Responsabilità dell’albergatore per furto di pelliccia appesa all’attaccapanni della hall dell’albergo

Cass. sez. III, ord. 14/02/2024 n. 4.132, rel. Gorgoni:

<<il Tribunale ha correttamente attribuito rilievo al fatto che l’albergatore risponde non solo delle cose che gli sono affidate per essere custodite (art. 1784 cod. civ.), ma anche del deterioramento, della distruzione o della sottrazione delle cose “portate in albergo” (art. 1783 cod. civ.);

per cose portate in albergo s’intendono le cose che rispondono all’uso normale e comune, immesse nei locali che l’albergatore lascia a disposizione dei clienti (la camera per l’uso esclusivo del cliente, i locali di uso comune, le pertinenze, come giardini, piscine, rimesse, tratti di spiaggia riservati ai clienti dell’albergo, ecc.), per il tempo nel quale il cliente usufruisce dell’alloggio, in forza del contratto (art. 1783, n. 1, cod. civ.); per le cose portate in albergo, e di cui il cliente mantiene il possesso, la responsabilità dell’albergatore è indipendente da qualsiasi consegna, essendo essa collegata al solo fatto dell’introduzione degli effetti personali del cliente nei locali dell’impresa, per il tempo in cui si dispone dell’alloggio;

proprio il rilievo che l’albergatore non può rifiutare di ricevere in custodia gli oggetti di valore (tranne i casi espressamente previsti dall’art. 1784 cod. civ.) dimostra che non vi è l’obbligo per il cliente di affidarli in custodia, mancando una specifica previsione normativa in tal senso; il cliente che non si avvale della possibilità di consegnare detti oggetti in custodia corre solo il rischio di non poter ottenere, in caso di sottrazione, l’integrale risarcimento del danno (art. 1783 cod. civ.), a meno che non provi la colpa dell’albergatore ai sensi dell’art. 1785-bis cod. civ. (Cass. 05/12/2008, n. 28812); la responsabilità limitata costituisce, dunque, il punto di equilibrio tra l’esigenza del cliente di non portare con sé le cose introdotte in albergo e l’esigenza di non gravare eccessivamente sull’albergatore con una responsabilità illimitata;

poiché nel caso in esame, con accertamento di fatto congruamente motivato e come tale non censurabile in sede di legittimità, i giudici del merito hanno riconosciuto la colpa dell’albergatore per il fatto di avere predisposto una rastrelliera in prossimità della sala da pranzo, collocata in una posizione che ne rendeva impossibile la sorveglianza al personale dell’albergo, non ricorre nella specie l’esonero di responsabilità dell’albergatore, previsto invece dall’art. 1785 cod. civ. nei casi in cui il deterioramento, la distruzione o la sottrazione siano dovuti al cliente, alle persone che l’accompagnano, che sono al suo servizio o che gli rendono visita, ovvero dipendano da forza maggiore o dalla natura della cosa (cfr. Cass. 22/02/1994, n. 1684);>>

Giusto ma anche di facile soluzione.

Il richiamo delle clausole vessatorie per la seconda firma ex art. 1341 cc

Cass. sez. III, ord. 15/02/2024 n. 4.126, rel. Condello:

<<La doglianza incentrata sulla pretesa inefficacia della doppia sottoscrizione della clausola di tacita rinnovazione del contratto è infondata, risultando, nella specie, la clausola correttamente richiamata, in conformità al principio affermato da Cass. n. 22984/2015, secondo cui, nel caso di condizioni generali di contratto, l’obbligo della specifica approvazione per iscritto a norma dell’art. 1341 cod. civ. della clausola vessatoria è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che quest’ultimo non sia accompagnato da un’indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto.

La Corte d’appello, con accertamento di fatto, ha rilevato che nel contratto di installazione di gioco lecito la clausola in esame risultava evidenziata mediante una indicazione sommaria del contenuto, così risultando rispettata l’esigenza di tutela codificata nell’art. 1341 cod. civ., dovendo reputarsi essere stata l’attenzione del contraente, ai cui danni le clausole sono state predisposte, adeguatamente sollecitata e la sua sottoscrizione in modo consapevole rivolta specificamente proprio anche al contenuto a lui sfavorevole (Cass., sez. 6 -3, 02/04/2015, n. 6747). Deve, infatti, negarsi l’idoneità di un mero richiamo cumulativo, a clausole vessatorie e non, ma soltanto se si esaurisca nella mera indicazione del numero e non anche, benché sommariamente, del contenuto (ex multis, Cass., 29/02/2008, n. 5733; Cass., 11/06/2012, n. 9492; Cass., sez. 6 – 3, 09/07/2018, n. 17939)>>.

Mantenimento del figlio maggiorenne economicamente non indipendente

Cass. sez. I, ord. 02/04/2024 n. 8.630, rel. Meloni:

<<Questa Corte, infatti, ha più volte premesso che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilito dall’art. 147 cod. civ., obbliga i coniugi secondo i parametri previsti nel nuovo testo dell’art. 155 cod. civ., come sostituito dall’art. 1 legge 8 febbraio 2006, n. 54, il quale, nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze del figlio, le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti.

Ebbene, con riferimento ai figli maggiorenni e ultramaggiorenni, questa Corte ha affermato una regula iuris che costituisce ormai diritto vivente: regula secondo cui (Sez. 1 -,Sentenza n. 26875 del 20/09/2023), “in tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica o di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro: di conseguenza, se il figlio è neomaggiorenne e prosegua nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto” in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa.”

L’ordinanza impugnata, che non tiene conto né dell’età della figlia di anni 33, né della sua autonomia (raggiunta o raggiungibile), né degli sforzi compiuti per conseguirla, non si è chiaramente uniformata a questa regula iuris e, pertanto, il ricorso merita accoglimento con la necessità che il giudice di merito riesamini l’applicazione dei criteri e dei principi che presidiano all’accertamento di autonomia dei figli ultramaggiorenni (oltre che le capacità patrimoniali dei genitori)>>.

Si veda ad es l’apprezzamento di raggiunta indipendenza economica operato da App Venezia nel 2022 e ritenuto  insindacabile (perchè fattuale ed esorbitante l’art 360 n. 5 cpc, immagino) dalla Cass., stesso relatore Meloni, in una sentenza di pari data e di numero inferiore di una unità (Cass. sez. I, ord. 2 aprile 2024 n. 8.629):

<<Tale accertamento di autosufficienza economica della figlia maggiorenne, sostenuto da adeguata motivazione e da iter argomentativo logico coerente, con conseguente venir meno dell’obbligo dei genitori al suo mantenimento, avrebbe effetto solo dalla data di pronuncia della sentenza pronunciata in sede di rinvio dalla Corte di Appello di Venezia (in data 15/9/2022). Tale sentenza n.2074/2022, pubblicata il 29.9.2022, ha infatti disposto: “sul punto, prende atto, in quanto mai contestato, che la ragazza fermo restando che la stessa ha definitivamente terminato gli studi superiori e non ha mai intrapreso studi universitari, risulta fondatrice di una società semplice,
assieme al padre, che è stata costituita nel febbraio del 2021 sotto la denominazione “Società Agricola di …e …s.s.”, avente quale oggetto sociale l’attività di coltivazione dei fondi dei soci; dalla fine dell’anno 2021, ella è altresì proprietaria di un terreno agricolo di mq. 17.809,00″. Prosegue la sentenza che: “ancora, la madre ha documentato di avere ricevuto una cartella esattoriale, avendo l’agenzia delle entrate riscontrato l’indebita detrazione per figli a carico, operata, per l’anno di imposta 2018, laddove la figlia aveva superato la soglia reddituale massima di euro 2.840,51; se da un lato tale ultimo documento (doc. 4) non dimostra il raggiungimento della completa autosufficienza della figlia, non essendo dato conoscere in quale misura il reddito abbia superato la soglia per le detrazioni fiscali, non può sottacersi come, allo stato attuale, C.C. abbia iniziato l’attività di impresa con il padre, proprio nel settore agricolo nel quale il genitore e tutta la famigli paterna hanno sempre operato. La stessa ora si assume il rischio di impresa ed ha anche acquistato un fondo di considerevoli dimensioni, ragione per la quale deve ritenersi che la medesima, ora ventiquattrenne, abbia operato una scelta professionale tendenzialmente stabile, che impone anche assunzione di oneri e conseguenti responsabilità nel medio- lungo periodo, e che dunque abbia conseguito una sua completa maturazione professionale, rispetto alla quale una contribuzione dei genitori al suo mantenimento ora non si giustifica più” >>

Sui criteri determinativi dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 15/03/2024 n.  7.069, rel. Reggiani:

<<Dalla lettura della menzionata ordinanza si evince chiaramente che questa Corte, nel richiamare la decisione delle Sezioni Unite del 2018 (Cass., Sez. U, Sentenza n. 18287 dell’11/07/2018), ha ribadito il principio secondo cui il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, L. n. 898 del 1970, richiede ai fini dell’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, l’applicazione dei criteri contenuti nella prima parte della norma, i quali costituiscono, in posizione pari ordinata, i parametri cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’ assegno. Il giudizio, premessa la valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, avrà ad oggetto, in particolare, il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

Nel valutare la statuizione impugnata, poi, ha rilevato che “3.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale, nel richiamare la pronuncia di questa Corte n. 11504/2017, ha basato il proprio convincimento ed ha motivato il percorso argomentativo della decisione assunta prendendo in considerazione, quanto alla situazione dell’attuale ricorrente, il solo requisito dell’inesistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarseli, senza attenersi ai principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 18287/2018 e senza, quindi, effettuare alcuna valutazione comparativa degli altri parametri rilevanti nel senso precisato, alla stregua delle circostanze allegate da parte della ex moglie, come indicate in ricorso, anche in relazione al ruolo che assume di avere svolto all’interno della coppia durante la vita matrimoniale. Resta da aggiungere che la cassazione della pronuncia impugnata con rinvio per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge che reimposti in virtù di un nuovo orientamento interpretativo termini giuridici della controversia, così da richiedere l’accertamento di fatti, intesi in senso storico e normativa, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice del merito, impone, perché si possa dispiegare effettivamente il diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova conseguenti alle esigenze istruttorie conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di giudizio di rinvio (Cass. n. 11178/2019)” (p. 4-5 dell’ordinanza n. 17426/2020 di questa Corte).

È pertanto evidente che la pronuncia di legittimità ha imposto un rinnovato giudizio in ordine al diritto all’attribuzione dell’assegno divorzile e alla sua quantificazione, che rimette in gioco tutti i parametri normativi previsti>>.

Mediazione e dovere pattizio temporalmente eccessivo di pagamento della provvigione

Cass. Sez. 2 sent.  del 09/01/2024 n. 785, rel. Giannaccari:

“ E’ vessatoria ed abusiva, ai sensi dell’art.1341 c.c. e dell’art.33 del
Codice del Consumo, la clausola, predisposta unilateralmente dal
mediatore, che prevede il diritto del compenso provvigionale, dopo la
scadenza del contratto e senza limiti di tempo, da parte di un
soggetto che si sia avvalso della sua attività qualora l’affare sia stato
successivamente concluso da un familiare, società o persona
“riconducibile “; detta clausola determina un significativo squilibrio a
cari del consumatore perché lo obbliga ad una prestazione in favore
del professionista indipendentemente da ogni accertamento, anche in
via presuntiva, del preventivo accordo con il soggetto che ha concluso l’affare o di ogni altra circostanza concrete da cui risulti che l’affare sia stato agevolato in ragione dei rapporti familiari o personali tra le parti”.

Così la SC  riassume la clausola  sub iudice:

<<E’ pacifico che il contratto di mediazione predisposto su formulario dalla Toscano s.p.a. conteneva una clausola, non specificamente sottoscritta da Antonella Giglio, che la obbligava a corrispondere il compenso al mediatore anche nel caso in cui l’immobile fosse stato locato dopo la scadenza dell’incarico e anche qualora il contratto fosse stato concluso da parte di soggetti ad essa
riconducibili (familiari, società partecipate)>>.

L’onere dell’appaltatore di inoltrare la denunzia dei difetti al subappaltatore ex art. 1670 non viene meno in presenza di garanzia del secondo verso il primo ad elimianire eventuali futuri difetti dennciati dal committente

Cass. sez. II, Ord.  n.  8.647, rel. Trapuzzano:

<<Questa Corte ha altresì affermato che, in tema di appalto, ai fini della garanzia per le difformità e i vizi dell’opera, il riconoscimento del vizio proveniente non dall’appaltatore ma da un subappaltatore, che non abbia operato in rappresentanza o su indicazione dell’appaltatore, non esime il committente dalla denunzia del vizio nel termine di decadenza, stante la reciproca indipendenza del subappalto e dell’appalto, i quali restano distinti e autonomi, nonostante il nesso di derivazione dell’uno dall’altro, sicché nessuna diretta relazione si instaura tra il committente e il subappaltatore.

Ne consegue che l’eventuale ammissione, da parte del subappaltatore, dell’esistenza di difformità o vizi dell’opera non può ritenersi equipollente al loro riconoscimento, il quale deve provenire dall’appaltatore ex art. 1667 c.c. (o ex art. 1669 c.c.), per poter costituire ragione di esonero dalla denunzia che la stessa norma impone al committente di rivolgere, ugualmente all’appaltatore, entro un certo termine, a pena di decadenza dalla garanzia (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22344 del 21/10/2009).

La ratio della norma sull’onere della tempestiva denuncia ai fini dell’esercizio del regresso, a cura dell’appaltatore verso il subappaltatore, è ravvisabile, dunque, nell’esigenza di consentire al subappaltatore di provvedere in tempi rapidi agli adeguamenti o alle riparazioni o, in alternativa, di dimostrare che l’opera in realtà è esente da difformità o vizi o difetti o che essi non sono a lui imputabili.

In questa prospettiva, il meccanismo rimediale è congegnato in modo tale per cui il subappaltatore rimane soggetto ai medesimi rimedi dei quali l’appaltante principale si avvalga nei confronti dell’assuntore, quale frutto della composizione e della convivenza dei due rapporti sostanziali concatenati che discendono dalla stipulazione del subappalto innestato sull’appalto principale: per un verso, infatti, l’appaltatore non può essere esonerato da responsabilità verso il committente per il solo fatto che l’esecuzione dell’opera sia stata materialmente realizzata da un diverso soggetto, ossia dal subappaltatore; per altro verso, quest’ultimo non può reputarsi liberato da ogni addebito a scapito della propria controparte.

Nei termini anzidetti, la responsabilità del subappaltatore è qualificata come condizionata, appunto perché l’appaltatore può farla valere unicamente qualora, a sua volta, il committente abbia inoltrato identica pretesa nei suoi confronti.

Alla stregua di queste coordinate, ove il subappaltatore abbia assunto un preliminare impegno verso l’appaltatore ad eliminare i vizi o difetti che dovessero in futuro essere denunciati dal committente, tale assunzione di garanzia preventiva non può esonerare l’appaltatore dall’onere della comunicazione della denuncia inoltrata successivamente dal committente (o del suo rifiuto dell’opera), ai sensi dell’art. 1670 c.c., appunto perché l’interesse alla proposizione dell’azione di regresso diviene attuale solo dopo l’invio della denuncia a cura dell’appaltante.

Solo rispetto alla comunicazione di tale denuncia il subappaltatore può orientare la propria difesa, ammettendo l’integrazione dei vizi e difetti denunciati e la loro riconducibilità all’esecuzione del subappalto ovvero negandone l’oggettiva esistenza ovvero la subiettiva imputazione.

I vizi e difetti rispetto ai quali l’appaltatore è tenuto a rispondere e che quest’ultimo può “riversare” sul subappaltatore sono infatti individuati e circoscritti solo dalla denuncia dell’appaltante.

Con la conseguenza che l’impegno all’eliminazione genericamente assunto prima della denuncia – diversamente dall’impegno assunto all’esito della denuncia – non esonera l’assuntore dall’onere della comunicazione al subappaltatore della denuncia inviata dall’appaltante entro 60 giorni dal suo ricevimento, sotto pena di decadenza dell’azione di regresso.

Tanto più che la clausola contenuta nella richiamata transazione non prevedeva alcuna espressa deroga all’onere di comunicazione della denuncia contemplato dall’art. 1670 c.c>>

Clausola bancaria di massimo scoperto e determinatezza del periodo di riferimento

Cass.  civile sez. I, ord. 15/01/2024  n. 1.373, rel. Vella:

<<In secondo luogo che, in tema di conto corrente bancario, può ritenersi nulla per indeterminatezza la clausola negoziale che prevede la commissione di massimo scoperto qualora detta indeterminatezza sia effettiva e radicale, come nel caso in cui essa ne indichi semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata (Cass. 19825/2022).

6. – Nel caso in esame, i canoni ermeneutici evocati da parte ricorrente risultano effettivamente violati.

6.1. – Occorre innanzitutto dare atto che nell’art. 9 delle condizioni generali di contratto, specificamente approvato per iscritto e rubricato “chiusura periodica del conto e regolamento degli interessi, commissioni e spese”, si legge (tra l’altro) che “I rapporti di dare e avere relativi al conto, sia con saldo debitore o creditore, vengono regolati con identica periodicità, portando in conto con valuta ‘data regolamento’ dell’operazione gli interessi, le commissioni e le spese ed applicando le trattenute fiscali di legge.

Il saldo risultante dalla chiusura periodica produce interessi secondo le medesime modalità”.

6.2. – Anche dalle condizioni economiche di conto corrente emerge in modo chiaro la periodicità trimestrale della chiusura, da riferire evidentemente non solo alla capitalizzazione, ma anche alla chiusura periodica del conto, poiché, in mancanza, nemmeno potrebbe sussistere la capitalizzazione, sicché i due parametri non possono che essere congruenti.

6.3. – Dall’insieme delle menzionate disposizioni emerge allora, in modo inequivocabile, che la chiusura periodica del conto avveniva ogni trimestre e che, in occasione di ciascuna di esse, dovevano regolarsi tutti i rapporti di dare e avere tra cliente e banca, ivi compresi, perciò, quelli relativi alle “commissioni”, richiamate sia nella rubrica che nell’articolato.

6.4. – Ebbene, trattandosi pacificamente di una “commissione”, una corretta applicazione del disposto di cui all’art. 1363 c.c. avrebbe necessariamente comportato l’accertamento della determinatezza o quantomeno determinabilità della clausola relativa alle c.m.s., applicabili appunto trimestralmente.

6.5. – Anche il criterio interpretativo prescritto dall’art. 1362 c.c., relativo alla comune volontà delle parti – da scrutinare alla luce del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto – avrebbe dovuto deporre in tal senso, attraverso la verifica che, in concreto, le commissioni di massimo scoperto sono state applicate trimestralmente (come da estratti conto prodotti), senza che tale periodicità sia mai stata messa in discussione dalle parti nel corso del rapporto (mentre, è appena il caso di aggiungere, ciò non si sarebbe verificato ove le stesse avessero inteso applicare le commissioni di massimo scoperto con una diversa periodicità).

6.6. – Del pari avrebbe dovuto indurre il tribunale a ravvisare la determinatezza della clausola in questione un’interpretazione secondo buona fede del contratto, ai sensi dell’art. 1366 c.c., tale da non privare la stessa di senso effettivo, tenuto coerentemente conto della natura e dell’oggetto del contratto medesimo.

6.7. – Ad analoghe conclusioni conduce il canone interpretativo di cui all’art. 1367 c.c., in base al quale “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”, poiché, a fronte di una chiusura periodica del conto corrente pacificamente trimestrale, il principio di conservazione del contratto avrebbe dovuto indurre a ritenere determinata la commissione di massimo scoperto nella sua periodicità trimestrale, piuttosto che ravvisarne la nullità.

6.8. – A ciò si aggiunga, in relazione al canone ermeneutico ex art. 1368 c.c., che la pratica generalmente in uso al momento della stipulazione del contratto de quo era notoriamente quella di contabilizzare trimestralmente le commissioni di massimo scoperto, come emerge dalle allegate pronunce di merito dell’epoca.

6.9. – Alla luce di quanto precede appare insomma evidente che la clausola in questione, relativa alle commissioni di massimo scoperto, non aveva ragione di essere ritenuta nulla per indeterminatezza>>.

Responsabilità da cose in custodia e prova liberatoria

Cass. sez. II, ord.  22/03/2024 n. 7.789 rel. gianniti:

<<Occorre premettere che questa Corte, con ordinanza 01/02/2018, n. 2482 (e, nello stesso senso, con ordinanze nn. 2479 e 2480 del 2018) ha avuto modo di precisare che:

«In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro».

Tale principio di diritto – successivamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 27724/2018; n. 20312/2019; n. 38089/2021; n. 35429/2022; nn. 14228 e 21675/2023), anche a Sezioni Unite (Cass. n. 20943/2022) – è stato poi ancor più di recente riaffermato, statuendosi (Cass. n. 11152/23) che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva – in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode – e può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. (bastando la colpa del leso: Cass., ord. 20/07/2023, n. 21675, Rv. 668745-01) o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole. (…)

Orbene, dando corretta applicazione ai suddetti principi la corte territoriale – dopo aver ribadito che il Pi.Gi.si era visto crollare addosso il cancello di notevoli dimensioni (avente un peso di circa 300 kg ed una lunghezza di quasi 3 metri) mentre stava svolgendo nei pressi la propria attività lavorativa; e che l’immobile, ove è avvenuto l’evento, risultava essere di proprietà della società Ca., <<per cui deve ritenersi che tale società abbia acquisito, tra l’altro, la disponibilità in concreto della cosa che specificatamente ha cagionato il danno>> -ha ritenuto (p. 15) che la relativa responsabilità fosse a carico della società Ca., che, quale proprietaria, sul bene poteva esercitare attività di controllo non senza aggiungere che: <<tale doverosa attività neppure può ritenersi venuta meno per il fatto che la posa in opera del cancello sia stata affidata a terzi, facendo pur sempre carico al proprietario la relativa verifica>>.

B) Ciò posto, la società ricorrente censura la sentenza, come sopra rilevato, nella parte in cui la corte territoriale ha affermato che resterebbe a carico del custode anche l’ipotesi del c.d. fatto ignoto, mentre, nel caso di specie, a dire della società ricorrente, si sarebbe verificata un’ipotesi di fatto imputabile al terzo (rimasto ignoto), che aveva costituito una causa interruttiva del nesso causale tra la res e l’evento dannoso.

Contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, ciò che è rimasto ignoto non è l’individuazione del terzo, cui sarebbe imputabile il fatto; ma è l’individuazione della causa remota del danno, essendo tuttavia provata la sua derivazione dalla res di cui la Ca. era custode, quale proprietaria dello stabilimento in cui essa si trovava.

Orbene, se è vero che la responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c., può essere esclusa solo dall’accertamento positivo che il danno è stato causato dal fatto del terzo o dello stesso danneggiato, il quale deve avere avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno (Cass. n. 20359/2005; n. 10556/1998), è anche vero che, nel caso di specie, la società proprietaria del cancello non ha fornito la prova che il crollo fosse stato causato dal fatto del terzo o da un evento imprevedibile od eccezionale, considerato che, per ottenere l’esonero dalla responsabilità al custode, è richiesta la prova che il fatto del terzo o quello naturale abbiano i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità, dell’inevitabilità, quindi, dell’idoneità a produrre l’evento, escludendo fattori causali concorrenti (Cass. n. 20359 e n. 1655/2005; n. 2062/2004).

D’altronde, Cass. n. 25029/2008, nell’affermare (sulla scia di Cass. n. 21244 e n. 3651/2006) il principio di diritto richiamato nella sentenza impugnata (p. 15) – dopo aver premesso che <<Per ottenere l’esonero dalla responsabilità, il custode deve provare, in particolare, che il fatto del terzo abbia i requisiti dell’autonomia, dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità e che sia, quindi, idoneo a produrre l’evento, escludendo fattori causali concorrenti>> ha significativamente aggiunto: <<L’individuazione precisa del terzo non costituisce elemento essenziale per la prova dell’interruzione del nesso eziologico, nel caso in cui sia, comunque, certo l’effettivo ruolo del terzo stesso nella produzione dell’evento. Qualora, invece, (come nel caso di specie ndr) persista l’incertezza sull’individuazione della concreta causa del danno, pur essendo certo che essa derivi dalla cosa, la responsabilità rimane a carico del custode, non essendo il fatto ignoto idoneo ad eliminare il dubbio in ordine allo svolgimento eziologico dell’accadimento, difettando in concreto la prova Daèfucaso fortuito>>.

Occorre aggiungere che la corte territoriale ha ritenuto (p. 17) che, quand’anche si fosse riusciti ad accertare la causa del crollo del cancello, ciò non poteva comunque valere a liberare da responsabilità la società proprietaria, la quale avrebbe dovuto vigilare affinché la cosa non causasse danni a terzi, <<facendo pur sempre carico al proprietario la relativa verifica, che non esclude né altrimenti limita il generale obbligo civilistico della idonea custodia, acquisendo il proprietario la disponibilità del bene di modo che la responsabilità verso i terzi, secondo le previsioni del citato art. 2051 c.c., grava soltanto su di esso>> (cfr. p. 16 della sentenza di appello).

Tanto costituisce una corretta estrinsecazione descrittiva del contenuto della responsabilità oggettiva per danni da cosa in custodia, che prescinde totalmente, com’è noto e per la oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, da qualunque colpa o condotta del custode>>.

Il ragionamento pare esatto.

Marchio di colore e secondary meaning

Marcel Pemsel in IPKat dà notizia di una interssante sentenza che andrà studiata con attenzione (assieme ai suoi precedenti amministrativi) sui due temi in oggetto: Trib. UE T-652/22 del 6 maerzo 2024, Lidl c. EUIPO-MHCS (successore di Veuve Clicquot).

Si tratta di marchio di colore (anzi marchio figurativo era stato detto inizialmente: da studiarne la differenza disciplinare) assai noto, l’arancione della celebre casa vinicola:

Circa l’art. 4 del reg. 40/1994 (Segni atti a costituire un marchio comunitario: Possono costituire marchi comunitari tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma dei prodotti o del loro confezionamento, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese), il T. non vede provblemmi: la descrizione e il codice tecnico assieme rendono sufficientemente descritto il segno scelto:

<<57  However, in the present case, it must be stated, first, that the description of the mark at issue was indeed taken into account by the Board of Appeal (see paragraph 67 of the contested decision). Secondly, it must be pointed out, as observed by the intervener, that although the applicant submits that the scientific definition of the CIE satisfies neither the criteria of the judgment in Sieckmann nor those of Article 4 of Regulation No 40/94, it has not claimed that there is a contradiction between the colour sample at issue and the description containing the scientific definition of the CIE. When questioned on that point at the hearing, the applicant argued that the actual demonstration of the contradiction was not the subject matter of the present proceedings.

58 Thus, since, in the present case, the requirements of Article 4 of Regulation No 40/94, as set out by the judgment in Sieckmann, are met by the colour sample at issue (see paragraph 54 above) and are not contradicted by the description provided and the scientific definition that was indeed taken into account together (see paragraph 57 above), it is not necessary to examine whether the description of the mark at issue and the scientific definition of the CIE satisfy the criteria of that article and that judgment. According to the case-law cited in paragraphs 55 and 56 above, there is no requirement that the description of the mark, when included in the application form, must by itself satisfy the criteria of the article>>.

Più dettagliato è lo snodo motivatorio sulla prova del secondary meaning che deve  riguardare tutta la UE. Prova assai complicata per chiunque, anche per i colossi del vino.

Qui non posso che rimandare alla sentenza, che conclude affermando l’insufficienza di valutazione e rimandand in sede amministrativa.

Erroneo giudizio sul cocnetto di indipenedsenzna economica del fighlio maghgiorenne (art. 2327 septies cc)

Continua, anzi si aggrava, la tendenza giudiziaria a penalizzare i figli maggiorennni non autosufficienti economicamente con inrerepretazioni assai restrittive dell’art. 337 septies cc.  Così ad es. Cass. Sez. I, Ord. 27/03/2024, n. 8.240, rel. Meloni:

<<Infatti, in ordine al primo e secondo mezzo di cassazione, va premesso che secondo questa Corte (Sez. 1 – , Sentenza n. 26875 del 20/09/2023) ha enunciato la regula iuris secondo cui: “In tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica o di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro: di conseguenza, se il figlio è neomaggiorenne e prosegua nell’ordinario percorso di studi superiori o universitari o di specializzazione, già questa circostanza è idonea a fondare il suo diritto al mantenimento; viceversa, per il “figlio adulto” in ragione del principio dell’autoresponsabilità, sarà particolarmente rigorosa la prova a suo carico delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa”.

Questa Corte ha più volte affermato che il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, stabilito dall’art. 147 cod. civ., obbliga i coniugi secondo i parametri previsti nel nuovo testo dell’art. 155 cod. civ., come sostituito dall’art. 1 legge 8 febbraio 2006, n. 54, il quale, nell’imporre a ciascuno dei coniugi l’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, individua, quali elementi da tenere in conto nella determinazione dell’assegno, oltre alle esigenze del figlio, le risorse economiche dei genitori, nonché i tempi di permanenza presso ciascuno di essi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura da loro assunti.

L’ordinanza impugnata non si è uniformata ai principi richiamati ed elaborati da questa Corte e pertanto il ricorso merita accoglimento. E, precisamente, occorre evidenziare che la Corte territoriale, tenuto conto che il A.A. guadagna 39.000,00 euro mentre la Foscarini € 20.000,00, ha valutato che la figlia C.C., laureata in storia dell’arte ed insegnante nella materia, negli anni 2018 e 2019 ha guadagnato, grazie a collaborazioni saltuarie, circa 4.000,00 euro mentre ne ha consumato circa 6.000,00 per spese mediche, in quanto necessitante di assistenza psicologica perché affetta da sindrome delirante, con manie di persecuzione (senza che, tuttavia, ricorra il caso della menomazione psichica e del conseguente regime giuridico del figlio affetto da tali serie patologie).

Tuttavia, seppur Ella ha documentato un modesto guadagno (solo 4.000,00 euro annui), deve ritenersi che la stessa ha comunque incominciato a mettere a frutto le proprie capacità professionali, seppur saltuariamente esercitate, così cominciando a conseguire i propri redditi da lavoro e, anche se in attesa di una migliore e più sicura definizione del suo inserimento nel mondo produttivo, ne consegue che – in ragione dei richiamati principi – si deve seriamente dubitare che vi sia ragione per conservare, in suo favore, l’assegno di mantenimento, ferma la eventuale possibilità di un eventuale soccorso paterno, qualora ne ricorrano i presupposti, e perciò di chiedere e ottenere un assegno alimentare>>.

L’errore è grave: euro 4.000 all’anno (se ben capisco: non in due anni, spererei!) renderebbero il figlio “economicamente indipendente” (art. 337 septies).