Impugnazione della delibera di SRL di ricostituzione del capitale e di promozione della azione sociale di responsabilità: ne ha legittimazione l’ex socio non più tale per non aver sottoscritto l’aumento di capitale (impugnato perchè abusivo)?

Interessante fattispecie decisa dalla sentenza veneziana Trib. Venezia 23.06.2023 , RG 8116/2020, rel. Boccuni, letta in giurisprudenzadelleimprese.it).

Ecco le massime tratte dalla cit. rivista a firma di Luigi Tambè (numerazione aggiunta da me):

<<1) Se di regola il difetto della qualità di socio in capo all’attore al momento della proposizione di una domanda di accertamento della nullità di una delibera assembleare, o a quello della decisione della controversia, esclude la sussistenza in lui dell’interesse ad agire per evitare la lesione attuale di un proprio diritto e per conseguire con il giudizio un risultato pratico giuridicamente apprezzabile, ciò tuttavia non può dirsi nel caso in cui il venir meno della qualità di socio sia diretta conseguenza della deliberazione la cui legittimità egli contesta. In tal caso, anche la stessa legittimazione dell’attore ad ulteriormente interferire con l’attività sociale sta o cade a seconda che la deliberazione impugnata risulti o meno legittima: la declaratoria della nullità della deliberazione può dunque condurre al ripristino della qualità di socio dell’attore, e tale risultato costituisce una delle ragioni per le quali la deliberazione viene impugnata. Sarebbe allora logicamente incongruo, e si porrebbe insanabilmente in contrasto con i principi enunciati dall’art. 24 Cost., co. 1, l’addurre come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti. Analoghe considerazioni possono svolgersi quanto all’azione di annullamento.

2) Diversamente deve opinarsi in riferimento alla legittimazione dell’attore ad esercitare l’azione sociale di responsabilità a norma dell’art. 2476, co. 3, c.c. A differenza dell’azione di impugnazione delle delibere assembleari o delle decisioni dei soci, con l’azione di responsabilità sociale, il socio non esercitata diritti propri nel proprio interesse, ma diritti risarcitori che competono all’ente collettivo in ragione della violazione imputata all’organo gestorio degli obblighi di corretta amministrazione che detto organo ha, non direttamente nei confronti del socio, ma nei confronti della società. In effetti, la stessa disciplina dell’art. 2476 c.c., in tema di azione sociale di responsabilità esercitata dal socio, esplicita che il diritto fatto valere è appartenente alla società che, infatti, può transigere o rinunciare all’azione, competendo l’eventuale risarcimento unicamente alla stessa che è parte necessaria del giudizio in quanto beneficiaria del credito risarcitorio e titolare della relativa posizione giuridica pretensiva rispetto all’inadempimento degli obblighi amministrativi. Dal punto di vista processuale, se con l’azione di impugnazione il socio fa valere diritti ed interessi propri asseritamente lesi dalla delibera o decisione dei soci, con l’azione sociale di responsabilità si verifica una deroga al divieto di far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui, fuori dai casi espressamente previsti dalla legge come è quello che occupa, parlandosi così di legittimazione straordinaria del socio in termini di sostituzione, a norma dell’art. 81 c.p.c. che, essendo norma processuale, è di stretta applicazione.

3) Nel caso dell’impugnazione delle delibere dei soci che comportino come loro conseguenza la perdita dello status di socio, con conseguente perdita dei diritti partecipativi che allo stesso sono attribuiti, l’impugnante, pur non ricoprendo più al momento dell’impugnazione la qualità che lo legittimerebbe al rimedio, mantiene la legittimazione e l’interesse ad agire proprio perché, in forza dell’invalidazione della delibera egli tende a riacquisire i diritti partecipativi perduti in modo illegittimo, in altre parole permanendo al momento dell’impugnazione legittimazione ed interesse ad agire dell’impugnante quale socio. Diversa è la questione della legittimazione ad agire del socio in riferimento all’azione sociale di responsabilità. In effetti, è improcedibile l’azione di responsabilità promossa dal socio che non abbia sottoscritto l’aumento di capitale deliberato dall’assemblea dei soci ai sensi dell’art. 2482 ter, co. 1, c.c., in quanto tale evento determina la perdita della qualità di socio e, quindi, la perdita della legittimazione ad agire in giudizio contro gli amministratori in qualità di sostituto processuale della società onde esercitare diritti della società medesima e non propri.

4) Proprio per la natura derivata e straordinaria della legittimazione del socio, a nulla rileva il fatto che il medesimo abbia perduto la qualità in virtù della delibera che ha accertato la perdita del capitale e disposto la sua ricostituzione, anche là dove si obiettasse che la perdita sia stata illegittimamente determinata dagli amministratori con conseguente loro responsabilità risarcitoria, posto che il diritto che il socio fa valere riguarda il risarcimento alla lesione del patrimonio sociale di cui è titolare la società, e non un diritto proprio, essendo l’eventuale lesione del socio semplicemente indiretta e derivata dalla lesione sopportata dalla società>>.

Le massime 1 e 3 sono esatte ma anche tutto sommate ovvie. L’interesse è per quelle sub 2 e 4 e in particolare per la parte in rosso della 4, che destano perplessità.

La mass. 2 e (in parte qua) 4 non sembrano rilevanti sul tema , contrariamente a quanto opina il Trib.: la derivatività dell’azione nulla c’entra con la legittimazione straordinaria alla azione sociale di responsabuilità sub iudice-

La mass. 4 nellla parte rossa è rilevante ma errata. Se la delibera che fa perdere la qualità di socio è illegittima, allora anche la legittimazione assente all’azine ex 2476 cc  può tornare in gioco.  Semmai potrà parlarsi di un rapporto di subordinazione condizionale tra le due domande, nel senso che solo se la prima è accolta, la seconda potrà essere esaminata.

Versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capjtale

Cass. sez. I dell’ 8 agosto 2023 n. 24.093, rel. Fidanzia:

la censura:

<<Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente condiviso l’impostazione del CTU nel ritenere che la somma di Euro 1.156.724,20 costituisse un debito, o comunque un’acquisizione patrimoniale condizionata ad una futura delibera di aumento del capitale, come tale non diversamente disponibile.

In particolare, la Corte d’Appello ha violato l’art. 2424 c.c., nell’affermare che la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” dimostrasse che si trattasse di versamenti finalizzati all’eventuale futuro aumento di capitale considerando. In proposito, evidenzia il ricorrente che nei bilanci precedenti al 2007 quella posta era stata indicata come semplice “riserva”, che sarebbe divenuta successivamente “riserva da versamenti in conto capitale”, e, nel bilancio 2007, “riserva da versamento in conto futuro aumento di capitale”. Gli stessi bilanci non facevano riferimento né a pretese restitutorie dei soci eroganti, né ad un vincolo di destinazione della riserva in oggetto, né a un qualsivoglia futuro, programmato e ben determinato aumento di capitale.

Ad avviso del ricorrente, la Corte d’Appello ha erroneamente indicato il collegamento della riserva al socio erogante nella semplice dicitura utilizzata in bilancio “versamenti in conto capitale” ed ha, nel contempo, violato l’art. 1362 c.c. laddove ha dato rilievo non già alla comune volontà delle parti (da valutare sulla base delle modalità con cui si era svolto il rapporto, delle finalità perseguite dalle parti e degli interessi sottesi) bensì alla mera denominazione contabile della posta>>.

La risposta della SC:

<<7. Il motivo è fondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha in modo dettagliato ed esaustivo illustrato la distinzione tra “versamenti in conto capitale” e “versamenti in conto futuro aumento di capitale” nell’ordinanza n. 29325/2020, nella quale, inquadrando, più in generale, le diverse figure delle dazioni del socio tra: a) i conferimenti; b) i finanziamenti dei soci; c) i versamenti a fondo perduto o in conto capitale; d) i versamenti finalizzati ad un futuro aumento di capitale, si è espressa nei seguenti termini:

“…..I versamenti del terzo tipo sono privi della natura del mutuo, in quanto non ne è pattuito il diritto al rimborso; vanno, quindi, iscritti nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare, con le ordinarie modalità, per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale (senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento).

L’apporto del socio produce l’acquisizione definitiva al patrimonio della società delle somme versate, da assimilare al capitale di rischio, cui vanno equiparate agli effetti sostanziali; la riserva così formata, al pari delle riserve ordinarie o facoltative per la quota eccedente la riserva legale, ha dunque di regola carattere disponibile, ma una eventuale distribuzione non costituisce un diritto soggettivo del socio.

d) Nell’ultima categoria, la dazione del denaro è finalizzata a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale mediante successiva rinuncia, che il socio porrà in essere dopo la deliberazione assembleare di aumento e la sua sottoscrizione.

Si è parlato di una riserva “personalizzata” o “targata”, in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che abbiano effettuato il versamento in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314). Ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato: non a titolo di rimborso di somma data a mutuo, ma per essere venuta successivamente meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

Dunque, va precisato che, perché la “dazione” del socio sia ricondotta a tale categoria, è necessario che la subordinazione ad un aumento di capitale sia chiara ed inequivoca, mediante l’indicazione ex ante di elementi sufficientemente specifici e dettagliati, i quali inducano a ritenere effettivamente convenuta tra i soci l’effettuazione non di un versamento tout court a favore delle casse sociali, ma di un versamento avente titolo e causa concreta proprio nella partecipazione al capitale sociale mediante un futuro conferimento, che, sebbene meramente rinviato rispetto al momento della dazione materiale della somma, sia nondimeno sin dall’inizio volto, secondo la complessiva operazione programmata dai soci, ad aumentare la rispettiva quota di partecipazione sociale, in termini assoluti.

Ciò, per il principio generale di determinatezza o determinabilità ex art. 1346 c.c., secondo cui deve essere sempre individuabile con sufficiente certezza l’oggetto del contenuto precettivo di un accordo negoziale.

Le sole parole usate non sono, dunque, di per sé esaustive, ben potendo un versamento essere denominato, nei documenti societari e contabili, come eseguito “in conto futuro aumento del capitale sociale”, ma non essere affatto, nel contempo, accompagnato da quegli indici di dettaglio (ad es., il termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, ma anche altre caratteristiche dello stesso), che soli qualificano la dazione come da ricondurre alla categoria in esame.[precisazione importante: il termine è essenziale]

In tal caso, pertanto, l’iscrizione in bilancio avviene sempre come riserva, e non come finanziamento soci; ma, perché sorga pure l’obbligo restitutorio condizionato, dovrà, altresì, essere evidenziato che l’apporto è suscettibile di restituzione ai soci in virtù dell’effetto risolutorio riconnesso a tale tipo di apporto, per tale profilo dunque avvenuto in modo non definitivo (a differenza degli altri versamenti).

6.3. – Decisiva nella qualificazione della dazione è l’interpretazione della volontà delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.

Occorre, in particolare, da parte di questi accertare se si sia trattato di un rapporto di finanziamento riconducibile allo schema del mutuo o di un contratto atipico di conferimento, ed, in quest’ultimo caso, se esso sia stato – in modo inequivoco condizionato o no, nella restituzione, ad un futuro aumento del capitale nominale della società.

L’indagine sul punto può tener conto di ogni elemento, quali le clausole statutarie che tali versamenti prevedano, il comportamento delle parti, i fini perseguiti, le scritture contabili, i bilanci e qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti “.

Deve quindi enunciarsi o meglio ribadirsi, il seguente principio di diritto:

“1. Per versamenti in conto futuro aumento di capitale devono intendersi quelle dazioni di danaro dei soci a favore della società che non siano, tuttavia, definitivamente acquisite al patrimonio sociale, avendo uno specifico vincolo di destinazione, con la conseguenza che, ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato, per essere venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da lui eseguita in favore della società, quale ripetizione dell’indebito.

2. Per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro ed inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie), e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo, all’uopo, sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili”.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, la Corte d’Appello, nell’interpretare la volontà delle parti in ordine alla natura delle dazioni di cui è causa, non abbia fatto buon governo dei sopra enunciati principi di diritto.

In primo luogo, dalla lettura della sentenza impugnata appare che il giudice d’appello abbia confuso la categoria dei “versamenti in conto di capitale ” con i “versamenti in conto futuro aumento di capitale”, atteso che, nell’evidenziare che l’unico elemento per interpretare la volontà delle parti era dato dalle risultanze di bilancio, in questi termini si esprime:”…Nel caso di specie, l’unico elemento ravvisabile è l’indicazione in bilancio, sotto la categoria “riserve”, ma con la chiara indicazione di “versamenti in conto di capitale” e dunque finalizzati all’eventuale futuro aumento dello stesso, posto che non era stato deliberato un coevo aumento del capitale”.

D’altra parte, a differenza di quanto adombrato dall’appellante, la medesima qualificazione si rinviene nel bilancio chiuso al 31.12.2005 dimostrando anche la persistenza di tale indicazione anche nel periodo antecedente alla fuoriuscita del C. (escludendo, quindi, definizioni di “comodo”) ed evidenziando, altresì, come tali versamenti siano rimasti inutilizzati proprio perché vincolati al futuro aumento di capitale.

In ogni caso, anche ove si volesse ritenere che la Corte d’Appello, nell’indicare i versamenti in questione, fosse incorsa in un mero errore materiale, per essersi dimenticata l’espressione “futuro aumento”, comunque la Corte sarebbe incorsa nei vizi denunciati dal ricorrente, avendo valorizzato, per sua espressa ammissione, come unico indice interpretativo, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, con ciò contraddicendosi, peraltro, con quanto affermato qualche riga sopra nella quale aveva osservato (vedi pag. 13 secondo capoverso della sentenza impugnata) che, per accertare la natura del versamento dei soci, l’utilizzo di formule non codificate impone di verificare con la massima cautela quale sia stata la reale intenzione dei soci e della società “….. non essendo sufficiente, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, ma dovendosi dare conto anche delle finalità pratiche e degli interessi sottesi, e quindi si deve tenere conto delle clausole statutarie, delle scritture contabili e dei bilanci, del comportamento delle parti e di ogni altro elemento concreto possa avere rilievo (Cass. 16049/2015 cit. e Cass. 21563/2018 cit)”.

La Corte d’Appello non ha indicato elementi specifici e dettagliati, forniti ex ante, denotanti la chiara ed inequivoca volontà dei soci di destinare i versamenti di cui è causa ad un futuro aumento di capitale, costituente unico titolo e causa concreta dell’eventuale operazione programmata dai soci. La Corte d’Appello non ha valorizzato quegli indici di dettaglio che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi (indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o, a titolo di ulteriore esempio, anche nella nota integrativa al bilancio, etc.).

D’altra parte, non rientra tra gli indici interpretativi individuati da questa Corte la circostanza fattuale della materiale provenienza dei versamenti (nel caso di specie, dalla documentazione agli atti era emerso che i versamenti di cui è causa non erano riconducibili al C.), avendo già questa Corte evidenziato, nel citare sopra l’ordinanza n. 29325/2020, che l’assemblea può discrezionalmente decidere di utilizzare i “versamenti in conto capitale” (da iscriversi nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve) per ripianare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale, imputandole a ciascun socio proporzionalmente alla partecipazione al capitale sociale, senza che occorra obbligatoriamente tener conto del soggetto che abbia operato il versamento, proprio in ragione dell’inesistenza vuoi di un credito alla restituzione delle somme, vuoi di una anticipata dazione a titolo di conferimento. Dunque, rientra nella fisiologia che “i versamenti in conto capitale” possano provenire solo da alcuni soci e non da tutti.

Alla luce delle sopra illustrate osservazioni, deve ritenersi che il giudice d’appello sia incorso nella denunciata violazione dell’art. 1362 c.c..>>

Consensualità del contratto di sottoscrizione in sede di aumento di capitale: precisazioni partenopee e romane

Condivisibili affermazioni in Trib. Napoli del 10 marzo 2023 sez. spec. impr., sent.  2609/2023 , RG 17987/2018, rel. Graziano:

1) ai libri sociali non è applicabile la disciplina della data certa ex art. 2704 cc;

2) <<In materia di società di capitali, quindi, la vicenda modificativa dell’atto
costitutivo derivante dall’aumento del capitale sociale a pagamento, si struttura in
tre momenti: la deliberazione; la sottoscrizione e il conferimento.
La deliberazione di aumento di capitale non è self executing, non essendo
idonea, di per sé, a produrre automaticamente l’effetto modificativo del contratto
sociale, ma necessita, ai fini della sua attuazione, del compimento di ulteriori atti
anche unilaterali o atipici e, segnatamente, dei negozi di sottoscrizione, quale
forma di dichiarazione della volontà di adesione dei soci o, eventualmente, di terzi
all’incremento quantitativo del capitale approvato che non coincide ed è diversa
dalla manifestazione di voto espressa dal socio durante l’assemblea.
In particolare, con la sottoscrizione, il sottoscrittore si obbliga ad eseguire un
determinato conferimento, il quale costituisce l’atto di esecuzione dell’obbligo
assunto a partire dalla sottoscrizione e può avvenire in denaro o in natura. (…). Orbene, il Collegio non aderisce alla tesi della realità del contratto di
sottoscrizione, sostenuta da parte attrice, secondo cui il momento di
perfezionamento della sottoscrizione coincide con il contestuale versamento del
venticinque per cento in denaro, pena l’invalidità di quest’ultima, in quanto non
condivide la natura di contratto reale sui generis, trovando insuperabile
l’obiezione secondo cui la consegna del bene oggetto del negozio, ovvero il
denaro quale bene fungibile, avvenga in modo soltanto parziale. Sul punto, si
evidenzia secondo un’interpretazione teleologica del nuovo ordinamento
delineato, post riforma del diritto societario, dagli artt. 2464, comma IV c.c. e art.
2481 bis, comma IV c.c. che mentre in sede di costituzione della società a responsabilità limitata il versamento del venticinque per cento del capitale
all’organo amministrativo assurge ad un requisito di perfezionamento del
contratto di sottoscrizione delle quote di partecipazione; esso, invece, in sede di
aumento di capitale, costituisce una mera esecuzione di tale contratto
perfezionatosi solo con il semplice consenso.
Il Collegio, per le argomentazioni su esposte, aderisce alla teoria prevalente
della consensualità del negozio di sottoscrizione, il quale si perfeziona nel
momento in cui alla società perviene la dichiarazione di sottoscrizione e il
versamento del venticinque per cento costituisce solo l’atto di esecuzione
dell’obbligo assunto dal sottoscrittore.
Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che “In materia di aumento del
capitale di una società a responsabilità limitata, l’obbligo di versamento per il
socio deriva non dalla deliberazione, ma dalla distinta manifestazione di volontà
negoziale, consistente nella sottoscrizione della quota del nuovo capitale offertole
in opzione, ciò indipendentemente dall’avere egli concorso o meno con il proprio
voto alla deliberazione di aumento; tale sottoscrizione è riconducibile ad un atto
di natura negoziale, e precisamente ad un contratto consensuale, in relazione al
quale la legge non prevede l’adozione di una forma particolare”. – In
applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva ritenuto provata per fatti concludenti la sottoscrizione
dell’aumento di capitale di una società, essendo stato dimostrato l’avvenuto
versamento di tre assegni, in adempimento della presunta sottoscrizione – (Cfr.
Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19813 del 15/09/2009).
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si perfeziona con lo
scambio del consenso fra il socio sottoscrittore o il terzo e la società, per il tramite dell’organo amministrativo; quindi, la deliberazione di aumento di capitale ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico schema del contratto di natura consensuale ai sensi dell’art. 1326 c.c.

Del resto, la necessaria contestualità del versamento, prevista dall’art. 2481 bis, comma IV c.c., non inficia le su esposte considerazioni, dovendosi ritenere che tale contestualità sia stata dettata proprio al fine di assicurare la serietà della manifestazione di volontà del socio o del terzo (se consentito) e che, comunque, si riferisca alla fase esecutiva del contratto.
La natura consensuale del contratto di sottoscrizione si ricava, altresì,
dall’art. 2444 c.c., in base al quale gli amministratori devono depositare per
l’iscrizione nel Registro delle imprese, entro trenta giorni dall’avvenuta
sottoscrizione, l’attestazione che l’aumento di capitale è stato eseguito, ciò
confermando che il contratto si perfeziona al momento della sottoscrizione (e
quindi al momento della manifestazione del consenso e non al momento del
versamento del venticinque per cento della quota sottoscritta). (…) Dunque, è già per effetto di detta manifestazione di volontà – successiva alla deliberazione assembleare e consistente nella sottoscrizione della quota parte del
nuovo capitale offerto – che il socio sottoscrittore aumenta la propria
partecipazione sociale ovvero conserva la qualifica di socio, partecipando alla
ricostituzione del capitale sociale, eventualmente annullato per effetto
dell’abbattimento per perdite, ovvero ancora che il terzo assume la qualità di socio della società.
In tutti i casi sopra descritti i sottoscrittori assumono, poi, verso la società il
consequenziale obbligo di conferimento. >>.

3) <Sul punto, giova altresì precisare che, in adesione alla teoria della
consensualità del contratto di sottoscrizione, il conferimento della quota di
aumento del capitale sottoscritta rileva quale momento esecutivo del contratto, il
cui inadempimento può essere eccepito, al fine di un eventuale giudizio di
responsabilità scaturente dalla violazione della regola di comportamento, in
ossequio al principio di relatività degli effetti del contratto statuito dall’art. 1372
c.c. soltanto dalle parti contrattuali, che nel caso di specie sono rappresentate dalla società convenuta e gli altri due soci sottoscrittori, odierni convenuti, e non, di certo, dalla parte attrice terza alle vicende negoziali in esame>>

4) il ritardo di ue giorninell’esecuzione non è inadmepimento rilevante: <<Ciò posto, con riguardo al profilo dell’accertamento del ritardo
nell’adempimento dell’obbligo di conferimento in denaro della quota di aumento
sottoscritta da parte dell’odierno attore, con conseguente declaratoria di aumento
del capitale pari alla somma di euro 1.300.000,00 come così come versata dai soci
convenuti, la domanda riconvenzionale esperita dalla società convenuta non
merita accoglimento in ossequio al principio generale di buona fede, non solo
quale regola ermeneutica di congiunzione tra i criteri legali oggettivi e soggettivi
di interpretazione del contratto imposta all’organo giudicante ex art. 1366 c.c., ma
anche quale regola integrativa dello stesso in base al combinato disposto degli
artt. 1374 e 1375 c.c., nonché quale criterio ordinatore di tutte le fasi del rapporto
contrattuale, da quella precontrattuale a quella esecutiva e finanche giudiziale, ex artt. 1175, 1337, 1375 c.c. (….)
Ciò posto, in ossequio al principio di buona fede esecutiva improntato alla
clausola di reciprocità tra l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore e il soddisfacimento dell’interesse del creditore alla prestazione non risulta, senza dubbio, apprezzabile il lasso di tempo del ritardo intercorso nell’adempimento dell’obbligazione di conferimento in danaro da parte del socio sottoscrittore debitore, odierno attore, avendo riguardo, nel bilanciamento degli opposti interessi, alla sfera giuridica della società creditrice e a quella del socio debitore e segnatamente, da un lato, al vantaggio occorso alla società dal modo satisfattorio di estinzione dell’obbligazione mediante l’adempimento del versamento integrale in denaro e, dall’altro lato, al notevole sforzo esigibile assunto e validamente ottemperato dall’odierno attore>> .

Avrebbe potuto meglio dire che è inadempimento si, ma di scarsa importanza ex art. 1455 cc, applicabile stante la natura contrattuale dei rapporti societari.

Sulla stessa linea Trib. Roma n. 150/2023 del 3 gennaio 2023, sez. spec. impr., RG 21390/2020, pres. ed est. Di Salvo:

<<Quanto alla natura giuridica della sottoscrizione, va
ricordato che l’aumento di capitale a pagamento comporta un
aumento sia del capitale nominale, sia del patrimonio sociale,
mediante conferimento alla società di nuove risorse.
L’effetto modificativo del contratto sociale non si produce
automaticamente con la deliberazione di aumento di capitale, ma
con il concorso delle volontà dell’ente e dei sottoscrittori del
nuovo capitale deliberato e quindi in una fase successiva e
diversa da quella meramente deliberativa. Pertanto, ai fini del
perfezionamento dell’operazione di aumento di capitale, la
deliberazione assembleare, con la quale è stato approvato
l’incremento quantitativo del capitale, è sicuramente necessaria
ma non sufficiente, in quanto è pur sempre necessaria la
dichiarazione di adesione dei soci, ovvero, se prevista, anche dei
terzi. Tale dichiarazione si manifesta, appunto, con la
sottoscrizione di una quota dell’aumento deliberato.
Il negozio di sottoscrizione ha natura consensuale e si
perfeziona con lo scambio del consenso tra il socio sottoscrittore
o il terzo e la società, per il tramite dell’organo
amministrativo. Quindi, la deliberazione di aumento di capitale
ben può configurarsi come una proposta e la sottoscrizione del
socio o del terzo come una accettazione, secondo il classico
schema del contratto di natura consensuale. Ciò risulta confermato
anche dalla Suprema Corte, la quale ha affermato che il contratto
di sottoscrizione di nuove azioni emesse in sede di aumento di
capitale ha natura consensuale e non reale e le parti non possono
derogare alla consensualità come meccanismo regolatore creando un
corrispondente modello reale atipico, (cfr. Cass. n. 611/1996).
Alla natura consensuale del negozio di sottoscrizione consegue
che il mancato adempimento delle obbligazioni di versamento in
proporzione alla quota di partecipazione sottoscritta non incide
sull’avvenuto perfezionamento del contratto, attendendo invece
alla fase esecutiva dell’accordo già concluso>>.

Responsabilità del socio per sottocapitalizzazione della società?

Una recente sentenza del tribunale di Milano affronta la questione della responsabilità dei soci per sottocapitalizzazione della società stessa ovverosia per inadeguatezza delle risorse patrimoniali destinate all’attività da essa condotta. Naturalmente si tratta di responsabilità nei confronti dei creditori.

La sentenza è Trib. Milano  3 dicembre 2019, n° 11105/2019, RG 57848/2015: si trattava di una srl semplificata con capitale sociale di euro 2000 interamente versati

Il giudice ha escluso la responsabilità  del socio, dicendo che dal 2012 è possibile srl anche con capitale inferiore € 10.000,00.

Qui però il ragionamento è fallace poiché il problema non è quello della capitalizzazione inferiore al minimo di legge, bensì inferiore a quanto necessario per un sostenibilità prospettica delle attività. Il che significa che si può porre anche quando il capitale è superiore al minimo esplicitato dalla legge.

Più centrata è semmai la considerazione per cio la tesi prospettata dall’attore porterebbe alla decadenza del beneficio della responsabilità limitata, <<almeno fino  al momento in cui la stessa non si sia dotata di “adeguate risorse patrimoniali”, cosicché i soci finirebbero per rispondere per le obbligazioni assunte dalla società fino al momento in cui non risultino accantonate risorse patrimoniali pari ad almeno 10.000 euro>> (p. 5). Solamente un po’ più centrata, però, dato che la tesi del giudice non viene correttamente recepita. Infatti l’insufficiente patrimonializzazione non opera solo al di sotto dei €10000, ma -come accennato- anche al di sopra: cioè opera sempre.

Secondo il giudice dunque la tesi della patrimonializzazione costituisce una <<conclusione evidentemente contraria all’attuale  assetto normativo ed ai principi generali che regolano tutti i tipi di società a responsabilità limitata ed in particolare  il principio cardine e imprescindibile in base al quale “per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società (a responsabilità  limitata) con il suo patrimonio”, anche nel caso in cui la partecipazione appartenga ad una sola persona, sempre che siano stati effettuati i conferimenti e sia stata attuata la dovuta pubblicità (art. 2462, secondo comma,c.c.)>>

La dottrina, prendendo soprattutto dall’ordinamento belga e tedesco, aveva già sollevato da tempo il problema: sono noti gli scritti di Portale ad es. ampiamente in Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, Tratt. delle s.p.a. a cura di Colombo Portale, 1**, Utet, 2004, spt. § 7, 112 segg. Questo a. ,  pur sostenendo questa teoria, non manca di ricordare l’obiezione secondo cui in tal modo si stravolge il principio della responsabilità limitata (p. 116). Egli si limita però a replicare che è poco giustificata sul piano effettuale, dal momento che nella prassi, se la società è sottocapitalizzata, i soci saranno costretti ad offrire garanzie personali ai finanziatori.

La replica dell’autore non raggiunge del tutto l’obiettivo, però, dal momento che un conto è l’estesa e generalizzata responsabilità da fatto illecito di tutti i soci (a meno di collegarla solo i soci in posizione dominante), mentre altro conto è limitarla solo a quelli che (pur se non sponteneamente!) offrono garanzia.

Il vero punctum dolens sta nel fatto che solo i creditori più forti riusciranno a farsi dare garanzie dai soci: ed è allora da chiedersi se questa discriminazione a danno dei creditori meno forti sia ragionevole oppure no : nel qual caso potrebbe riprendere vigore la tesi di Portale.

Il quale segnale che il fondamento a suo parere preferibile di tale responsabilità è la qualificazione come fatto illecito

 La sentenza Si segnala perché le decisioni sul punto sono pochissime.

La domanda decisa dal Tribunale era di responsabilità del socio unico. Ma può porsi pure quella degli amministratori, la quale allora è diversa dalla responsabilità ex articolo 2394 cc. Questo riguarda solamente la violazione dei doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio e cioè di conservazione di un patrimonio che già esiste: mentre la tesi del qua riguarda l’insufficienza del patrimonio esistente. Si tratterebbe cioè di responsabilità non da mancata conservazione bensì’ da mancato incremento.