La responsabilità risarcitoria da illecito concorrenziale (cartello vietato), accertato in capo alla società madre, si estende pure alla società figlia

Nella causa C-882/19, Sumal c. Mercedes, è arrivata la sentenza 06.10.2021 della corte di giustizia , dopo le conclusioni dell’AG (più articolate).

Il danneggiato ha azione anche verso la società figlia: questo il responso.

Questioni pregiudiziali, § 15:

«[1])      Se la dottrina dell’unità economica che deriva dalla giurisprudenza della stessa [Corte] giustifichi l’estensione della responsabilità della società madre alla società figlia oppure se tale dottrina si applichi solo ai fini di estendere la responsabilità delle società figlie alla società madre.

[2])      Se la nozione di unità economica debba essere estesa nell’ambito dei rapporti infragruppo facendo esclusivamente riferimento a fattori relativi al controllo o se possa fondarsi anche su altri criteri, tra cui il fatto che la società figlia abbia potuto trarre beneficio dalle infrazioni.

[3])      Nel caso in cui sia riconosciuta la possibilità di estendere la responsabilità della società madre alla società figlia, quali siano i relativi requisiti.

[4])      Se la risposta alle precedenti questioni fosse favorevole a riconoscere l’estensione alle società figlie della responsabilità delle società madri per le condotte poste in essere da queste ultime, se sia compatibile con tale orientamento [della Corte] una norma nazionale, come l’articolo 71, paragrafo 2, della [legge sulla tutela della concorrenza], che contempla unicamente la possibilità di estendere la responsabilità della società figlia alla società madre, purché sussista una situazione di controllo della società madre sulla società figlia».

Risposta (sulla 2 e 3):

<<48   … un’entità giuridica che non sia indicata in tale decisione come autrice dell’infrazione al diritto della concorrenza può nondimeno essere sanzionata per il comportamento illecito di un’altra persona giuridica allorché tali persone giuridiche facciano tutte e due parte della stessa entità economica e formino così un’impresa, che è l’autrice dell’infrazione ai sensi del citato articolo 101 TFUE (…)

49      Infatti, la Corte ha già dichiarato che il rapporto di solidarietà che unisce i membri di un’unità economica giustifica in particolare l’applicazione della circostanza aggravante della recidiva nei confronti della società madre sebbene quest’ultima non sia stata oggetto di precedenti procedimenti, che hanno dato luogo a una comunicazione degli addebiti e a una decisione. In una situazione del genere, appare determinante il precedente accertamento di una prima infrazione derivante dal comportamento di una società figlia con la quale detta società madre, coinvolta nella seconda infrazione, formava, già all’epoca della prima infrazione, una sola impresa ai sensi dell’articolo 101 TFUE (…)

50     Di conseguenza, nulla osta, in linea di principio, a che la vittima di una pratica anticoncorrenziale proponga un’azione di risarcimento danni nei confronti di una delle entità giuridiche che costituiscono l’unità economica e, pertanto, dell’impresa che, commettendo una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, abbia causato il danno subito da tale vittima.

51     Pertanto, ..  la vittima di tale infrazione può legittimamente cercare di far valere la responsabilità civile di una società figlia di tale società madre anziché quella della società madre, conformemente alla giurisprudenza citata al punto 42 della presente sentenza. La responsabilità della società figlia in parola può tuttavia sorgere solo se la vittima prova, sulla base di una decisione adottata in precedenza dalla Commissione in applicazione dell’articolo 101 TFUE, o con qualsiasi altro mezzo, in particolare qualora la Commissione abbia taciuto su tale punto in detta decisione o non sia stata ancora chiamata ad adottare una decisione, che, tenuto conto, da un lato, dei vincoli economici, organizzativi e giuridici di cui ai punti 43 e 47 della presente sentenza e, dall’altro, dell’esistenza di un legame concreto tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è ritenuta responsabile, la suddetta società figlia costituiva un’unità economica con la sua società madre.

52     Dalle considerazioni che precedono risulta che una siffatta azione di risarcimento danni proposta nei confronti di una società figlia presuppone che il ricorrente provi (…) i vincoli che uniscono tali società menzionati al punto precedente di quest’ultima, nonché il legame concreto, di cui al medesimo punto, tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è stata ritenuta responsabile. Pertanto, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la vittima dovrebbe dimostrare, in linea di principio, che l’accordo anticoncorrenziale concluso dalla società madre per il quale essa è stata condannata riguarda gli stessi prodotti commercializzati dalla società figlia. Così facendo, la vittima dimostra che è proprio l’unità economica cui appartiene la società figlia, insieme alla sua società madre, che costituisce l’impresa che ha effettivamente commesso l’infrazione previamente accertata dalla Commissione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, conformemente alla concezione funzionale della nozione di «impresa» accolta al punto 46 della presente sentenza.

53   (…)  54    A questo proposito, detta società figlia deve poter confutare la sua responsabilità per il danno lamentato, in particolare facendo valere qualsiasi motivo che avrebbe potuto dedurre se fosse stata coinvolta nel procedimento avviato dalla Commissione nei confronti della sua società madre, che ha portato all’adozione di una decisione della Commissione che constata l’esistenza di un comportamento illecito contrario all’articolo 101 TFUE (public enforcement).

55   Tuttavia, per quanto riguarda la situazione in cui un’azione di risarcimento danni si basa sulla constatazione, da parte della Commissione, di un’infrazione all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE in una decisione rivolta alla società madre della società figlia convenuta, quest’ultima non può contestare, dinanzi al giudice nazionale, l’esistenza dell’infrazione così accertata dalla Commissione. Infatti, l’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 prevede, segnatamente, che quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni o pratiche rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 101 TFUE che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione>>.

Sulla imputabilità alla controllata dell’illecito antitrust commesso dalla controllante : si pronuncia l’AG

L’avvocato generale Pitruzzella (AG)  nella causa C-882/19 Sumal contro Mercedes Benz Trucks Espana, ha presentato il 15 aprile 2021 le sue conclusioni .

La Commissione nel 2016 aveva accertato accordi collusivi tra i principali produttori di autocarri , tra cui Daimler.

Un acquirente di autocarri spagnolo cita in causa la controllata spagnola di Daimler, appunto Mercedes Benz Trucks Espana, per sovrapprezzo anticoncorrenziale, chiedendo il risarcimento dei danni

Essendo il cartello stato accertato nei confronti della capogruppo/controllante e non della controllata, quest’ultima eccepisce subito il difetto di legittimazione passiva

L’AG , a conclusione di un articolato ragionanento, ritiene che la controllata abbia legittimazione passiva per la domanda risarcitoria di danni cagionati dalla controllante.

Egli ricorda la centralità del concetto di impresa come unità economica nel diritto antitrust europeo . Ricorda che <<  La teoria dell’«unità economica» è stata elaborata intorno agli anni ’70 e utilizzata dalla Corte sia per escludere dall’ambito di applicazione del divieto di cui all’attuale articolo 101 TFUE gli accordi infragruppo (16), sia per imputare, all’interno di un gruppo di società, il comportamento anticoncorrenziale di un’affiliata alla capogruppo, inizialmente in situazioni in cui veniva eccepita l’incompetenza della Commissione a sanzionare quest’ultima, non avendo essa agito direttamente all’interno della Comunità>>, § 27.

(a ciò si può aggiungere qualche altra finalità, ad esempio la determinazione del fatturato ai fini delle sanzioni).

Le ragioni di questa estensione di responsabilità “ascendente” (dalla controllata alla controllante), possono essere due: o l’esercizio di influenza determinante, § 34, o l’esistenza stessa (in sè, potremmo dire) di un’unità economica, § 35: <<per altro verso, nella giurisprudenza si ritrovano altresì diversi elementi che militano nel senso di ritenere che sia l’esistenza stessa di un’unità economica a determinare la responsabilità della società madre per i comportamenti anticoncorrenziali della controllata. La Corte ha più volte sottolineato che la formale separazione tra due entità, conseguente alla loro personalità giuridica distinta, non esclude l’unità del loro comportamento sul mercato (34) e, pertanto, che esse costituiscano un’unità economica, vale a dire un’unica impresa, ai fini dell’applicazione delle norme sulla concorrenza. Sebbene la nozione funzionale di impresa non richieda che l’unità economica sia essa stessa dotata di personalità giuridica (35), la giurisprudenza le riconosce tuttavia una sorta di soggettività distinta e autonoma rispetto a quella delle entità che la costituiscono, che si sovrappone alla personalità giuridica di cui siano eventualmente dotate tali entità. Così, a partire dalla sentenza Akzo, la Corte non ha esitato a definire l’unità economica come un «ente» capace di violare le regole di concorrenza e di «rispondere di tale infrazione» (36). Nella prospettiva appena descritta, il fattore decisivo ai fini dell’imputazione della responsabilità della società madre per il comportamento anticoncorrenziale della controllata sarebbe dunque la loro condotta unitaria sul mercato (37), che connette insieme in un’unica unità economica più entità giuridicamente indipendenti.>> p. 35

La seconda ragione non è molto chiara e dunque condivisibile: sembra una tautologia e non mostra l’iter  logico seguito per arrivare alla conclusione

Comunque l’AG ammette che con la prima ragione non si potrebbe estendere la responsabilità al caso opposto (quello de quo) e cioè a quello della responsabilità discendente; mentre con la seconda ragione ciò è possibile, §§ 37-38

Come detto , la preferenza dell’AG cade sulla seconda ragione , §§ 40 e 44-45.

Il nucleo centrale del ragionamento è al paragrafo 46 dov’è vuole spiegare come si concilia questa regola con il principio di responsabilità personale: <<Poiché tale fondamento è del tutto indipendente da una qualche colpa della società madre (54), l’unico modo per conciliarlo con il principio della responsabilità personale è ritenere che tale principio operi a livello dell’impresa nel senso del diritto della concorrenza, ovvero a livello dell’entità economica che ha colpevolmente commesso l’infrazione (55). Tale entità, in quanto soggetto economico che agisce unitariamente sul mercato, è responsabile perché una delle sue componenti ha agito in modo da violare le regole sulla tutela della concorrenza (56). Tuttavia, non essendo tale entità dotata di soggettività giuridica, l’infrazione alle regole di concorrenza va imputata a una o, congiuntamente, a più entità alle quali potranno essere inflitte ammende (57). In effetti, benché le norme di concorrenza dell’Unione si rivolgano alle imprese e siano ad esse immediatamente applicabili, indipendentemente dalla loro organizzazione e forma giuridica, risulta tuttavia dalla necessaria effettività dell’attuazione di tali norme che la decisione della Commissione volta a reprimerne e a sanzionarne la violazione debba essere indirizzata a soggetti‑persona nei cui confronti sia possibile agire a fini esecutivi per ottenere il pagamento della relativa ammenda >>.

Il ragionamento non è molto lineare. Giuridicamente ritenere responsabile un’ <<entità economica>> (come un gruppo)  che non sia entità giuridica è un po’ problematico: soprattutto quando la conseguenza si basa sul solo fatto che una delle sue componenti  ha violato le regole dell’agire giudicico. Il superamento della personalità giuridica deve avere alla base una ragione molto forte e cioè giuridicamente dotata di senso, come ad esempio l’abuso della personalità giuridica.

in breve dice l’AG che i passi logici da compiere sono tre : <<49.  Il primo passo è l’accertamento dell’influenza determinante della società madre sulle controllate. Il secondo consequenziale passaggio è l’individuazione di una singola unità economica. L’influenza determinante è condizione necessaria affinché ci sia un’unità economica, cioè un’unica impresa in senso funzionale.

  1.     A questi due passaggi ne segue un terzo: l’attribuzione degli obblighi relativi al rispetto delle regole sulla concorrenza e della responsabilità per averle colpevolmente violate all’impresa unitaria così individuata, risultante da più soggetti giuridici distinti.
  1.     L’ultimo passaggio consiste nella concreta allocazione della responsabilità per l’infrazione commessa dall’impresa alle singole entità che la compongono, le quali, essendo munite di personalità giuridica, possono essere centro di imputazione di tale responsabilità e sopportarne le relative conseguenze in termini finanziari.
  1.     In questo modello ricostruttivo dell’unità economica non ci sono ragioni logiche per escludere che l’allocazione della responsabilità possa operare non solo in senso «ascendente» (dalla controllata alla società madre), ma anche in senso «discendente» (dalla società madre alla controllata).>>

Da ultimo l’AG indica le condizioni affinché la controllata risponda della condotta illecita della controllante: <<è, inoltre, necessario che tali controllate abbiano preso parte all’attività economica dell’impresa diretta dalla società madre che ha materialmente commesso l’infrazione.>> ,§ 56

In altri termini <<nel caso di responsabilità ascendente [responsabilità della madre per condotta delal figlia], in cui le controllate adottano un comportamento anticoncorrenziale nel quadro generale del potere di influenza della società madre, tale potere è sufficiente sia a individuare un’unità economica sia a fondare la responsabilità congiunta della società madre. Nel caso inverso, di responsabilità discendente [responsabilità della figlia per condotta della madre: come nel caso de quo], in cui è la società madre a commettere l’infrazione, l’unitarietà dell’attività economica risulterà – oltre che dall’influenza determinante esercitata dalla prima – dal fatto che l’attività della controllata è, in qualche modo, necessaria alla realizzazione della condotta anticoncorrenziale (per esempio perché la filiale vende i beni oggetto del cartello) (70). Poiché la nozione funzionale d’impresa in quanto unità economica attiene al concreto atteggiarsi di più entità giuridiche sul mercato, i suoi esatti confini vanno delineati proprio con riferimento alle attività economiche che tali entità svolgono e al ruolo che esse rivestono all’interno del gruppo societario: da un lato, l’influenza determinante esercitata dalla società madre, dall’altro, l’attività della o delle controllate oggettivamente necessaria a concretizzare la pratica anticoncorrenziale>> § 57

Nella sezione 5 l’AG affronta il tema della estendibilità di questo ragionamento, nato nella nel settore del Public enforcement e(erogazione di sanzioni), al private enforcement e cioè al risarcimento dei danni. Afferma questa estendibilità, § 66.

Il giudizio si può condividere astrattamente: non c’è motivo per differenziare.

Il problema tecnico giuridico è nu altro: che il diritto al risarcimento dei danni in generale in tutta la tort law europea è di competenza nazionale, non europea. Anche qui allora -come altrove: proprietà intellettjuale- c’è la dicotomia tra un settore appunto di competenza europea e le misure rimediali di competenza nazionale

Sul punto l’AG ricorda il precedente Skanska del 2019 secondo cui la legittimazione passiva alla domanda risarcitoria è di competenza Europea.

Si tratta forse della questione più complessa, attenendo al riparto normativo tra due ordinamenti Nazionale ed europeo: da un lato, lasciare il contenuto delle misure rimediali in toto ai diritti nazionali pregiudica l’uniforme applicazione del diritto europeo armonizzato; dall’altro e all’opposto, imporne una lettura europea significa vanificare la cometenza normativa nazionale.

sentenza milanese sul diritto all’oblio verso Google

Trib. Milano 24.01.2020, sent. 4911/2019-RG 12255/2018 , decide una domanda di deindicizzazione verso Google.

Nel caso specifico l’istante, ottenuta una sentenza penale di diffamazione a carico di un terzo che l’aveva diffamato con post su internet, chiede a Google (G.) la deindicizzazione dal motore di ricerca di tali materiali.

La cronologia:

  • l’attore si accorge delle notizie lesive nel giugno 2011;
  • ottiene sentenza di condanna per diffamazione nel febbraio 2017;
  • fa istanza a G. di deindicizzazione nel maggioo 2016 e poi tramite legale nel febbraio 2017;
  • adisce il trib. MI nel febbraio 2018.

Adisce citando sia Google italy che Google LLC. Il primo però  è ritenuto privo di legittimazione passiva, <<poichè il titolare del trattamento dei dati personali di cui parte attrice si duole è unicamente Google LLC>>, p. 5

Il Trib elenca le norme regolanti il caso, p. 9-10, tra cui figura la dir. 2016/680 del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio.

Non figura direttamente il GDPR.

Il Trib. qualifica i motori di ricerca come banche dati di pagine reperite tramite i software c.d spiders, p. 13.

Non si applica la normativa sul safeharbour: <<Ritiene  il  Tribunale  che  la  presente  vicenda  non  possa  trovare  regolazione  dalla  normativa  contenuta nel  D.  Lgs.  n.70/03,  che  inerisce  esclusivamente  l’attività  di  memorizzazione  di  informazioni commerciali fornite daaltri. Oggetto del presente ricorso,  invero, non è l’attività di host  provider di  Google  in  relazione  alla formazione  dei  contenuti  delle  singole  pagine  web  sorgente,  ma la  condotta  posta  in  essere  dal motore di ricerca in qualità di titolare del trattamento dei dati sottesa all’evocazione attraverso la semplice digitazione del nome e cognome dell’interessatodi  tutti  i  siti  in  cui  viene  in  risalto  il  preteso  ruolo  criminale  del  ricorrente attraverso  un software messo  a  punto    da  Google  e  di  cui quest’ultima  si avvale per facilitare la ricerca degli utenti attraverso il suo motore di ricerca>> p. 14-15.

Il Trib. ribadisce che <<l’abbinamento dei siti al nome del ricorrente è frutto del sistema adottato da  Google  per  scandagliare  il  web,  copiare  e  immagazzinare  i  contenuti  pubblicati  dai  siti sorgente,  aggiornandoli,  organizzare  il  materiale  secondo  chiavi  di  lettura  in  modo  da  rendere fruibile “worldwide” in tempo reale i contenuti relativi ad un soggetto, ad una data vicenda o ad argomento assegnati dall’utente nella stringa di ricerca; condotta da  intendersi,  dunque,  comeprodotto di un’attività direttamente ed esclusivamente riconducibile, come tale,  alla resistente.  Ed è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il   risultato   rappresentato   dai   possibili   percorsi   di   ricerca, rendendo   disponibili   informazioni aggregate  in  grado  di  fornire  agli  utenti  una  profilazione  dell’intera  storia  personale dell’interessato e  che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave anche  in relazione a settori potenzialmente differenti od estranei a quello oggetto della ricerca. Soprattutto, la capillarità della raccolta, la capacità di padroneggiare un numero potenzialmente illimitato  di  dati  e  notizie,  la  diffusività  della  propagazione  del  dato  e  delle  notizie  ad  esso correlate  costituiscono  il  valore  aggiunto,  autonomo  da  quello  offerto  dai  siti  sorgente,  operato dal motore generale di ricerca>> p. 16

D’altro  canto,  il T. sottolinea  che   la   rimozione   a   posteriori   mediante   de-indicizzazione dell’associazione dato personale/contenuti dei siti sorgente Google <<non impedisce la visualizzazione  di contenuti immessi  dagli utenti  e non costituisce  intromissione dell’hosting provider nei  contenuti immessi   nel   sito   dai   siti   sorgente   (i   cui   titolari   non   venivano   evocati   nel   presente   giudizio), considerazione che consente di superare l’eccezione mossa da parte convenuta circa l’impossibilità (giuridica, non certo tecnica) di accedere e cancellare il testo veicolato in rete dal soggetto titolare del singolo sito informatico.

Va  dunque  ribadito  che  la  deindicizzazione  non  comprime  in  alcun  modo  la  libertà    degli  utenti  di accedere alle ricerche offerte dal motore di ricerca Google-alla stessa maniera di quanto accade per gli altri motori di ricerca-attingendo la notizia dai singoli siti sorgente.

Infatti -come  si  è  descritto  in  precedenza-il  servizio  indicato  non  compie  alcun  intervento  diretto  sui contenuti  memorizzati  nel  web,  ma  svolge  su  di  essi  una  rilevazione  in  ambito  mondiale  non  solo meramente quantitativa e statistica (e dunque “esterna” rispetto al contenuto)  dei dati oggettivi, ma provvede  altresì  alla  estrapolazione  dei  dati  organizzandoli  in rankingsulla  base  diparametri  non divulgati (non comprimibili nella sola, notoria, frequenza,  c.d. popolarità, dei termini  usati dagli utenti nelle ricerche  e dei siti visitati), trasfusi nel  grande algoritmo segreto  che  regola il  funzionamento  del sistema>>, p.17.

Nel  web  i  dati  assai  sovente  risultino  <<inseriti  in  contenuti  non comprimibili  nella  mera  categoria  delle  aggregazioni  di  nudi  dati,  ma  siano  piuttosto  inclusi  in testi più ampi, ascrivibili all’area dell’esercizio della liberta di stampa o di espressione (come nel caso  di  specie),  di  talchè  la  cancellazione  della  pagina  web  dall’archivio  del  titolare  del trattamento  finirebbe  per  incidere  su  un’area  ben  più  ampia  del  singolo  dato  che  si  vuole trattare.  Occorre  poi  puntualizzare  che,  come  più  volte  ribadito,  la  deindicizzazione  non  incide  sui  contenuti; nondimeno, limitando l’accessibilità alla pagina web, attingibile solo attraverso l’attivazione diretta del singolo sito sorgente,  essa finisce per incidere sull’ampiezza e quindi sul concreto esercizio dei diritti di libertà ad esso connessi.  Non ci si può infatti nascondere che la mancata comparsa sulla pagina web del motore generalista della pagina  sorgente alla digitazione delle generalità dell’interessato sia in grado di incidere in maniera significativa  -in ipotesi anche potenzialmente assorbente-sulla capacità diffusiva della notizia da parte del sito sorgente.    Occorre dunque effettuare un attento bilanciamento dei contrapposti diritti>> p. 18

l  diritto  in  esame [identità personale e riservatezza] , dice il T.,  <<piuttosto  che  un  autonomo diritto  della personalità  costituisce  un  aspetto  del  diritto  all’identità  personale,  segnatamente  il  diritto  alla  dis-associazione  del  proprio  nome  da  un  dato  risultato  di  ricerca.  Il  c.d.  ridimensionamento  della  propria visibilità  telematica,  difatti,  rappresenta  un  aspetto  “funzionale”  del  diritto  all’identità  personale, diverso  dal  diritto  ad  essere  dimenticato,  che  coinvolge  e  richiede  una  valutazione  di  contrapposti interessi: quello dell’individuo a non essere (più) trovato on  linee  quello  del  motore  di  ricerca  (nel senso poco sopra specificato).

Orbene,  se  tutto  ciò  vale  per  il  caso  in  cui  un  dato  sia  vero,  ma  la  sua  conoscenza  abbia  perso  di interesse  per  la  collettività  per  la  risalenza  di  esso,  a  maggior  ragione    dovrà  porsi  nel  giudizio  di bilanciamento  una  valutazione  di supravalenza della falsità del dato in tutti i casi in cui l’interessato offra una  ragionevole (sensible) rappresentazione della  falsità allegata; bilanciamento sottratto, infine, alla  disponibilità  del  titolare  del  trattamento in tutti i casi in cui dall’interessato sia allegata prova dell’accertamento giudiziario della falsità del dato. Nelle pagine web ricorrono entrambe le fattispecie menzionate>>,  p. 21.

Poi passa ad applicare questi principi al caso de quo.

Ritiene che il trattamento di G. sia illecito a partire dalla diffida inotrata dall’ineressato, tra l’altro allegando la sentenza di condanna per diffamazione: <<la convenuta avrebbe, tuttavia, dovuto procedere a trattare lecitamente i dati del ricorrente, evitando che le ricerche effettuate dagli utenti partendo dalla stringa contenente le generalità di XX dessero luogo all’elencazione dei siti sorgente contenenti le notizie la cui diffamatorietà era stata giudizialmente accertata. IL  motore di ricerca avrebbe quindi dovuto procedere in allora alla deindicizzazione dei risultati>> p. 22

Anche sul danno, naturalmente la responsaiblità rigurda l’omissione solo a partire dalla diffida.

Nulla accerta come danno patriminiale.

Liquida però euro 25.000,00 per danno morale così argomentando: <<Deve valutarsi   il   disagio   subito   da   parte   ricorrente,   e   dalla   medesima allegato,   dovuto   alla preoccupazione  conseguente  al  protrarsi  della  permanenza  in  rete  dell’abbinamento  del  proprio nominativo  alle  URL  riportanti  le  notizie  diffamatorie  in  esito  al  rifiuto  opposto  da  Google  LLC. L’assenza di puntualizzazioni difensive in ordine ad un eventuale scarto qualitativo differenziante la sofferenza patita sin dall’origine della diffusione in rete dell’associazione diffamatoria dei propri dati da  quella  sopportata  in  progressione  in  esito  al  rifiuto  ricevuto,  impone  al  giudicante  di  attenersi,  nel computi di base, ad una liquidazione per equivalente attestata su valori contenuti. D’altro  canto,  non  può  il  Tribunale  non  tenere  conto  nella  liquidazione  del  danno  della  risposta derisoria opposta da Google LLC alle richieste di cancellazione dell’interessato; la società aveva infatti motivato il proprio rifiuto affermando che le notizie attingevano la vita professionale del richiedente e che oggetto di esse era un “reato”, con ciò incorrendo in una (voluta?) confusione tra autore e vittima del delitto di diffamazione, ovvero pretermettendo la sussistenza di un provvedimento della A.G. con la quale si affermava la falsità delle notizie attribuenti il coinvolgimento di XX  in gravi fatti di reato; si legge, infatti,  nella nota del 13.12.2017 inviata al difensore dalla odierna resistente che “In merito  alle  seguenti  URL” –e compariva l’elenco di cui al ricorso –“si  riferiscono  al  contenuto riguardante  la  vita  professionale  del  suo  cliente  di  sostanziale  interesse  pubblico…  potrebbero interessare  potenziali  e  attuali  consumatori,  utenti  o  fruitori  dei  servizi  del  suo  cliente… Pertanto la presenza di questo contenuto nei nostri risultati di ricerca … è giustificato dall’interesse pubblico ad averne accesso” (cfr doc. 6 ric.).>> p. 24-25

Sulla legittimazione passiva dell’amministratore condominiale

La domanda di risarcimento danni provnienti da negligente manutenzione delle cose comuini può essere rivolta verso l’amminstratore solamente? cioè costui ha legittimazione passiva (e dunque può eventualmente anche proporre impugnazione)?

La risposta è positiva per Cass. 29.01.2021 n. 2127, Finrami srl c. Cond. Monti Maggiò, est. Scarpa, visto che l’art. 1130 n. 4 gli attribuisce il compito di conservare le parti comuni .

<<Corretta è la statuizione della Corte d’appello secondo cui sussiste la legittimazione passiva dell’amministratore (e quindi anche quella a proporre impugnazione avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio), senza necessità di autorizzazione dell’assemblea a costituirsi nel giudizio, rispetto alla controversia relativa alla domanda di risarcimento dei danni che siano derivati al singolo condomino o a terzi per difetto di manutenzione di un bene condominiale, essendo l’amministratore comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1130 c.c., n. 4>>.

Il Collegio intende, invero, dare seguito all’orientamento interpretativo secondo cui <<il potere – dovere di “compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio”, attribuito all’amministratore di condominio dall’art. 1130, n. 4, c.c., implica in capo allo stesso la correlata autonoma legittimazione processuale attiva e passiva, ex art. 1131 c.p.c., in ordine alle controversie in materia di risarcimento dei danni, qualora l’istanza appaia connessa o conseguenziale, appunto, alla conservazione delle cose comuni (Cass. Sez. 2, 22/10/1998, n. 10474; Cass. Sez. 2, 18/06/1996, n. 5613; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3366; Cass. Sez. 2, 22/04/1974, n. 1154; cfr. anche Cass. Sez. 2, 15/07/2002, n. 10233; Cass. Sez. 3, 21/02/2006, n. 3676; Cass. Sez. 2, 21/12/2006, n. 27447; Cass. Sez. 3, 25/08/2014, n. 18168; Cass. Sez. U, 10/05/2016, n. 9449).>>.

Nulla da osservare: affermazione logica e persuasiva.

Di conseguenza la clausola difforme del regolamento condominiale, prosegue la SC, è inefficace.

Anche qui nulla da obiettare, se non che la SC poteva specificare il tipo di inefficacia: quella data dalla nullità per violazione di norma imperativa.