condamnation, en quoi la recherche de ce juste équilibre commandait cette condamnation.>>.

La Corte non si riferisce purtroppo -almeno in via esplicita (ma implicita si, probabilmente)- alle tre recenti sentenze della Corte di Giustizia 29 luglio 2019, A.G. Szpunar,  che l’hanno esaminata approfonditamente: i) Pelham-Hass c. Hutter-Schneider-Esleben, C-476/17, § 56-65 (§ 66 segg. sull’eccezione di citazione); ii) Funke Medien c. Repubblica Federale di Germania, C-469/17, terza e seconda questione (§§ 55 ss e, rispettivamene, 65 ss.); iii)  Spiegel Online c. Volker Beck, C-516/17, terza e seconda questione (§§ 40 ss e rispettivametne 50 ss., nonchè § 75 ss sull’eccezione di citazione). Le quali tutte -in breve- escludono l’invocabilità di un fair use o comunque di un diritto fondamentale non previsto nel catalogo dei rimedi propri del diritto armonizzato ad oggi vigente.

Respinge pure l’eccezione di parodia (p. 21-22) , secondo la quale <<l’oeuvre seconde, pour bénéficier de l’exception de parodie, doit présenter un caractère humoristique, éviter tout risque de confusion avec l’oeuvre première, et permettre l’identification de celle-ci. (…)  La parodie doit aussi présenter un caractère humoristique, faire oeuvre de raillerie ou provoquer le rire, condition que ne caractérise ni ne revendique Jeff KOONS et la société Jeff KOONS LLC, la différence entre les messages transmis par les deux oeuvres ne répondant pas à cette condition de l’exception de parodie.>>.

Insommma la parodia deve avere un carattere umoristico, prendere in giro o provocare risate, oltre che non creare confusione: requisiti ritenuti assenti nell’opera di Koons. Probabilmente il Collegio parigino aveva in mente la sentenza Deckmyn +1 c. Vandersteen ed altri, Corte di Giustizia, 03.09.2014, C‑201/13, secondo cui <<la parodia ha come caratteristiche essenziali, da un lato, quella di evocare un’opera esistente, pur presentando percettibili differenze rispetto a quest’ultima, e, dall’altro, quella di costituire un atto umoristico o canzonatorio>> (§ 33 ma anche § 20). Ma anche qui non ne ha fatto menzione espressa.

Responsabilità da attività pericolosa (art. 2050 cc) in caso di danno da merce pericolosa stoccata presso il compratore

La Corte di Cassazione (n. 28626 del 07.11.2019, sez. 3) chiarisce il punto del se operi la responsabilità da attività pericolosa ex art. 2050 cc quando la pericolosità sia insita nella merce prodotta e distribuita. Nel caso specifico il danno (incendio) era verosimilmente derivato da deflagrazione iniziata nei locali di un prodotture di vernici (MAB) dove era stata stoccata nitrocellulosa, prodotta da DOW WOLFF e distribuita da TILLMANNS.

La domanda risarcitoria di MAB e delle Assicurazioni (in riconvenzionale, essendo la lite stata promossa in accertamento negativo da DOW) era stata proposta contro il produttore e il distributore.

La particolarità del caso è consistita nel basare la domanda sulla  norma citata, quando però le merci pericolose erano nella proprietà e disponibilità del compratore (quindi all’interno del suo ciclo prodottivo) e non più del produttore o distributore.

La S.C. precisa che -ratione temporis- non si applica il d. lgs. 19.05.2016 n. 81 Attuazione della direttiva 2014/28/UE concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alla messa a disposizione sul mercato e al controllo degli esplosivi per uso civile.

I giudici di merito respinsero le domande del danneggiato e delle Assicuirazioni.  Anche il giudice di legittimità esclude la responsabilità ex art. 2050 cc di produttore e distributore della merce pericolosa, asseritamente fonte dell’incendio, ma stoccata presso il compratore.

Ecco i passaggi rilevanti :

<<20…deve qualificarsi come intrinsecamente pericoloso sì ogni momento o fase del suo processo di produzione e di lavorazione fino al prodotto finito …. ma non può farsi a meno di rilevare come un tale processo si scinda naturalmente in più momenti o fasi, aventi ognuna una sua intrinseca autonomia gestionale ed implicanti un diverso grado di disponibilità del prodotto pericoloso da parte dei differenti soggetti che lo manipolano. 21. A tale diversificazione di fasi e di disponibilità del prodotto pericoloso, almeno finchè il ciclo della sua trasformazione non è esaurito, non può che corrispondere una conseguente diversificazione della responsabilitàdei diversi soggetti che quelle fasi gestiscono in autonomia gli uni dagli altri, ciascuno assumendo una quota ben determinata e ben prevedibile del relativo rischio di impresa connesso alla produzione di beni mediante impiego di materiali pericolosi. 22. In particolare, tali diverse fasi debbono essere considerate, di norma (e con l’eccezione che subito si vedrà) ed ai fini della responsabilità da attività pericolosa tra i diversi soggetti coinvolti professionalmente nel medesimo processo produttivo, l’una indipendente dall’altra ed ognuna caratterizzata da oneri di precauzione incombenti a ciascun soggetto titolare del potere di impresa di volta in volta esercitato, parametrati allo stato di avanzamento della lavorazione ed almeno tendenzialmente idonei a scongiurare i rischi propri di quella fase: diversamente, si tratterebbe di estendere incongruamente la nozione di attività pericolosa e la relativa severa responsabilità sostanzialmente oggettiva anche alla circolazione del bene pericoloso e senza alcuna limitazione, con insostenibile equiparazione alla responsabilità da prodotto difettoso o da vizi della cosa venduta, che hanno però presupposti molto meno gravosi per il produttore e per il distributore rispetto alla presunzione di cui all’art. 2050 c.c.. … 24. Ora, il rischio di impresa di chi produce e distribuisce nitrocellulosa destinata ad ulteriore lavorazione non può comprendere … le fasi di ulteriore lavorazione: le quali non sono di per sè esercizio dell’attività pericolosa originaria e di queste successive avendo la responsabilità – ove non si configurino o non si provino diversi titoli, come già detto e come escluso nella specie – invece l’imprenditore od altro soggetto professionale che le gestisca in autonomia e con correlativi oneri di adozione di misure di precauzione adeguate al ciclo di lavorazione che impieghi il prodotto intrinsecamente pericoloso, come è indubbio in punto di fatto che sia accaduto nella fattispecie. 25. Pertanto, in difetto di ulteriori titoli di responsabilità e della prova sul difetto intrinseco o sul vizio del prodotto [NB : in causa era stata esclusa la responsabilità del produttore ex art. 114-120 cod. cons.], l’esclusione della responsabilità da attività pericolosa impedisce al danneggiato di giovarsi del relativo particolare regime anche in tema di prova dei presupposti e quindi del carattere indubbio del coinvolgimento della nitrocellulosa nell’incendio: se è vero che, in virtù dei principi in tema di responsabilità oggettiva, non avrebbe dovuto rilevare che il prodotto pericoloso fosse stato la causa mediata o immediata dell’incendio e che l’incertezza della causa ultima di questo difficilmente avrebbe potuto esimere l’esercente dell’attività pericolosa dalla sua peculiare responsabilità in difetto della prova, su di lui incombente, di avere adottato ogni misura idonea ad evitare il danno, è pur vero che, ricostruita adeguatamente la fattispecie per cui è causa, non trova appunto applicazione l’intero sistema della responsabilità da attività pericolosa>>.

Libro di memorie pubblicato in violazione di accordo di non-disclosure: i relativi profitti editoriali sono illeciti?

Risponde positivamente un giudice di Alexandria, Virginia (USA), in quanto ottenuti in violazione dell’accordo di non-disclosure stipulato con la C.I.A. e con la National Security Agency (NSA). Il caso è quello del libro autobiografico di Eric Snowden <<Permanent Record>> (da noi: <<Errore di sistema>>).

La conseguenza sarebbe che spettano nè all’autore nè all’editore, bensì allo Stato Federale.

La notizia viene data oggi da A. Flood del Guardian.

La questione è assai interessante e complessa sotto il profilo teorico.

Da noi possono vedersi i numerosi scritti recenti  riguardanti la violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Si dovrebbe però vedere soprattutto la pioneristica monografia di Rodolfo Sacco Arrichimento ottenuto mediante fatto ingiusto, UTET, 1959, che acutamente estende l’esame alla violazione di qualsiasi diritto altrui (v. parte terza sez. I Violazione del diritto, p. 139 segg. e soprattutto p. 152 ss per la violazione di un diritto di credito, come nel caso Snowden).

Il problema è duplice: – la retroversine dei profitti è prevista solo nel cod. propr. ind., art. 125 c.3 (di sfuggita pure nell’art. 158 c. 2  legge d’autore); – non è chiaro se tale misura sia costruita come  misura restitutoria oppure sanzionatorio-punitiva (ecluderei la natura risarcitoria).

Resta quindi del tutto incerta da noi la possibilità di generalizzarla.

Secondo Sacco (p. 153-154) ci son almeno  cinque disposizioni nel cod. civ. che dimostrano che il soggetto inadempiente non può arricchirsi per effetto del proprio comportamento antigiuridico: art. 2038, art. 1776, art. 1259, art. 1591 e art .1282.