Sfruttamento della notorietà altrui (dopo la cessazione del rapporto contrattuale): un esempio “da manuale” (sul caso Canalis)

Il Tribunale di Milano nello scorso giugno ha deciso sulla lite promossa da Elisabetta Canalis e dal concessionario per lo sfruttamento dei suoi diritti d’immagine (tale Lidia Corp.[-oration?], società di diritto statunitense) nei confronti della società, produttrice di biancheria intima, con cui aveva stipulato un contratto di sfruttamento della propria immagine e del proprio nome (Trib. MI , sez. specializzata in materia di impresa A, 06.06.2018 , sentenza n. 6355/2018, RG 25844/2018).

La durata del rapporto era stata fissata in tredici mesi (1 marzo 2013 – 31 marzo 2014).

Secondo la sig.ra Canalis, attrice in causa, la controparte aveva continuato a sfruttare la sua notorietà anche dopo la cessazione del rapporto,  caricandone  (o mantenendo) alcune fotografie e video sul sito aziendale .

Il Tribunale ha accolto le domande della sig.ra Canalis .

Propongo alcuni passaggi interessanti del provvedimento. Il Tribunale:

  1. ha utilizzato come prova (compreso il profilo temporale, naturalmente, decisivo in causa) alcune pagine del sito della convenuta, estratte dal servizio wayback machine di archive.org (§ 1);
  2. ha inserito in sentenza (era ora che qualche giudice iniziasse a farlo) immagini tratte del sito della convenuta, ritenute pertinenti e probanti;
  3. circa la natura dell’illecito, ha affermato la violazione (p. 8):
    1. dell’art. 2043 cod. civ.;
    2. dell’art. 10 cod. civ.;
    3. degli artt. 96 e 97 l. autore;
    4. degli artt. 6, 7 e 9 cod. civ.  e dell’art. 8 co. 3 d. lgs. 30/2005 cod. propr. ind. (circa lo pseudonimo “ELI”);
  4. ha fatto assistere l’inibitoria da una penale di € 5.000,00 per ogni giorno di ritardo per rimozioni e cessazione e da una di € 50,00 per ogni prodotto immesso in comercio in violazione (p.9);
  5. sul danno patrimoniale, ha ritenuto che <<il risarcimento vada commisurato non solo all’importo che il titolare del diritto e il licenziatario avevano concordato in normali condizioni di mercato, bensì nell’importo che avrebbero concordato ad illecito già accertato, quando quindi il titolare del diritto – nello scenario ipotetico funzionale alla liquidazione equitativa – concederebbe lo sfruttamento a fronte di un diritto ormai violato: contesto in cui il prezzo è ragionevole ritenere sarebbe stato maggiore rispetto a quello determinato nelle ordinarie condizioni di mercato, perché necessario, appunto, funzionale a fra si che il titolare rilasciasse ex post il proprio consenso allo sfruttamento del diritto>> e accertato che lo sfruttamento illecito è durato per circa un anno , il Tribunale ha applicato il criterio del c.d. giusto prezzo del consenso, concretizzandolo in un importo di poco superiore a quello pattuito nel contratto (€ 120.000,00), oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data [di inizio] dell’evento lesivo (p. 10);
  6. ha liquidato il danno non patrimoniale in € 30.000,00 : un quarto di quello patrimoniale. 

 Sarebbe interessante approfondire in linea teorica il rapporto reciproco (cioè la cumulabilità processuale) tra le azioni basate su ciascuna delle norme citate al punto 3 (soprattutto di quelle da 1 a 3 del punto 3)

Il marchio “BIG MAC” di McDonald’s è stato annullato per mancato uso quinquennale

Su istanza della irlandese Supermac’s di Galway,  titolare -sembra- di una catena di fast food dislocati per l’intera Irlanda, l’ufficio europeo EUIPO ha annullato (rectius: ha dichiarato decaduto: v. dopo; in inglese revoked) per mancato uso quinquennale il marchio denominativo << BIG MAC >> , di cui era titolare il gigante statunitense McDonald’s.

La norma applicata è stata quella di cui all’art. 58 del reg. (UE) 2017/1001 del 14 giugno 2017 sul marchio dell’Unione europea (la nostra norma nazionale corrispondente è l’art. 24 co. 1  cod. propr. ind. , d. lgs. 30 / 2005).

Il marchio era stato inizialmente registrato il 22 dicembre 1998 e l’istanza di annullamento era stata depositata l’11 aprile 2017: quindi McDonald’s avrebbe dovuto il provare l’uso effettivo (genuine, in inglese) nei 5 anni anteriori e cioè dall’ 11 aprile 2012 fino al 10 aprile 2017.

L’istanza dell’impresa irlandese ha riguiardato tutti i prodotti e servizi coperti dalla registrazione:

<< Class 29: Foods prepared from meat, pork, fish and poultry products, meat sandwiches, fish sandwiches, pork sandwiches, chicken sandwiches, preserved and cooked fruits and vegetables, eggs, cheese, milk, milk preparations, pickles, desserts.

Class 30: Edible sandwiches, meat sandwiches, pork sandwiches, fish sandwiches, chicken sandwiches, biscuits, bread, cakes, cookies, chocolate, coffee, coffee substitutes, tea, mustard, oatmeal, pastries, sauces, seasonings, sugar.

Class 42: Services rendered or associated with operating and franchising restaurants and other establishments or facilities engaged in providing food and drink prepared for consumption and for drive- through facilities; preparation of carry-out foods; the designing of such restaurants, establishments and facilities for others; construction planning and construction consulting for restaurants for others.>>

La parte più interessante della decisione è quella inerente la qualità del materiale istruttorio offerto da McDonald’s: è opportuno che imprese e  loro  consulenti la tengano ben presente.

A dispetto della grandissima notorietà del segno distintivo, l’Ufficio (Cancellation Division) ha ritenuto il materiale probatorio/documentale insufficiente a provare l’uso effettivo in quanto o di provenienza interna a McDonald’s, e quindi poco persuasivo, oppure non comprovante l’uso effettivo in termini di dimensioni dell’uso stesso (quante vendite, a chi, dove …). 

Altro aspetto interessante è stato il cenno alla presenza su Wikipedia. Le  voci ivi presenti non sono state considerata fonte affidabile di informazione, poiché, potendo essere corrette dagli utenti di Wikipedia,  vanno considerate rilevanti solo se sostenute da altre prove indipendenti .

La decadenza ha effetto a partire dalla data dell’istanza e cioè dal 11 aprile 2017 e concerne il marchio per intero (in its entirety).

Il provvedimento di decadenza, titolato Cancellation No 14 788 C, è stato emesso dalla Sezione di Annullamento (Cancellation Division) in data 11.01.2019  e riguarda il marchio n° 62638; è leggibile quiqui oppure può essere cercato nel database dei cases dell’EUIPO, che porta alla seguente scheda.

McDonalds ha ora due mesi di tempo per ricorrere, ai sensi dell’art. 68 del reg. medesimo (sempre in via amministrativa) , per poi eventualmente adire il Tribunale della Corte di Giustizia UE (art. 72)

Infine, può essere di interesse vedere, da un lato, quanti marchi esistono contenenti  le parole Big Mac (o solo Mac, che non è detto abbia il medesimo valore distintivo) e, dall’altro, di quanti ne sia titolare McDonald’s: basta una ricerca in altro data base dell’EUIPO.  

Questioni di governance nelle società quotate: clausola simul stabunt simul cadent, abusività delle dimissioni dei consiglieri e impugnabilità delle delibere del collegio sindacale

I media hanno dato risalto ad un provvedimento cautelare del 24 aprile 2018 del tribunale di Milano concernente il contenzioso  all’interno della governance di Tim spa (cioè soprattutto tra il socio Vivendi e il socio Elliott).

E’ accaduto che -dopo una  convocazione dell’assemblea sociale per il 24 Aprile 2018- alcuni soci avessero formulato una richiesta di integrazione dell’ordine del giorno (ex art. 126 bis t.u.f.), avente ad oggetto la revoca di sei amministratori e la loro sostituzione.  Alla luce di questa istanza, detti sei amministratori più un altro (tutti di nomina Vivendi) si dimettevano “con decorrenza dal 24 aprile 2018” (non è chiara la data di invio e di ricezione dell’atto unilaterale di rinuncia), mentre un ottavo ed ultimo amminstratore (sempre di nomina Vivendi) si dimetteva con decorrenza immediata e cioè dalla chiusura dei lavori di quella di riunione consiliare.

Ciò secondo il CDA faceva scattare l’operatività della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, dato che le dimissioni avevano riguardato la maggioranza degli amministratori (otto su quindici). Pertanto il CDA, con delibera 22 marzo 2018, si asteneva dall’integrare l’agenda dei lavori assembleari del seguente 24 aprile, ritenendo “superata” la richiesta in tal senso del socio Elliott, e convocava una separata assemblea per il rinnovo totale del CDA da tenersi il successivo 4 maggio.

La clausola statutaria predetta così recita: “Ogni qualvolta la maggioranza dei componenti del CDA venga meno per qualsiasi causa o ragione, i restanti Consiglieri si intendono dimissionari e la loro cessazione ha effetto dal momento in cui il CDA è stato ricostituito per nomina assembleare

Il socio, che aveva chiesto l’integrazione dell’ordine del giorno (Elliott), non si dava per vinto e indirizzava la richiesta di integrazione al collegio sindacale (ex art. 126 bis comma 5 t.u.f., verosimilmente) , affermando l’inapplicabilità’ della clausola simul stabunt simul cadent per la <<abusività manifesta>> delle dimissioni dei consiglieri,  “in quanto volte ad impedire agli azionisti di Tim Spa il voto sulle proposte di Elliot”.

Il collegio sindacale accoglieva l’istanza e provvedeva ad integrare  l’ordine del giorno come richiesto dal socio Elliot (presumibilmente ravvisando i propri poteri sempre nel comma 5 del predetto art. 126 bis tuf , che implicitamente ma sicuramente li prevede).

A sua volta però nemmeno il CDA si dava per vinto e deliberava a maggioranza di dissociarsi dalla decisione del collegio sindacale e di intraprendere azioni legali, impugnando proprio la delibera del collegio sindacale. L’impugnazione era proposta sia dal consiglio di amministrazione che da alcuni amministratori in proprio che, infine, dal socio Vivendi

I profili di maggior rilievo riguardanti il provvedimento sono i seguenti:

1) Sulla non operatività della clausola simul stabunt simul cadent per abusività delle dimissioni – Il tribunale pare ammettere la possibilità teorica di ravvisare abusività nelle dimissioni, anche se non la ravvisa nel caso specifico. Afferma infatti che <<non  paiono ravvisabili i presupposti per configurare quale abusiva la condotta in discussione vale a dire … l’insussistenza dell’interesse per il quale è riconosciuto il diritto e il perseguimento di interessi diversi lesivi di altrui posizioni>> .

Il tribunale non dà importanza al fatto che la sostituzione parziale avrebbe comportato la votazione col sistema  maggioritario, mentre l’innesco della clausola simul stabunt simul cadent avrebbe comportato l’innesco del sistema c.d. di lista.

Per un precedente, nel quale invece è stata accertata l’abusività delle dimissioni in presenza di clausola simul stabunt simul cadent , v. Trib. Bologna sez. spec. 19.12.2017 n. 2788/2017, RG 8639/2015 (v. i sette <<elementi indiziari>> ritenuti gravi, precisi e concordanti: p. 4). Qui il giudice, però, ha concesso tutela obbligatoria, non reale. L’effetto giuridico valorizzato, infatti, è stato solo quello del risarcimento del danno per revoca priva di giusta causa, avendo ravvisato nelle dimissioni un aggiramento dell’obbligo risarcitorio ex art. 2383 co. 3 c.c. Tuttavia, se di abusività si fosse realmente trattato, avrebbe dovuto essere annullato o dichiarato nullo (o comunque espunto dal mondo giuridico) l’effetto estintivo del rapporto di amministrazione, proprio dell’atto di rinuncia combinato con la clausola statutaria. Effetto estintivo, che è invece rimasto (la statuzione giudiziale non l’ha toccato) : semplicemente, si è ad esso aggiunto l’effetto risarcitorio. Allora le dimissioni concordate, più che un abuso del relativo istituto (e della clausola statutaria), paiono da inquadrare nella figura del procedimento indiretto in frode alla legge. Infatti la predetta  norma, fonte dell’obbligo risarcitorio, va ritenuta, da un lato, imperativa ex art. 1344 c.c. e, dall’altro, applicabile anche agli atti unilaterali quali sono le dimissioni (ex art. 1324 c.c.; salvo addirittura ravvisare, anzichè atti unilaterali isolati, un complessivo concerto e quindi un contratto) . 

2) Sulla inutilità del rinnovo parziale, dovendosi provvedere al rinnovo totale del cda – Il tribunale, alla luce della non abusività delle dimissioni e quindi riconoscendo l’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, condivide la tesi degli impugnanti (CdA , singoli amministratori e socio Vivendi). Secondo tale tesi, è da ritenere “superata” l’istanza di integrazione dell’ordine del giorn (volta alla sostituzione parziale del cda) , dato che si deve procedere alla sostituzione dell’intero CDA nella successiva delibera di maggio (cioè pochi giorni dopo la data dell’assemblea prima convocata). Dice infatti il Tribunale che  “tale innesco [della clausola statutaria] comporta la necessità di integrale rinnovo del cda, senza la possibilità di procedere a sostituzioni parziali interinali”.

L’affermazione è però di dubbia esattezza. Infatti, rimuovere gli amministratori con efficacia immediata, come avviene con la revoca, anziché lasciarli in carica quantomeno fino all’assemblea convocata per seconda (cioè per 11 giorni) in regime di prorogatio (che non riduce minimamente i poteri ordinari, secondo l’opinione prevalente), può fare una notevole differenza in pratica.

Questo naturalmente presuppone aver risolto in una precisa direzione la questione della data di efficacia delle dimissioni : presuppone cioè che sia esatto individuarla nella data dell’assemblea seconda convocata, anzichè della prima (o magari ancor prima: efficacia immediata?) , questione non semplicissima (v. sotto). Nella seconda ipotesi, infatti, la delibera di revoca di chi è già cessato avrebbe un oggetto impossibile.

3) Sulla impugnabilità delle delibere del collegio sindacale – Altro punto importante è l’affermazione  di impugnabilità delle delibere del collegio sindacale. Pur mancando norma ad hoc , la corte milanese la afferma , seppure limitatamente  <<a specifici casi eccezionali rispetto alle normali manifestazioni del potere di controllo, produttive di effetti diretti rispetto alla organizzazione societaria ovvero rispetto alla posizione di singoli soci>>.  Questo tipo di delibere, infatti, avendo [eccezionalmente] “un contenuto propriamente gestorio”, non potrebbero sottrarsi alla regola generale della impugnabilità.

Sorge allora il problema di capire chi vi sia legittimato. Il Tribunale afferma la legittimazione in capo sia al consiglio di amministrazione, che ai suoi membri [individualmente],  che al socio Vivendi. In particolare l’impugnabilità del socio viene affermata ravvisando la lesività di un suo diritto ex art. 2388 penult. co. c.c., ritenuto applicabile al caso sub iudice. La lesività della delibera sindacale concernerebbe “l’esercizio del proprio diritto di voto in tema di nomina degli amministratori secondo il metodo di lista, previsto per il caso di rinnovo dell’intero CDA, esercizio che, sempre secondo l’attrice, sarebbe appunto impedito dalla delibera impugnata, indebitamente ammissiva di un odg assembleare invece comportante la sostituzione di una parte degli amministratori con il metodo maggioritario”.

Sì osservi che la rilevanza del  cambio di metodo di votazione viene riconosciuta a quest’ultimo proposito (legittimazione del socio Vivendi ad impugnare la delibera sindacale), mentre viene disconosciuta in relazione alla abusività delle dimissioni consiliari allegata da Elliott (come accennato sopra).

4) Sulla data di decorrenza della cessazione dalla carica –  Altra questione importante è quella della individuazione della data di decorrenza della cessazione degli amministratori, sia dei dimissionari (dimissionari “diretti”) che di quelli rimanenti, i quali però cessano per l’efficacia riflessa prodotta dal congiunto operare delle dimissioni dei primi e del patto  simul stabunt simul cadent (dimissionari “di riflesso”).

È curioso che i dimissionari “diretti” abbiano indicato una data di decorrenza delle proprie dimissioni e l’abbiano indicata in quella della prima assemblea cioè del 24 aprile , quando :  da un lato essi non hanno certo il potere di scegliere la data di decorrenza (dipendendo dalla disciplina legale o statutaria); dall’altro, il momento esatto è eventualmente quello della ricostituzione del CdA, che sarebbe dovuta in ipotesi avvenire in occasione (anzi, al fruttuoso termine) dell’assemblea del 24 aprile, più che nel giorno 24 aprile in sè.  

A parte ciò, l’importante è individuare la predetta decorrenza. Normalmente ed auspicabilmente verrà disciplinata in sede statutaria, ciò che è certamente possibile. Il problema è individuarla quando lo statuto nulla dica in proposito. La regola di legge (art. 2386 co. 4), circa gli amministratori dimissionari “di riflesso”, prevede il regime della prorogatio, toccando quindi ad essi convocare l’assemblea dei soci e provvedere alla ordinaria amministrazione. Lo statuto però può derogarvi e prevedere (v. il richiamo al comma quinto presente nel comma quarto dell’art. 2386) l’immediata cessazione di tutto il cda, provvedendo in tale caso i sindaci a convocare l’assemblea   e alla ordinaria amministrazione.

Per gli amministratori dimissionari “diretti” invece – in mancanza di regola statutaria- la soluzione potrebbe astrattamente e alternativamente porsi nell’estendere loro lo stesso regime dei dimissionari in via riflessa oppure nell’applicare il regime proprio delle dimissioni, posto dall’art. 2385 cc. E’ più persuasiva la seconda alternativa (anche se è da vedere quanto diversi sarebbero gli esiti adottando la prima). Così ragionando allora, si nota che l’art. 2385 distingue tra permanenza o meno in carica della maggioranza del cda , a seguito delle dimissioni. Ne segue che, nel caso sub iudice, ricorrendo l’ipotesi negativa, l’efficacia della rinuncia per i dimissionari “diretti” si produrrebbe a partire dalla ricostituzione della maggioranza del cda con l’accettazione dei nuovi amministratori (art. 2385 co.1 ult. parte):  il che avverrebbe nell’assemblea convocata per seconda (4 maggio 2018) e non il 24 aprile, data della assemblea inizialmente convocata e data indicata nell’atto di dimissioni.

Questo come disciplina legale di default; resta però da capire se sul punto dica qualcosa la pattuizione statutaria citata.

5) Sulla legittimità dell’intervento dei sindaci – Il loro intervento è di dubbia legittimità. L’art. 126 bis. co. 5 t.u.f. , infatti, lo prevede per il caso di “inerzia” dell’organo di amministrazione; nel caso in esame, però , il CDA non è stato inerte, ma ha esaminato e rigettato motivatamente l’istanza del socio. E’ difficile far rientrare questa condotta attivo/commissiva nel concetto di “inerzia”, che si riferisce ad una condotta passiva/omissiva.

La dottrina non ha mancato di rilevare questo profilo: lo solleva ad es. V. Pettirossi, Configurabilità e limiti del dovere di reazione dei sindaci di società per azioni, Riv. dir. comm., 2018/3, 515 ss. a p. 541, che richiama in tale senso il parere pro veritate  09.04.2018 fornito al CdA di  TIM  da prof. Portale-avv. Purpura-prof. Frigeni (§ 5 e spt. p. 21; vedilo nel sito di TIM) , sub <<Pareri legali acquisiti dal Consiglio di Amministrazione>>).

Si potrebbe forse pensare ad una estensione del concetto di “inerzia” per comprendervi pure: i) il rifiuto esternato ma non motivato; ii) il rifiuto sì motivato ma con motivazione palesemente inconsistente (e così pure, tra l’altro, per il “non provvedono” dei Sindaci, che dà titolo per adire il Tribunale, sempre nel medesimo co. 5).  L’ipotesi, però, ad una prima riflessione non è particolarmente convincente, soprattutto per il secondo caso (palese inconsistenza): ciò sia per il tenore letterale della norma, sia perchè rimarrebbe a difesa dei soci istanti l’impugnabilità della seguente delibera assembleare perchè non presa in conformità alla legge (art. 2377 c.c.; anche se -va detto- le due possibilità sono assai diverse nei rispettivi effetti pratici). Se il legislatore avesse voluto comprendere anche i due casi ipotizzati, è lecito pensare che l’avrebbe esplicitato: soprattutto tenendo conto del fatto che negli scorsi anni ci sono state più occasioni per introdurre novelle legislative sul punto (ad es. quella generale del 2003 -v. infatti l’analoga norma del’art. 2367/2 c.c. Convocazione su richiesta dei soci- e quella più settoriale del 2012, con riferimento all’art. 126 bis  t.u.f.).

Si potrebbe in ogni caso esaminare l’intepretazione del concetto di “omissione o ingiustificato ritardo” degli amministratori nel convocare l’assemblea , che fa scattare il dovere sostitutivo dei sindaci (art. 2406 c.c.). Quello qui esaminato, in fondo, ne è un’applicazione.

6) è strano che nessuno abbia impugnato la delibera del CDA 22.03.2018, come ci si sarebbe aspettati.

appalti: la difettosa insonorizzazione costituisce “grave difetto” ex art. 1669 c.c. (nonchè sulla decorrenza del termine per la denuncia del vizio)

Secondo il Tribunale di Padova (pronuncia del 19.06.2018, est. Saturni, leggibile in www.ilcaso.it, doc. 21040 ) il difetto di insonorizzazione costituisce <<grave difetto>> ai sensi dell’art. 1669 cc e diventa quindi fonte della relativa responsabilità decennale.

Il giudice affronta specificamente la questione ai §§ 2.1 e 2.2, pagg. 10-12

Il punto non è per vero discutibile; tuttavia l’affermazione giudiziale è utile, in tempi di costruzioni immobiliari poco curate sotto questo aspetto.

Anche se il giudice scrive di “mancata insonorizzazione”, il principio è estendibile anche al caso in cui l’insonorizzazione non è assente ma solamente insufficiente: ciò sempre che la insufficienza superi una soglia de minims, che però va collocata molto in basso. Ci pare infatti che basti anche un difetto modesto per integrare il presupposto del “grave difetto” richiesto dall’art. 1669 (l’apparente bisticcio lessicale non costituisce contraddizione concettuale, si badi)

Quanto al termine annuale per la denuncia del vizio (questione assai rilevante nella pratica), il Tribunale condivisibilmente afferma che decorre da quando la parte ha <<sicura conoscenza>> del difetto e della sua causa : cioè -in mancanza di altri elementi- solo a partire dall’atto di acquisizione di perizia specialistica (nel caso: da quando l’architetto, incaricato come consulente di parte, dimise la propria perizia ante causam).

Analogamente v. sul punto il sintetico passaggio di Cass.  07/02/2019, n. 3674: <<Per costante giurisprudenza di questa Corte, i gravi difetti che, ai sensi dell’art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti dei committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura. A tal fine, rilevano pure vizi non totalmente impeditivi dell’uso dell’immobile, come quelli relativi all’efficienza dell’impianto idrico o alla presenza di infiltrazioni e umidità, ancorchè incidenti soltanto su parti comuni dell’edificio e non sulle singole proprietà dei condomini (v. tra le tante, Sez. 2 -, Ordinanza n. 24230 del 04/10/2018 Rv. 650645; Sez. 2 -, Ordinanza n. 27315 del 17/11/2017 Rv. 646078; Sez. 2, Sentenza n. 84 del 03/01/2013 Rv. 624395). Sempre secondo la costante giurisprudenza di legittimità, però, il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c., a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (v. Sez. 2 -, Sentenza n. 10048 del 24/04/2018 Rv. 648162; Sez. 3, Sentenza n. 9966 del 08/05/2014 Rv. 630635; Sez. 2, Sentenza n. 1463 del 23/01/2008 Rv. 601284; Sez. 2, Sentenza n. 11740 del 01/08/2003 Rv. 565596)>>.

Con l’occasione ricordo che l’art. 1669 si applica non solo alle costruzioni originarie, ma anche alle successive ristrutturazioni, come da dettagliato insegnamento offerto dalle sezioni unite nel 2017 (Cass. sez. un. 27.03.2017 n. 7756). Questo è il principio di diritto formulato nell’occasione: Lart. 1669 c.c., è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o  modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di questultimo.

La Cassazione torna sull’onere della prova nella responsabilità medica

Secondo Cass. 13.07.2018 n .18549, est.: Porreca , <<nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente danneggiato dimostrare con qualsiasi mezzo di prova l’esistenza del nesso di causalità  -secondo il criterio del <<più probabile che non>>- tra la condotta del medico e il pregiudizio di cui si chiede il ristoro : con la conseguenza che -ove al termine dell’istruttoria il suddetto nesso non risulti provato- la domanda va rigettata<< (massima de Il Foro It., 2018/11, I, 3570)

Si leggono alcune considerazioni interessanti nel § 2

  1. Nei giudizi di risarcimento contrattuale e anche extracontrattuale, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sì che la sussistenza della prima non comporta di per sè la dimostrazione del secondo e viceversa.
  2. L’articolo 1218  solleva il creditore dell’obbligazione, che si afferma non adempiuta, dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra condotta debitoria e danno chiesto in risarcimento.
  3. Infatti :
    1. la previsione dell’articolo 1218 si giustifica nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente l’onere della prova positiva dell’avvenuto adempimento , sulla base del criterio della maggiore vicinanza   alla prova, secondo cui va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla;
    2. questa maggior vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale, per il quale dunque non ha ragion d’essere l’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 1218;
    3. ciò vale sia con riferimento al nesso causale materiale sia in relazione al nesso causale giuridico,
    4. trattandosi di elementi egualmente distanti da entrambe le parti (anzi -circa il secondo- maggiormente vicini al danneggiato),  non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una prova liberatoria rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento;
    5. nè può valere in senso contrario il riferimento dell’art. 1218 alla causa non imputabile ( “(…) se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”). Infatti, come già affermato da Cass. 26.07.2017 n. 18.392, la causa in questione attiene alla non imputabilità della impossibilità di adempiere, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituente <<tema di prova della parte debitrice>>, e concerne un ciclo causale che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto [segue la teoria del doppio ciclo causale introdotto dalla cit. Cass. , est. Scoditti, i cui passaggi essenziali sul punto riporto nel mio post 4 dicembre u.s.]
    6. ciò non contrasta con Cass. sez. un. 11.01.2008 n. 577 [la quale secondo molta dottrina è stata la prima ad introdurre la presunzione del nesso di causalità, onerando il debitore -cioè il medico- di provarne l’eventuale assenza] : in tale decisione infatti il principio era stato affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento qualificato, allegato dall’attore, era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi più probabili nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’articolo 2697 secondo comma, e non la prova liberatoria richiesta dall’articolo 1218.

potere-dovere degli amministratori ad impugnare delibera invalida ma approvata alla unanimità

Anche se approvata dai soci all’unanimità, gli amministratori hanno il potere-dovere di impugnare la delibera invalida, alla luce dell’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria (Trib. Roma 26.06.2018, sez. specializz. in m. di i., RG 74636/2015, rel. Guido Romano).

La sentenza riguarda una s.r.l. ma il ragionamento può essere applicato pure ad una s.p.a.

 

legittimazione degli amministratori ad impugnare delibera approvata alla unanimità

Anche se approvata dai soci all’unanimità, gli amministratori hanno il potere-dovere di impugnare la delibera invalida, alla luce dell’esigenza di tutela dell’interesse generale alla legalità societaria (Trib. Roma 26.06.2018, sez. specializz. in m. di i., RG 74636/2015, rel. Guido Romano).

La sentenza riguarda una s.r.l. ma il ragionamento può essere applicato pure ad una s.p.a.

diritto esclusivo sulla propria voce

Nessuno può utilizzare (commercialmente?) la voce di un altro soggetto al di là di quanto da questi consentito.

Sulla base di questo assunto , la donna, che ha prestato la voce a SIRI (l’assistente intelligente di Apple) per la lingua ebraica, ha citato in giudizio Apple, sostenendo che la sua voce è stata utilizzata in modi non consentiti. In particolare ella aveva acconsentito solo ad utilizzi per “legitimate purposes”, mentre Apple l’avrebbe utilizzata << for saying racist, violent and sexual things >> .

Se la voce è tale da far riconoscere la persona (ha cioè efficacia identificante), l’eventuale violazione della pattuizione permetterà alla persona di far valere anche il diritto (assoluto) della personalità, oltre al contratto (da vedere come coordinare le due pretese). Se invece non è tale da determinarne la riconoscibilità, potrà essere azionato solo il contratto.

La richiesta di compensazione ammmonta a $ 66.000,00.

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Doveri dei sindaci di società quotate : non possono limitarsi a fare affidamento sulle risultanze dei controlli interni (anche se anteriori all’assunzione dell’incarico)

Corte di Cassazione, sentenza n° 32574 del 17.12.2018, Ponzellini c. Consob (a seguito di impugnazione delle sanzioni irrogate da CONSOB; leggibile nel sito della Corte di Cassazione ) :

A)  sul terzo motivo di ricorso  (violazione dell’art. 149 co. 1 lettere a)-b), T.U.F.,  in relazione alla disciplina del divieto di conflitto di interessi di cui all’articolo 2391 c.c.) : dice la Corte che la norma sul conflitto di interessi ha portata applicativa generale e prescinde dalle effettive incidenza del conflitto di interessi sulle delibere in concreto assunte dal consiglio di amministrazione. La norma del c.c. “si ispira alla ratio di assicurare l’esplicitazione di tutti i profili di possibile conflitto di interessi riconnessi a specifiche operazioni della società, a prescindere dalla effettiva incidenza del conflitto sui processi   deliberativi interni al CDA”.

B ) sul quarto motivo di ricorso (violazione del 149 co. 1 lett. a) b) c) T.U.F. , in relazione all’articolo 2407 c.c.) – la tesi difensiva era quella per cui il collegio sindacale non aveva doveri di attivarsi in relazione a specifiche operazioni, laddove i) queste siano state già oggetto di verifica da parte degli organi di controllo interno ed inoltre, laddove ii) il sindaco sia entrato in carica dopo i fatti contestati e dopo le varie procedure di controllo interno.

La tesi viene respinta. La S.C. richiama e riafferma quanto statuito da Cass. 20934 del 2009: “la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione o anche l’ affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale i quali in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functionem”. Inoltre il collegio richiama altra Cassazione (7 marzo 2018 n° 5357), secondo cui è “insufficiente il controllo del comitato interno, che è volto alla verifica del contenuto economico dell’operazione” : sicchè la responsabilità dei sindaci c’è anche per operazioni in (potenziale) conflitto di interesse realizzate al di fuori dell’oggetto sociale, a prescindere dal controllo interno predetto.  La Corte dice espressamente che “ a nulla rileva pertanto il fatto che le singole operazioni siano stati oggetto di verifiche interne alla società”. Infatti la funzione del collegio sindacale “si estrinseca nel controllo del regolare svolgimento della gestione della società, posto che il dovere di vigilanza e di controllo imposto ai sindaci delle società per azioni ex art. 2403 cc non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si estende a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali. (..) Nelle società quotate tale dovere si fa ancora più stringente, in vista della funzione di garanzia dell’equilibrio del mercato”. Il che “si ricollega alla funzione di garanzia che i vari organismi di controllo sono deputati a svolgere (…) Tali organismi di controllo, a partire da quelli deputati al controllo interno aziendale, fino alle società di revisione dei conti e al collegio sindacale, sono investiti di un compito di costante verifica della corrispondenza dei meccanismi di gestione della società al paradigma della concreta corretta amministrazione così come definito dalla scienza della economia aziendale” . Quindi la corretta applicazione di questi principi “impone di ritenere esistente (..) la responsabilità dei sindaci proprio valorizzando l’elemento relativo alla presenza di una serie di verifiche interne alla società già attivate , tra il 2007 e il 2012, dagli organi di controllo interno. Il ricorrente Infatti, divenuto membro del collegio sindacale il 18.9.2012, avrebbe potuto conoscere detti rilievi interni , quantomeno (procedendo a ritroso) attraverso la presa visione delle relazioni della Funzione Audit del 2012, del giugno 2010, del dicembre 2009, del novembre 2008 (..)  ed avrebbe dovuto attivarsi conseguentemente per le opportune segnalazioni a Consob, non essendo -come detto- sufficiente il fatto che detti rilievi fossero stati sollevati nell’ambito della cosiddetta catena di controllo interno della società”.

Nessuna stranezza,  parrebbe, nella decisione della questione sub B).

La vicenda infatti ricorda l’insegnamento offerto (in tema di responsabilità degli amministratori, ma ugualmente applicabile) da Cass. 07/05/2015, n. 9193, secondo cui: “L’amministratore che, succedendo ad altri nella gestione di una società affetta da gravi irregolarità, ometta d’informarne l’assemblea dei soci e di adottare i provvedimenti necessari per il ripristino di una corretta amministrazione, è responsabile non già  dell’attività dei precedenti amministratori, ma della propria colpevole omissione. La predetta responsabilità, peraltro, non può ritenersi esclusa dalla circostanza che i bilanci redatti dai precedenti amministratori avessero riportato il giudizio positivo della società di revisione, in quanto, indipendentemente dall’eventuale responsabilità di quest’ultima verso i soci ed i terzi, la tenuta della contabilità e la formazione del bilancio restano pur sempre attività proprie degli amministratori, i quali debbono provvedervi nel rispetto delle norme di legge e con la diligenza richiesta dalle funzioni esercitate, senza confidare acriticamente nell’operato di terzi, sulla cui attività sono anzi tenuti a vigilare, anche quando gli adempimenti demandati a tali soggetti trovino giustificazione nel possesso di particolari competenze tecniche” (in Pluris – Wolters Kluwer, che lo cita come fonte: Fisco, 2015, 21, 2097)

Il che varrà a maggior ragione nel caso de quo ove, par di capire, erano stati in passato sollevati dei “rilievi” da parte degli organi di controllo interno: rilievi che i sindaci hanno ritenuto bastanti, ma che la S.C. ha ritenuto insufficienti.