Concorrenza sleale verso Amazon per recensioni fasulle e prezzolate

Provvedimento cautelare interessante, anche non del tutto condivisibile, quello emesso da Trib. Milano sez. impr., ord., 21 marzo 2024, giudice Dal Moro (menzionato in molti siti; testo preso da Foro Italiano-News), Amazon EU sarl+1 c. DP.

La cautela inibitoria si basa su slealtà concorrenziale (art. 2598 n. 3 cc), data dalla falsità delle recensioni fatte apparire sul marketplace di Amazon in attuazione di apposito business (l’anonimato del quale e del suo sito è facilmente superabile con qualche rapida ricerca in rete e probabilmente pure dalla pubblicazione ordinata dal giudice sui siti Altroconsumo e Codacons)

In breve il soggetto pagava chi andava poi a disporre (o aveva in precedenza disposto) recensioni false su questo o quel venditore.

L’illiceità è sicura. Altrettanto non è la qualificazione come concorrenza sleale, mancando il rapporto di concorrenza.

Il Trib. opina in senso opposto: <<In secondo luogo, pare altrettanto indubitabile che l’attività economica svolta nella specie (offerta del servizio di recensione) concorra con quella medesima svolta da Amazon sul medesimo mercato, posto che quest’ultimo, come affermato anche in sede di legittimità, è identificato dalla “comunanza di clientela” da intendersi come “insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti (beni o servizi n.d.r.) che sono in grado di soddisfare quel bisogno”, e che, quindi, l’attività in concreto svolta deve identificarsi anche alla luce dell'”esito di mercato fisiologico e prevedibile”, e comprenda, perciò, servizi “affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale”.
Il “mercato dell’offerta in vendita” su cui opera Amazon si articola anche in un segmento specifico identificato nel servizio accessorio e funzionale delle recensioni dei prodotti venduti, il quale viene svolto anche dal sig. P., con strumenti che lo rendono illecito non solo perché mira a falsare la genuinità del riscontro del consumatore/ acquirente, ma anche perché si avvale in maniera subdola dello strumento che Amazon stessa utilizza per rendere detto servizio, alterandone la veridicità e l’affidabilità con conseguente grave danno all’immagine e alla reputazione della ricorrente. >>

La concorenzialità invece manca: Amazon trae ricavi dalla percentuale sui ricavi conseguiti dal venditore, non dalle recensioni, che sono solo strumentali a creare affidabilità verso il marketplace.

Nemmeno il periculum in mora pare esistere.

Dice invece di si il Trib.: <<Il Tribunale ritiene che sussista, altresì, il periculum in mora presupposto dell’emissione del richiesto provvedimento cautelare. Infatti, in assenza di un provvedimento urgente, appare fondato il timore che nell’attesa di una decisione di merito la prosecuzione di siffatta condotta illecita possa concorrere a causare pregiudizi difficilmente riparabili se non irreparabili in termini di credibilità della piattaforma di vendita on line ricorrente, considerando anche che risulta che il business illecito del P. si rivolga in modo prevalente a detta piattaforma e che stia, altresì, intensificandosi con particolare riferimento proprio alla medesima (cfr. doc. 18 e doc. 19, contenenti “screenshot” del sito (omissis), rispettivamente, alla sezione “bestsellers” in cui vengono pubblicizzati cinque pacchetti di recensioni false tre dei quali riferibili allo store Amazon, e alla sezione “nuovi arrivi” in cui vengono pubblicizzati pacchetti di recensioni false esclusivamente riferibili allo store Amazon)>>.

Che per qualche mese in più di opertività vernga irreparabilmente lesa la credibilità di Amazon, non è molto credibile. Si tenga infatti conto da un lato che una larga parte delle recensioni in rete è  di assai dubbia veridicità  e, dall’altro, che si tratta di fatto notorio (basta una rapida googlata di articoli in proposito).

L’irreparabilità poi andrebbe comunque argomentata un pò meglio.

Sul framing (oscuramento) pubblicitario di siti web altrui

Prof. Lemley su mastodon ci notjzia dell’appello del 9 circuito, Best CArpet v. Google , 11.02.2024 , No. 22-15899 .

Vedi anche la riproduzione delle pagine internet offerta da Eric Goldman, qui riprodotte

senza framing e (a dx) con framing minimo in basso

 

con il framing espanso

 

IN breve Google oscura i siti altrui dapprima con un piccolo annuncio in basso e poi, se l’utente lo clicca, in grande oscurando buona parte dello schermo.

Il danneggiato aziona la trespass to chattels (tra la nostra azione possessoria di manutenzione e la negatoria proprietaria  ex art. 949 cc).

Ma il 9 circuito rigetta perchè l’oggetto dell’azione di google non è costituito da “chattels” (per l’immaterialità dunque). Rigetta anche la causa petendi basata su copyright-

Caso interessante. Come sarebbe regolato da noi (a parte l’illecito aquiliano, in mancanza di contratto)? Forse da concorrenza sleale estendendo (non poco) il concetto di “rapporto di concorrenza”, altrimenti assente?

Concorrenza sleale per storno dei dipendenti

Sul sempre difficile (teoricmente e praticamente) tema in oggetto, v. Trib. Bologna  n° 1033/2023 del 16 maggio 2023, RG 12327/2018, rel,. Erede:

<<Al riguardo, si rileva in linea teorica che, affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui.
In questi casi, ricorre un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda, in quanto la mobilità dei dipendenti corrisponde sia al diritto del lavoratore di migliorare la propria posizione professionale, sia al diritto dell’imprenditore di organizzare al meglio la propria azienda, in modo efficiente e produttivo, attingendo alle migliori professionalità presenti sul mercato.
La giurisprudenza di legittimità ha in proposito affermato, in più occasioni, che lo storno deve essere caratterizzato dall’ “animus nocendi”, che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga – attraverso il trasferimento dei dipendenti – di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Il giudizio di difformità dello storno dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell’imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative (tra tante, Cass. civ. n. 3865 del 17.02.2020; Cass. civ. n. 31203 del 29.12.2017; Cass. civ. n. 20228 del 4.09.2013; Cass. civ. n. 13424 del 23.05.2008).
In base a questi principi, nella concreta esperienza giurisprudenziale, al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente (App. Milano 1.08.2019, n. 3393; Trib. Bologna 16.03.2016, n. 683).

Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.
Si è anche affermato che “lo storno illecito normalmente afferisce allo spostamento di più soggetti da un imprenditore ad un altro, mentre la sottrazione di un solo dipendente è considerato elemento per lo più inidoneo a predicare la contrarietà alla legge” (Trib. Milano 19.09.2014, n. 11082).
Nel caso di specie, non si ravvisano nelle condotte dei convenuti modalità tali da indurre a riconoscere la volontà degli stessi di danneggiare l’organizzazione dell’impresa concorrente. In disparte la carenza di un rapporto diretto di concorrenzialità tra i convenuti dipendenti persone fisiche e COROB, si osserva che parte attrice non ha allegato e provato alcuna circostanza utile a far ritenere la sussistenza del rapporto di solidarietà dei convenuti ex dipendenti con ALFA in punto di responsabilità nei confronti di COROB, limitandosi a generiche allegazione rimaste sfornite di adeguata prova. Inoltre non può non rilevarsi come nella vicenda in esame alcuna concreta allegazione e prova parte attrice abbia fornito in ordine alla sussistenza di un intento di ALFA di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva della concorrente COROB, quale elemento soggettivo dell’illecito concorrenziale. Si richiama sul punto quel consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. che anche di recente ha affermato che “Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.”( così Cass. n. 3865/2020; conf. più di recente Cass. n. 22625/2022).
In disparte il dato che la contestazione dell’illecito concorrenziale per “storno dei
dipendenti” mossa da COROB non possa riguardare singole persone fisiche, quali ABELLI LUNGHINI, SOLERA e VERONESI e MAZZALVERI -legati a COROB da rapporto di dipendenza e/o collaborazione- non sono essi stessi imprenditori concorrenti e quindi non possono essere soggetti attivi dell’illecito stesso, deve rilevarsi che, con riguardo al MAZZALVERI, lo stesso all’atto della cessazione del suo rapporto di lavoro subordinato con COROB, a seguito di accordo risolutorio (v. doc. 24 allegato alla citazione), ha sottoscritto contestuale contratto di collaborazione con la stessa società ( v. doc. 25 allegato alla citazione), con esclusione di qualsiasi risvolto negativo per COROB.

Peraltro, va pure evidenziato come l’esiguo numero dei dipendenti stornati, in rapporto al numero complessivo dei dipendenti di COROB (119 dipendenti al 31.12.2017, come da visura prodotta dall’attrice sub doc. 1) per quanto specializzati possano essere, certamente non può determinare quella disgregazione traumatica dell’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore COROB, cosi come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori.
Alla luce delle considerazioni che precedono, quindi, alcuna tutela inibitoria e risarcitoria può accordarsi in questa sede a COROB, così come vanno disattese le pretese sanzionatorie della stessa attrice>>.

Nell’incertezza sul tema, certo è che l’animus nocendi non può provarsi che in temini oggettivi, giammai psicologico/soggettivi.

Inoltre ricorda la figura dell’abuso del diritto: che ricorre quando un vantaggio per il preteso violatore non c’è per nulla (da tutti ammesso) o c’è ma in misura minima (controverso; da vedere poi come rendere il relativo giudizio e cioè quale ne sarebbe il parametro: ha senso paragonare il vantaggio al danno provocato?).

Va segnalata pure  un’applicazone (con rigetto) della disciplina dei segreti commerciali, art.- 98 cpi

E’ concorrenza sleale (ex art. 2598 n. 3 c.c.) proporre ai clienti del concorrente un’offerta reticente ed omissiva

 Trib.  Milano n. 3038/2023 del 17.04.2023, RG 40547/2023, rel.  Fazzini, Iliad c.  Vodafone:

<<All’interno di questo ambito, si deve ritenere che, nel caso di specie, Vodafone Italia Spa ha utilizzato sms o altre comunicazioni, caratterizzate da un messaggio pubblicitario che utilizza il prezzo come strumento di concorrenza, senza che, però, fosse stato evidenziato in maniera adeguata il prezzo complessivo, ovvero tutte le voci di prezzo o costo del servizio, essendo state omesse alcune singole componenti, quali i costi della SIM, di attivazione, etc. È evidente che tale comportamento non sia conforme alle regole della lecita concorrenza, atteso che l’utente non era stato messo nelle condizioni di effettuare una valutazione corretta nel formare un primo convincimento prima della sottoscrizione del contratto, con conseguenze negative anche al fine della scelta di un gestore piuttosto che un altro. Così come strutturati i messaggi, il tribunale ritiene che non ci fossero elementi per poter ritenere che il potenziale utente potesse supporre che accedendo al servizio avrebbe dovuto affrontare ulteriori costi iniziali rispetto a quelli già indicati. Si osserva, infatti che, dato che l’offerta esplicitava un costo periodico mensile nel caso in cui l’utente fosse voluto tornare a Vodafone o passare a tale società, senza alcun ulteriore riferimento a informazioni o a costi aggiuntivi, anche attraverso un richiamo a un sito internet, allo stato, non sussistono elementi perché esso avrebbe potuto intendere che l’offerta presupponeva invece anche un addebito di un costo iniziale, essendo evidente che esso aveva percepito l’offerta, in sostanza, come una sorta di abbonamento senza costo di attivazione, proprio per invogliare il cliente a ritornare sulle proprie scelte, o in cui gli eventuali costi iniziali erano stati assorbiti nel pagamento del canone fisso.
Rilevante a tale riguardo è anche la circostanza pacifica che per tali condotte Vodafone Italia Spa sia stata sanzionata dall’AGCM con provvedimento del 6.12.2019. In ordine alla rilevanza probatoria di tale provvedimento, si osserva che, benché non sia condivisibile quanto asserito da parte attrice in ordine a un suo valore probatorio privilegiato, essendo circostanza pacifica che tale provvedimento è stato oggetto di impugnazione davanti al TAR, con la conseguenza che, allo stato, esso non ha alcun specifico valore di carattere decisorio definitivo, alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 3640/2009; Cass. 5941/2011; Cass. 5942/2011), è evidente che comunque esso abbia un valore indiziario a favore della tesi di parte attrice ai fini della individuazione di un comportamento di concorrenza sleale>>.

Nessuna  liquidazione di danno, però:

<<In considerazione di ciò, il Collegio ritiene che sia evidente che, allo stato, non sussiste alcuna prova in ordine al fatto che i messaggi in questione siano stati diretti ai clienti Iliad e in quale misura e se essi abbiano determinato questi ultimi a scegliere di tornare al vecchio operatore Vodafone piuttosto che proseguire con il nuovo operatore, elemento necessario al fine di provare la sussistenza del danno eventualmente causato.     In un contesto del genere e in un mercato caratterizzato da una pluralità di operatori (e non solo dai due, parti nel presente giudizio), il tribunale ritiene che non sia possibile stabilire se e in quale misura gli utenti, se informati correttamente sui costi effettivamente applicati al momento del ricevimento del messaggio, sarebbero rimasti con il nuovo operatore Iliad. Si evidenzia, peraltro, che l’eventuale passaggio da un operatore all’altro non si realizza al momento della recezione del messaggio, ma solo a seguito della sottoscrizione di un contratto, in cui l’utente viene informato dei costi effettivamente applicati.
Alla luce di tale motivazione, non può essere accolta la richiesta di rimessione in termini proposta da Iliad per il deposito della documentazione reperita a seguito dell’accesso integrale degli atti del procedimento AGCM, essendo essa irrilevante ai fini del decidere, con conseguente stralcio dei documenti di cui è stato autorizzato il deposito in data 18.02.2022 e di quelli depositati da parte attrice all’udienza di precisazione delle conclusioni del 17.05.2022>>.

Rigettata pure la domanda di  concorrenza skleale per ritartdato trasferimento del numero in base alla discipliona della number portabilility.

Circa  la  pubblicazione della setenzna:

<<Si osserva, infatti, in particolare, alla luce dei principi espressi dalla Suprema Corte, che la pubblicazione in uno o più giornali della sentenza, che accerti atti di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2600 c.c., costituisce una misura discrezionale non collegata all’accertamento del danno, trattandosi di una sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso (cfr. Cass. 11362/2022), potendo essere disposta anche dopo che il concorrente abbia cessato la propria attività (cfr. Corte d’Appello di Milano, 14.04.2011).

Alla luce di ciò, il tribunale ordina la pubblicazione della sentenza (intestazione + dispositivo) a spese di Vodafone Spa entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, per una volta, a caratteri doppi del normale e con i nomi delle parti in grassetto, sul quotidiano il “Sole 24 ore”, con facoltà, per parte attrice di provvedervi direttamente in caso di inottemperanza della parte convenuta, recuperando successivamente le relative spese (cfr. Tribunale di Milano, sent. n. 5732/2016, 9.05.2016, est. Tavassi).
Il Collegio ritiene di non dovere accogliere la richiesta di pubblicazione della sentenza mediante inserzione sul sito ufficiale di Vodafone Italia S.p.A., su tutte le pagine ufficiali di Vodafone Italia S.p.A. presenti sui social network, su lettere da inviare a tutti i canali distributivi e a tutta la grande distribuzione e distribuzione organizzata, atteso che l’interesse di parte attrice risulta, allo stato, già soddisfatto in considerazione di quanto sopra disposto in ordine alla pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della sentenza sul quotidiano il “Sole 24 Ore”>>.

Cautelare veneziano sulla tutela della DOC Prosecco contro impresa non concorrente

L’ampiezza di tutela delle DOC divini offerta dall’art. 103 reg. UE 1308/2013 è dimostrata dall’ordinanza cautelare 2 ottobre 2023, RG 8170/2023, giudice dr Doro.

Le imprese convenute non erano minimamente in concorrenza col Consorzio di tutela Prosecco (vendevano caramelle e per di più con forma sessualmente esplicita).

Riporto il passaggio più significativo sul concetto di “evocazione”:

<<L’utilizzazione della D.O.C. “Prosecco” nel prodotto oggetto di causa e nella sua pubblicità presente sul sito internet di Cold costituisce una violazione delle predette disposizioni sotto molteplici profili, giacché:
– vi è un uso della D.O.C. sia diretto sia indiretto, giacché il termine “Prosecco” è riportato più volte nella confezione e nella descrizione del prodotto presente nel sito internet di Cold;
– vi è uno sfruttamento indebito della D.O.C., giacché il produttore e il distributore
utilizzano la notorietà del termine “Prosecco” e si “agganciano” alla medesima al fine di garantire un successo commerciale al prodotto, che però non ha alcun legame con il prodotto tipico tutelato dalla D.O.C. e con il relativo disciplinare;
– vi è, altresì, un indebolimento della D.O.C., che normalmente viene riferita a vini di pregio e invece nel prodotto di cui è causa viene accostata a caramelle dalla forma fallica e all’organo sessuale maschile (“PERFECT FOR LOVER OF WILLIES AND PROSECCO”), ledendo gravemente l’immagine della D.O.C.;
– è irrilevante che il prodotto non sia identico o simile a quello protetto dalla D.O.C., alla luce dei principi richiamati dalla giurisprudenza sopra richiamata;
– è chiaramente idonea ad indurre in errore il pubblico dei consumatori relativamente all’origine e alle caratteristiche intrinseche del prodotto, facendo pensare che lo stesso abbia un qualche legame con il vino D.O.C. “Prosecco” o lo contenga tra gli ingredienti, quando così non è, come si evince dalla lista degli ingredienti riportata nel retro della confezione.
La condotta appare altresì integrare illecito concorrenziale per appropriazione dei pregi e per scorrettezza professionale ex art. 2598, nn. 2 e 3, c.c. e, con specifico riferimento all’ultimo punto, pubblicità ingannevole ai sensi dell’art. 2, lett. b), del D. Lgs. n. 145/2007 e pratica commerciale scorretta in quanto ingannevole ex artt. 20 e 21 del D. Lgs. n. 206/2005>>.

Qui la scorrettezza era eclatante dato che il Prosecco nemmeno figurava tra gli ingredienti.

Tra diffamazione, danno reputazionale e concorrenza sleale denigratoria

L’appello del 9° circuito No. 21-16466 del 2 giugno 2023, Enigma c. Malwarebytes decide una lite di vecchia data tra due aziende di sicurezza informatica , una delle quali aveva diffamato l’altra (designating its products as “malicious,” “threats,” and “potentially unwanted programs”)

Dal syllabo iniziale:

<<The district court primarily based the dismissal on its conclusion that Malwarebytes’s designations of Enigma’s products were “non-actionable statements of opinion.”

The panel disagreed with that assessment.

In the context of this case, the panel concluded that when a company in the computer security business describes a competitor’s software as “malicious” and a “threat” to a customer’s computer, that is more a statement of objective fact than a non-actionable opinion. It is potentially actionable under the Lanham Act provided Enigma plausibly alleges the other elements of a false advertising claim.
The district court held that the tort claims under New York law failed because Malwarebytes was not properly subject to personal jurisdiction in New York. That meant Enigma’s claim for relief under New York General Business Law (NYGBL) § 349 failed because that statute did not apply to the alleged misconduct. The panel disagreed and concluded that Malwarebytes is subject to personal jurisdiction in New York. As this action was initially filed in New York, the law of that state properly applies.
The common law claims for tortious interference with contractual relations and tortious interference with business relations were also dismissed by the district court. Those torts are recognized as actionable under California law, as they are under New York law, but the district court concluded that Enigma failed to allege essential elements for those claims under California law. The contractual relations claim failed because Enigma did not identify a specific contractual obligation with which Malwarebytes interfered. The business relations claim was dismissed because that claim required an allegation of independently wrongful conduct, and that requirement was not satisfied following the dismissal of the Lanham Act and NYGBL § 349 claims.

Because the panel held that the Lanham Act and NYGBL § 349 claims should not have been dismissed, the panel concluded that the tortious interference with business relations claim should similarly not have been dismissed. The panel agreed with the district court regarding dismissal of the claim for tortious interference with contractual relations, however, and affirmed the dismissal of that claim>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Buona nota alla sentenza nella Harvard law review.

Concorrenza sleale da parte del terzo

Cass. sez. I del 8 maggio 2023 n. 12.092, rel. Iofrida sull’annosa tradizionale questione:

<<Lamenta la ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., oltre che vizi di omesso esame di fatto decisivo, in ordine sempre alla carenza in capo alla stessa della qualità di imprenditrice concorrente della cooperativa San Giovanni, eccepita sin dal primo grado, che, a suo avviso, avrebbe dovuto in ogni caso comportare necessariamente al rigetto delle domande svolte dalla controparte.
Ora si deve osservare, in linea di principio, che la concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; tuttavia, l’illecito non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, e, se il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c., ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (Cass. 31203/2017; Cass. n. 18691/2015; in argomento pure: Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 13071/2003); quando invece l’atto di concorrenza sleale sta stato compiuto da chi non sia dipendente dell’imprenditore che ne beneficia, la responsabilità dell’impresa concorrente viene affermata sulla base della regola dell’art. 2598 c.c., che qualifica illecito concorrenziale anche l’avvalersi “indirettamente ” di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale, laddove, pur in assenza di una partecipazione anche solo ispirativa, l’atto corrisponda all’interesse dell’imprenditore (Cass. n. 3446/1978), sempre che il terzo si trovi con il primo in una relazione tale da qualificare il suo agire come diretto ad avvantaggiare l’imprenditore della concorrenza sleale (Cass. n. 742/1981; Cass. n. 4755/1986; Cass. n. 5375/2001; Cass. n. 6117/2006; Cass. 4739/2012). La giurisprudenza di merito ha affermato in più occasioni la responsabilità della società per gli atti compiuti dall’amministratore, stante il rapporto organico e la valenza funzionale dell’atto al perseguimento dell’interesse sociale.
Il terzo autore dell’illecito concorrenziale, che agisca in collegamento con il concorrente del danneggiato, risponde in solido con l’imprenditore avvantaggiato dall’atto, mentre, mancando del tutto un collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 18691/2015; Cass. 7476/2017). Da ultimo questa Corte (Cass. n. 18772/2019) ha ribadito che “Gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all’azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l’imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l’attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un “pactum sceleris”, ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l’attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale”. In motivazione, si è rammentato che, secondo i principi generali in materia di concorrenza sleale, nel caso di condotta posta in essere da un soggetto terzo diverso dagli imprenditori concorrenti, non è necessaria la dimostrazione della colpa nella commissione della condotta stessa e che, affinché la commissione del fatto lesivo della concorrenza da parte del terzo abbia rilievo ex artt. 2598 c.c. e segg., è necessario dimostrare l’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, mentre non trova applicazione l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2600 c.c..>>

(in verde il passo più interessante a livello operativo)

Concorrenza sleale per violazione di norme pubblistiche (art. 2598 n.3 c.c.)

Cass. sez. I dell’8 maggio 2023 n. 12.049, rel. Ioffrida :

<<In effetti, con riguardo alla violazione dell’art. 2598 c.c., n. 3, la sola violazione di norme pubblicistiche non implica necessariamente, attesa la moltitudine di norme che incidono sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale, il compimento di un atto di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 c.c., n. 3, occorrendo distinguere tra norme che sono rivolte a porre dei limiti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, la cui violazione implica sempre un atto contrario ai principi di correttezza professionale e dunque di concorrenza sleale, e norme che impongono dei costi alle imprese operanti sul mercato (ad es. le disposizioni fiscali, le prescrizioni igienico-sanitarie ovvero anche le norme che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze o di autorizzazioni, implicanti comunque anche dei costi), la cui violazione può costituire l’antecedente di un atto di concorrenza, fonte di danno concorrenziale, ovvero servire per sostenere un ribasso dei prezzi o misure equivalenti, divenendo in tal caso la violazione della norma di diritto pubblico indirettamente la fonte di un illecito concorrenziale; deve essere data, in sostanza, dall’imprenditore che si duole della condotta del concorrente, dimostrazione non tanto della violazione di norme amministrative, quanto anche del compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei propri diritti, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato (cfr. Cass. 8012/2004: in applicazione di tale principio la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza dell’illecito concorrenziale nel fatto di un gestore di una sala cinematografica che aveva solo ampliato la capienza del locale, portandolo da 308 a 1000 posti, senza alcuna autorizzazione amministrativa; cfr. anche, in motivazione, Cass. 9770/2018).

Ora, dalla sentenza impugnata emerge che l’illecito concorrenziale contestato ed accertato di Geoeco Italia consisteva nell’avere esercitato, dal 2002 al 2004, attività commerciali di ristorazione e market in aree nelle quali erano stati compiuti abusi edilizi (con mutazione della destinazione d’uso di alcuni ambienti) e che erano state peraltro trasferite al patrimonio comunale, oltre che in assenza di autorizzazione amministrativa, il tutto all’interno dello stesso complesso villaggio turistico ove la In. Tu.Ga. svolgeva regolarmente (essendo state respinte le domande riconvenzionali delle convenute Geoeco Italia e Gargano Progetti nei sui riguardi, sempre ex art. 2598 c.c.), sulla base di titoli abilitativi, per il periodo 2000/2005, attività ricettiva ed anche di somministrazione, alimenti e bevande. E rilevava il particolare settore e la tipologia di attività turistico – ricettiva svolta dalla concorrente danneggiata In. Tu.Ga., necessitante di un complesso di autorizzazioni amministrative per il legittimo esercizio.

Peraltro la vicenda dell’esecuzione ed ottemperanza del giudicato amministrativo traslativo della proprietà delle aree non è conferente rispetto al presente contenzioso che attiene all’illecito concorrenziale posto in essere dalla Geoeco Italia in danno alla In. Tu.Ga. in relazione all’esercizio di attività commerciale di vendita di prodotti alimentari e ristorazione, in assenza delle necessarie autorizzazione della pubblica amministrazione>>

Discorso un pò (come spesso) fumoso dato che il giudice deve dire se e in che modo la violazione abbia procurato vantaggi concorrenzialmente illeciti.

Sul rapporto tra domanda di violazione brevettuale e domanda di concorrenza sleale: rigettatala prima, va necessariamente rigetta pure la seconda?

la risposta è negativa , secondo  App. Milano n 132/2023, del 18.01.2023, RG 2231/2020, rel Giani, Piaggio c. Peugeot.

La corte rigetta l’appello di Piaggio contro la sentenza di prim ogrado cjhe aveva già repointo la sua domanda di contraffazione contro Peugeot, relativao allo scooter Metropolis rispetto al proprio MP3

Sul punto in oggetto, così ossservba , basandosi sul parametro soggettivo di rifeirmento:

<<29. La tutela accordata per la violazione della privativa può concorrere con quella
prevista per la concorrenza per imitazione servile, sul presupposto che il prodotto
rechi una forma individualizzante, tale da essere percepibile, oltre che
dall’utilizzatore informato, anche dal consumatore medio (Cass. n. 8944/2020;
Cass. n. 19174/2015).
Piaggio ha invocato la tutela per concorrenza sleale senza indicare fatti diversi
rispetto a quelli allegati per la tutela della privativa, precisando (con la memoria di cui all’art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c.) che la fattispecie di concorrenza sleale
sia quella per imitazione servile. Ne consegue che la sussistenza della concorrenza vada valutata esclusivamente con riguardo a tale fattispecie, in quanto ciascuna delle ipotesi previste dall’art. 2598 c.c. individua un’autonoma causa petendi che deve essere espressamente allegata nella domanda affinché sia delimitato il thema decidendum (Cass n. 2124/2014; Cass. n. 25652/2014).
Sul piano teorico, la medesima condotta di riproduzione delle forme del prodotto
non impedisce il concorso dei due illeciti, giacché “la configurazione dell’uno o
dell’altro di essi dipende solo dal diverso parametro di cui ci si avvale per la
valutazione del carattere (rispettivamente individuale o distintivo) delle dette
forme e della loro violazione, che è nel primo caso l’utilizzatore informato e nel
secondo il consumatore medio” (Cass. n. 8944/2020; Cass. n. 19174/2015).
Nel caso di specie, Piaggio non ha specificamente allegato quali siano le forme
distintive e quali quelle imitate, limitandosi, nell’atto di citazione, ad allegare la
sola perpetrazione degli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.
Quand’anche si supplisse a tali lacune assertive, ritenendo che le forme distintive
implicitamente corrispondessero con quelle oggetto della privativa e andassero
ricavate dalle raffigurazioni contenute nel modello registrato, non essendo mai
state allegate ai fini della concorrenza sleale se non con un generico riferimento ai fatti integranti la contraffazione, in ogni caso l’imitazione servile del modello
Piaggio non sarebbe ravvisabile, nel caso di specie, perché le differenze sopra
emerse tra i due modelli, ai fini del giudizio di contraffazione, sono di tale
evidenza da essere percepibili non solo dall’utilizzatore informato, ma anche dal
consumatore medio, “normalmente informato e ragionevolmente attento”  >>.

Tema poco esplorato dalla dottrina ma interessante sotto il profilo teorico

Rigettato il ricorso Armani c. Basicnet per il marchio figurativo (coloristico) K-Way

Cass. 18.02.2022 n. 5491, sez. 1, rel. Scotti, rigetta il ricorso di Armani che aveva creato modelli con striscia colorata troppo simile a quella notissima di K-Way

Non ci sono spunti particolarmente interssanti, essendo la sentenza quasi tutta dedicata a rigettare censure dettagliate della motivaizne , miranti ad un riesame dei fatti, obiettivo stoppato dalla SC .

Vediamo alcuni passi

  1.   <<Nessuna norma impone di valutare la capacità distintiva e le percezioni del pubblico alla stregua di indagini demoscopiche, che costituiscono solo un possibile strumento di indagine, neppur previsto espressamente dalla legge e da ricondursi semmai nell’ambito di una consulenza tecnica d’ufficio, sì che il giudice è libero di formarsi il proprio convincimento sulla base di ogni possibile mezzo di prova.

10.5. Nelle pagine da 13 a 20 della sentenza impugnata, scrutinando il secondo motivo di appello di A., la Corte subalpina ha pienamente accolto il principio della necessità della riconoscibilità della striscia colorata per la tutela come marchio di fatto; ha posto in evidenza la rilevanza probatoria in tal senso della documentazione prodotta da parte delle attrici in primo grado riguardante la prova della percezione da parte del pubblico dei consumatori, tra l’altro contestata solo in misura molto parziale e non specifica (pag. 16, capoverso); ha invocato a sostegno il precedente di Corte di Giustizia UE 24.6.2004 circa la possibilità di tutela di combinazioni cromatiche, purché rappresentate graficamente in modo preciso secondo codici di identificazione internazionalmente riconosciuti e secondo una disposizione sistematica che associ i colori in modo predeterminato e costante e cioè in modo tale “da consentire al consumatore di percepire e memorizzare una combinazione particolare che egli potrebbe utilizzare per reiterare, con certezza, una esperienza di acquisto” (pag. 16, secondo capoverso); ha accertato nel caso concreto la ricorrenza di tali caratteri; ha quindi affrontato, ancor più specificamente, il cuore della censura di A. e cioè l’assunto che i consumatori non percepissero la striscia colorata come indicatore di provenienza, ma solo come elemento ornamentale; ha conferito rilievo scriminante per selezionare l’uso ornamentale dall’uso distintivo alla costanza e alla stabilità (accertate e verificate in concreto) il cui scopo è “quello di determinare nei consumatori la percezione di un rapporto fra prodotti e produttore, il che può avvenire solo se i primi siano caratterizzati sempre da un determinato segno, cui, conseguentemente, i consumatori ricollegano la loro origine”; ha accertato che il segno “striscia colorata” era stato apposto per molti anni senza alcuna variazione su prodotti di tipo diverso e ne ha tratto argomento per coglierne la funzione di indicatore di provenienza, caratterizzata dalla sua indifferenza ai prodotti contraddistinti; ha escluso che una covalenza decorativa possa inficiare la accertata e prevalente funzione distintiva.>> [qui si coglie il fatto che hga sostenuto la CdA nel ravvisare distinvitità]

2)      l’onere della prova consueto vale anche pe la prova negativa:

<<Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, tanto più se l’applicazione di tale regola dia luogo ad un risultato coerente con quello derivante dal principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio. Tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (da ultimo, Sez. 6 – 3, n. 8018 del 22.3.2021, Rv. 660986 – 01; Sez. L, n. 23789 del 24.9.2019, Rv. 655064 – 01; Sez. 5, n. 19171 del 17.7.2019, Rv. 654751 – 01).>>

3)    giudizio di confondibilità:

<< 16.3. Ancora molto recentemente questa Corte (Sez. 1, n. 39764 del 13.12.2021; Sez. 6.1, n. 12566 del 12.5.2021) ha ricapitolato i principi che debbono governare il giudizio di confondibilità e ha riaffermato che l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto non già in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica (Sez. 1, n. 8577 del 6.4.2018, Rv. 647769 – 01; Sez. 1, n. 1906 del 28.1.2010, Rv. 611399 – 01; Sez. 1, n. 6193 del 7.3.2008, Rv. 602620 – 01; Sez. 1, n. 4405 del 28.2.2006, Rv. 589976 – 01).

Tale accertamento va condotto, cioè, con riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione di impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo, avuto riguardo alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo dell’altro (cfr. quanto evidenziato in motivazione da Sez. 1, 17.10.2018, n. 26001, attraverso il richiamo alla citata Sez. 1, n. 4405 del 28.2.2006).

Il principio inoltre è conforme all’insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui il rischio di confusione tra marchi deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie: valutazione che deve fondarsi, per quanto attiene alla somiglianza visuale, auditiva o concettuale dei marchi di cui trattasi, sull’impressione complessiva prodotta dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi (Corte Giust. CE 11.11.1997, C-251.95, Sabel, 22 e 23; Corte Giust. CE 22.6 1999, C-342.97, Lloyd, 25).

Se è vero poi che il giudizio deve essere sintetico e basato sull’impressione complessiva agli occhi del pubblico di riferimento e non analitico, condotto mediante un minuzioso e dettagliato raffronto degli elementi di somiglianza e dissomiglianza dei due segni, non è men vero che l’obbligo di motivazione che incombe sul giudice gli impone, per scongiurare l’arbitrio, di dar conto delle ragioni che hanno orientato il suo giudizio e mettere in luce gli elementi che attirano primariamente l’attenzione del fruitore>>.

4) il giudizio sulla confonibilità è di fatto, § 16.5: non è così, è di diritto. “Di fatto” è solo quello sui fatti storici.