Concorrenza sleale per storno dei dipendenti

Sul sempre difficile (teoricmente e praticamente) tema in oggetto, v. Trib. Bologna  n° 1033/2023 del 16 maggio 2023, RG 12327/2018, rel,. Erede:

<<Al riguardo, si rileva in linea teorica che, affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui.
In questi casi, ricorre un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda, in quanto la mobilità dei dipendenti corrisponde sia al diritto del lavoratore di migliorare la propria posizione professionale, sia al diritto dell’imprenditore di organizzare al meglio la propria azienda, in modo efficiente e produttivo, attingendo alle migliori professionalità presenti sul mercato.
La giurisprudenza di legittimità ha in proposito affermato, in più occasioni, che lo storno deve essere caratterizzato dall’ “animus nocendi”, che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga – attraverso il trasferimento dei dipendenti – di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Il giudizio di difformità dello storno dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell’imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative (tra tante, Cass. civ. n. 3865 del 17.02.2020; Cass. civ. n. 31203 del 29.12.2017; Cass. civ. n. 20228 del 4.09.2013; Cass. civ. n. 13424 del 23.05.2008).
In base a questi principi, nella concreta esperienza giurisprudenziale, al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente (App. Milano 1.08.2019, n. 3393; Trib. Bologna 16.03.2016, n. 683).

Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente.
Si è anche affermato che “lo storno illecito normalmente afferisce allo spostamento di più soggetti da un imprenditore ad un altro, mentre la sottrazione di un solo dipendente è considerato elemento per lo più inidoneo a predicare la contrarietà alla legge” (Trib. Milano 19.09.2014, n. 11082).
Nel caso di specie, non si ravvisano nelle condotte dei convenuti modalità tali da indurre a riconoscere la volontà degli stessi di danneggiare l’organizzazione dell’impresa concorrente. In disparte la carenza di un rapporto diretto di concorrenzialità tra i convenuti dipendenti persone fisiche e COROB, si osserva che parte attrice non ha allegato e provato alcuna circostanza utile a far ritenere la sussistenza del rapporto di solidarietà dei convenuti ex dipendenti con ALFA in punto di responsabilità nei confronti di COROB, limitandosi a generiche allegazione rimaste sfornite di adeguata prova. Inoltre non può non rilevarsi come nella vicenda in esame alcuna concreta allegazione e prova parte attrice abbia fornito in ordine alla sussistenza di un intento di ALFA di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva della concorrente COROB, quale elemento soggettivo dell’illecito concorrenziale. Si richiama sul punto quel consolidato orientamento giurisprudenziale della S.C. che anche di recente ha affermato che “Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito; a tal fine assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato, per potersi configurare un’attività di storno, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente.”( così Cass. n. 3865/2020; conf. più di recente Cass. n. 22625/2022).
In disparte il dato che la contestazione dell’illecito concorrenziale per “storno dei
dipendenti” mossa da COROB non possa riguardare singole persone fisiche, quali ABELLI LUNGHINI, SOLERA e VERONESI e MAZZALVERI -legati a COROB da rapporto di dipendenza e/o collaborazione- non sono essi stessi imprenditori concorrenti e quindi non possono essere soggetti attivi dell’illecito stesso, deve rilevarsi che, con riguardo al MAZZALVERI, lo stesso all’atto della cessazione del suo rapporto di lavoro subordinato con COROB, a seguito di accordo risolutorio (v. doc. 24 allegato alla citazione), ha sottoscritto contestuale contratto di collaborazione con la stessa società ( v. doc. 25 allegato alla citazione), con esclusione di qualsiasi risvolto negativo per COROB.

Peraltro, va pure evidenziato come l’esiguo numero dei dipendenti stornati, in rapporto al numero complessivo dei dipendenti di COROB (119 dipendenti al 31.12.2017, come da visura prodotta dall’attrice sub doc. 1) per quanto specializzati possano essere, certamente non può determinare quella disgregazione traumatica dell’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore COROB, cosi come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori.
Alla luce delle considerazioni che precedono, quindi, alcuna tutela inibitoria e risarcitoria può accordarsi in questa sede a COROB, così come vanno disattese le pretese sanzionatorie della stessa attrice>>.

Nell’incertezza sul tema, certo è che l’animus nocendi non può provarsi che in temini oggettivi, giammai psicologico/soggettivi.

Inoltre ricorda la figura dell’abuso del diritto: che ricorre quando un vantaggio per il preteso violatore non c’è per nulla (da tutti ammesso) o c’è ma in misura minima (controverso; da vedere poi come rendere il relativo giudizio e cioè quale ne sarebbe il parametro: ha senso paragonare il vantaggio al danno provocato?).

Va segnalata pure  un’applicazone (con rigetto) della disciplina dei segreti commerciali, art.- 98 cpi

La Cassazione sulla tutela penalistica dei segreti ex art. 623 c.p.

Messa a punto della Cassazione sulla tutela dei segreti approntata dall’art. 623 c.p.

Si tratta di Cass. pen. sez. V, ud. 11.02.2020 (dep.: 04.06.2020), n. 16975, rel. Belmonte, Tinti + 3.

Ivi si legge che <dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la copertura offerta dall’art. 623 c.p., vada oltre quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile, e il giudice di legittimità ha più volte affermato che, ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non sono requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poichè non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perchè l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette>, § 5.2 Diritto.

Questo vuol dire che, <anche se la sequenza delle informazioni, che, nel loro insieme, costituiscono un tutt’uno per la concretizzazione di una fase economica specifica dell’attività dell’azienda, è costituita da singole informazioni di per sè note, ove detta sequenza sia invece non conosciuta e sia considerata segreta in modo fattivo dall’azienda, essa è di per sè degna di protezione e tutela. Non è necessario, cioè, che ogni singolo dato cognitivo che compone la sequenza sia “non conosciuto”; è necessario, invece, che il loro insieme organico sia frutto di un’elaborazione dell’azienda. E’ attraverso questo processo, infatti, che l’informazione finale acquisisce un valore economico aggiuntivo rispetto ai singoli elementi che compongono la sequenza cognitiva. E’ ciò che accade, appunto, nel caso di una azienda che adotti una complessa strategia per lanciare un prodotto sul mercato: i suoi singoli elementi sono senz’altro noti agli operatori del settore, ma l’insieme può essere stato ideato in modo tale da rappresentare un qualcosa di nuovo e originale, costituendo, in tal modo, un vero e proprio tesoro dal punto di vista concorrenziale per l’ideatore>, ivi.

Non è dunque possibile <operare … una assimilazione tra il segreto industriale di cui all’art. 623 c.p. e le informazioni segrete aziendali di cui all’art. 98 c.p.i. >,  § 5.3

Per la Corte, <il tema della possibilità di definire l’oggetto dell’art. 623 c.p. (e in parte anche dell’art. 622 c.p.), mutuandone la descrizione dall’art. 98 c.p.i. (…)  non [può]  essere affrontato attribuendo all’art. 98 c.p.i. la funzione di norma integrativa, poichè questo implicherebbe che, al concetto di segreto industriale, come definito da tale norma, possa essere attribuito valore generale. Ma ciò contrasta con il dato che lo stesso codice della proprietà industriale, all’art. 99, facendo salva la disciplina della concorrenza sleale, riconosce l’esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall’art. 98 c.p.i., sono meritevoli di tutela>, § 5.3.2.

Ne segue che,  anche dopo l’intervento legislativo del 2018, <può escludersi che il concetto penalistico di segreto soffra interferenze ad opera di quello ricavabile dall’art. 98 del codice di proprietà industriale (in tal senso Cass. Pen., Sez. 2, 11 maggio 2010, n. 20647; Sez. 5 n. 48895 del 20/09/2018, entrambe non mass.), risultando accolta, dall’art. 623 c.p., una nozione di segreto commerciale più ampia di quella descritta dall’art. 98 c.p.i.. Questo comporta che, se l’art. 98 c.p.i. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie previsti dall’art. 623 c.p. – potendosi riscontrare, invece, solo una mera identità terminologica nel riferimento ai “segreti commerciali”, non sufficiente per giustificare una assimilazione anche della disciplina, in due settori diversi e indipendenti dell’ordinamento – tuttavia, in presenza di un know-how avente i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., potrà accordarsi la tutela prevista dall’art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., dovrà individuarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto>, § § 5.3.2

Si tratta di precisazioni utili a fini pratici, ma non particolarmente interessanti a fini teorici: il dettato dell’art. 623 cp. infatti non lascia molto spazio a posizioni opposte a quelle seguite dalla Corte.

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Segreti commerciali e art. 98 c.1 n. 3 cod. propr. int.

L’art. 98 cpi regola i segreti commerciali o meglio il diritto titolato sugli stessi. La norma è importante perchè , rispettati i requisiti, si può fruire dell’apparato rimediale del c.p.i.

Un recente provvedimento milanese (29.01.2019, RG 51863/2015, sent. n. 872/2019) ha analizzato un caso in materia.

Qui mi soffermo solo sul punto in oggetto e cioè sull’applicazine del concetto di <<misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete>> di cui al c. 1 lett. c), art .98.

Il Tribunale ha detto (numerazione in rosso degli elemetni di segretezza  individuati dal Trib., da me aggiunta) : <<Le parti convenute hanno contestato che parte attrice abbia dato effettiva prova dell’apprestamento di misure di riservatezza effettivamente pertinenti ad un livello di ragionevolezza, sostanzialmente invocando a tal fine che, ad esempio, i disegni tecnici in questione fossero stati posti a suo tempo nella disponibilità dei soggetti fornitori di Tekna anche mediante la possibilità di prelevarli all’interno di un sito web della stessa.

Ritiene invece il Collegio che le risultanze di causa consentano di ritenere che tali documenti tecnici fossero effettivamente soggetti a misure di riservatezza ragionevoli e pertinenti alle modalità di svolgimento dell’attività produttiva di Tekna ed ai rapporti con i suoi fornitori.  Non risulta per un verso contestato che, oltre alla [1] previsione di sistemi antiintrusione, l’accesso a tale documentazione fosse soggetto al rilascio di specifiche [2] password che – oltre a quella che consentiva l’accesso generale al sistema informatico – prevedeva [3] l’ulteriore rilascio di autorizzazioni per l’accesso  a specifici applicativi del sistema stesso, modalità organizzative che determinavano dunque una selezione  nell’accesso  a  parti  determinate  di  esso (v.  doc.  37  Emmegi).  Inoltre,  sotto  altro  profilo maggiormente rilevante per i soggetti esterni a Tekna, la documentazione tecnica in questione era con tutta evidenza [4] soggetta a vincoli di riservatezza a carico dei soggetti ai quali era stata fornita la disponibilità. Ciò appare rilevabile dall’esame di tutti i disegni tecnici acquisiti in sede di descrizione, [4.1] ove compare    in ciascuno di essi l’espressa riserva di proprietà dei disegni stessi in capo a Tekna ed il divieto di riprodurre i medesimi o di renderli noti a terzi. D’altra parte la [4.2] sussistenza di uno specifico rapporto di fornitura tra le imprese convenute riconduce l’oggetto di essi ad un alveo di normale e fisiologica riservatezza rispetto alle informazioni e documenti scambiati tra le parti per ciò che attiene allo svolgimento di tale rapporto contrattuale, risultando di per se stessa contraria alla buona fede ed alla correttezza contrattuale ogni attività di diffusione a terzi di tali informazioni. Ciò risulta peraltro direttamente confermato dalla produzione in atti di contratto di fornitura intercorso tra parte attrice e la convenuta M.G. Costruzioni Meccaniche s.a.s. del novembre 2014 in cui era [4.3] espressamente inserito il divieto per l’impresa fornitrice di utilizzare ogni informazione ricevuta per finalità estranee al rapporto stesso e di divulgarle a terzi (v. doc. 4 MG).

Il fatto dunque che i documenti tecnici in questione fossero scaricabili dal sito web di Tekna dai (soli) fornitori ad essa legati da vincoli contrattuali non comporta alcun significativo pregiudizio rispetto alla sussistenza ed efficacia di tali misure, tenuto conto che l’accesso a detti documenti era evidentemente conseguente al rapporto  contrattuale esistente con la titolare di tali disegni e  della consapevolezza di  tali fornitori dell’esistenza di tali vincoli e dei limiti connessi alla ricevuta disponibilità dei documenti stessi.

Il quadro complessivo delle misure di sicurezza approntate presso EMMEGI s.p.a. risulta rappresentato nel documento generale prodotto in atti (doc. 46 fasc. Emmegi). Ritiene pertanto il Collegio che il quadro fornito in ordine alla predisposizione delle misure di sicurezza debba ritenersi congruo e sufficiente per l’attività svolta dall’attrice e dalle sue danti causa.>>

In sintesi dunque per il Tribunale le misure, tali da ritenere sodisfatto il requisito in oggetto, sono: 1) la previsione di sistemi antiintrusione (nei locali aziendali, presumibilmente), 2) necessità di password di accesso generale al sistema informatico; 3) necessità di password di accesso ai singoli software applicativi, 4) dovere di riservatezza dei consegnatari delle credenziali/passwordo, dato da: 4.1) espressa dichiarazione di riserva di proprietà e di divieto di riproduzione apposto sui disegni, 4.2) dovere di segretezza generato dalla buona fede in executivis propria del rapporto contrattuale in essere, 4.3) dovere di segretezza specificamente inserito in una clausola del testo contrattuale.

Il rapporto tra 3) e 4) è peculiare: è pensabile il dovere di riservatezza a carico di chi viene a contatto con le informazioni segrete anche senza password (impregiudicato se ciò basti ai fini dell’art. 98 cpi), mentre non è pensabile l’opposto. Infatti l’assegnazione di credenziali/password, senza la creazione di previ doveri di riservatezza a carico degli assegnatari, certamente non costituirà  <<misura ragionevolmente adeguata a mantenerle segrete>>: anzi ne costituirà una palese violazione.