Violenze fisiche e morali sono per se causa di addebito della separaizone

Cass. sez. I, ord. 15/02/2024 n. 12.478, rel. Meloni:

<<Invero, le reiterate violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge all’altro, costituiscono violazioni talmente gravi dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti la intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore di esse. Il loro accertamento esonera il giudice del merito dal dovere di procedere alla comparazione, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, col comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, trattandosi di atti che, in ragione della loro estrema gravità, sono comparabili solo con comportamenti omogenei (Cass., n. 31351/22, n. 3925/18).

Tali principi, già affermati da questa corte, vanno in questa sede ulteriormente ribaditi ed enunciati, come criteri guida prevalenti nelle valutazioni relative alle controversie sull’addebitabilità della separazione personale tra coniugi.

Nella specie, alla luce della citata consolidata giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio intende dare continuità, l’affermato addebito della separazione è conforme ai principi e legittimato dal consumato reato di maltrattamenti da parte del ricorrente, nei confronti di Zi.Fr., condotta che non può trovare esimente nella ipotizzata (ed esclusa dal giudice di merito) violazione dell’obbligo di fedeltà realizzato anteriormente, non trattandosi di condotte bilanciabili, come motivato dalla Corte territoriale, per il prevalente ed assorbente disvalore della condotta violenta e prevaricatrice per quanto in ipotesi successiva rispetto alla ipotizzata violazione dell’obbligo di fedeltà.

Inoltre, è inammissibile la censura di inefficacia causale della condotta violenta (nella specie violenze fisiche efferate, verbali e sessuali, vere e proprie condotte criminali plurime e continuate perpetrate verso la moglie alla presenza dei figli minori) rispetto alla presunta cessazione dell’affectio nel rapporto coniugale, atteso che le condotte criminali perpetrate prima della separazione inter partes assumono carattere preminente in quanto consapevolmente tese ad annientare la persona del coniuge rendendo del tutto irrilevante l’esaurirsi pregresso della comunione di vita, assumendo quelle un carattere assorbente e causativo dell’irreparabile fine del matrimonio per l’azione di tendenziale annientamento dell’altra persona (il coniuge), più facilmente raggiungibile e manipolabile, in ragione della prossimità di vita>>.

Per la determinazione del tenore di vita ai dini dell’assegno di mantenimento, conta non solo il reddito ma anche il “patrimonio goduto” in costanza di matrimonio

Cass. Sez. I, Ord. del 24 aprile 2024, n. 11146,rel. Reggiani

<< Ciò che rileva, ai fini della determinazione dell’assegno in questione è
l’accertamento del tenore di vita condotto dalle parti quando vivevano insieme,
da rapportare alle condizioni reddituali e patrimoniali esistenti al momento
della separazione. (…)

Ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge, il tenore di vita goduto dalle parti in costanza di convivenza va rapportato alle condizioni reddituali e patrimoniali esistenti al momento della separazione e tale accertamento va condotto considerando non solo il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma anche gli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso>>.

Poi:

<<Nel rigettare il ricorso promosso avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva ripristinato l’assegno di mantenimento in favore della moglie, la Corte di Cassazione ritorna nuovamente sul concetto del medesimo tenore di vita, quale criterio per il riconoscimento del contributo in favore del coniuge economicamente debole, insistendo sulla valutazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi durante la convivenza e successive alla separazione: al riguardo anche l’attitudine dei coniugi al lavoro proficuo costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento, ma l’accertamento non può essere limitato al solo mancato svolgimento di tale attività e vanno escluse mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass., Sez. I, Ordinanza n. 24049 del 06.09.2021).

Nel caso concreto, la Corte territoriale, dopo avere esaminato le risultanze processuali, ha correttamente valutato gli elementi di prova relativi al periodo di convivenza dei coniugi, così acquisendo elementi per ricostruire il tenore di vita matrimoniale da rapportare alla situazione delle parti successiva alla separazione, dando rilievo al lungo periodo durante il quale la moglie è rimasta a casa per accudire la famiglia.

Le generiche deduzioni del ricorrente in ordine alla relazione sentimentale e alla convivenza della moglie, in difetto di specifiche allegazioni di fatti impeditivi del diritto all’assegno di mantenimento, rendono la relativa censura inammissibile, né consentono di prospettare la decisività dei fatti di cui si lamenta l’omesso esame>>

(massime di CEsare Fossati in ONDIF)

Cass. sez. I, Ord. 26 aprile 2024, n. 11.208, rel. Reggiani:

<<Con riguardo all’onere della prova, in base alle regole generali, deve ritenersi gravante sulla parte che richiede l’addebito della separazione l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

È, invece, onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale alla violazione dell’obbligo derivante dal matrimonio.

L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale tra quest’ultima condotta violativa degli obblighi derivanti dal matrimonio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, integrando un’eccezione in senso lato, è rilevabile d’ufficio, purché sia allegata dalla parte a ciò interessata e risulti dal materiale probatorio acquisito al processo>>.

(massima di Ferrandi Francesca in Ondif)

V. pure mio post a Cass. 10.489/2024.

Nella separzione tra coniugi, la intollerabilità della prosecuzione di convincenza può riguardare anche uno solo dei coniugi

Cass. sez. I, ord. 24/04/2024 n. 11.032, rel. Reggiani:

<< In via generale, questa Corte ha affermato che la pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare la situazione di intollerabilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).    [ovvio]

L’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve, peraltro, essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001).

L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale, integra comunque un’eccezione in senso lato, ed è pertanto rilevabile d’ufficio, purché siano allegati dalla parte a ciò interessata i fatti che ne suffragano l’esistenza e i menzionati fatti risultino provati dal materiale probatorio comunque acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).

Con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di coabitazione, questa Corte ha ritenuto che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi contiene di per di per sé tutti i requisiti per configurare l’addebito della separazione personale, tenuto conto che obiettivamente a seguito di tale condotta la convivenza non è più possibile, fermo restando che l’addebito deve essere escluso, ove risulti che esso sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile e che, anzi, l’allontanamento del coniuge costituisca una conseguenza di tale intollerabilità (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020). [ovvio, come sopra]

A prescindere da qualsivoglia elemento di addebito, in applicazione dell’art. 151 c.c., la separazione dei coniugi deve comunque trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile. A tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi in giudizio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020). [il passaggio più interessante]

Ovviamente, l’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi, nel determinarsi della intollerabilità della convivenza, è un accertamento in fatto riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione che non sia viziata (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014). [no: non e’ fatto ma diritto, come emerge anche dalle parole della SC, laddove parla di “appprezzamento di responsabilità”]

(…)  Il giudice del gravame ha, in sintesi, ritenuto provata una condizione di disaffezione, quantomeno da parte della donna, già prima dell’allontanamento di quest’ultima dalla casa coniugale, dato che la donna aveva già prima comunicato al marito la volontà di separarsi per il tramite di un legale e poi aveva lasciato la casa coniugale, aggiungendo che il marito, sottoscrivendo la scrittura di separazione, risulta avere condiviso la decisione di separarsi, regolando convenzionalmente le conseguenze della separazione, compresa l’attribuzione di un assegno in favore della moglie, peraltro senza rappresentare negli atti di causa una condizione di vita matrimoniale in cui la comunione di vita fosse, invece, esistente.

Si tratta di un accertamento in fatto, operato dal giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità che, in virtù di quanto sopra evidenziato, non può essere considerato frutto di extrapetizione.

Lo stesso Si.Gi., nel ricorso per cassazione, ha riportato per esteso le allegazioni della moglie, contenute nella memoria di costituzione per l’udienza presidenziale in Tribunale, ove, nel richiedere l’addebito della separazione al marito, aveva allegato atteggiamenti violenti, tradimenti e comportamenti denigratori dell’uomo nei suoi confronti, oltre che condotte contrarie al dovere di assistenza morale durante la grave malattia della donna, fino alla decisione di quest’ultima di allontanarsi della casa coniugale, dietro suggerimento dei familiari, per timore di reazioni aggressive del marito, che ormai si era reso conto della volontà della moglie di separarsi (p. 14 del ricorso per cassazione).

Si tratta di condotte precedenti all’allontanamento della donna dalla casa coniugale, da quest’ultima avvertite, e dedotte, come causa di una pregressa intollerabilità della convivenza.

Il medesimo ricorrente ha, inoltre, evidenziato che, in appello, la moglie aveva dato rilievo alla missiva inviata dal suo legale, con cui aveva chiesto la separazione, e alla scrittura di separazione sottoscritta da entrambi i coniugi il 10/12/2016, per affermare che in tale occasione i coniugi erano assolutamente consci della crisi coniugale e d’accordo sulla necessità di addivenire ad una soluzione condivisa, entrambi consapevoli che il matrimonio era “finito” (p. 16 del ricorso per cassazione).

Anche tali allegazioni costituiscono argomenti che la donna ha posto a supporto della intollerabilità della convivenza precedente all’allontanamento della donna.

Il giudice di merito, valutando in fatto le risultanze di causa, ha ritenuto provata la obiettiva intollerabilità della convivenza, avvertita dalla donna prima dell’allontanamento da casa, e non contrastata dal marito, anche se non ha accertato i fatti che la stessa ha posto come causa della menzionata condizione di disaffezione.

In altre parole, la Corte di merito ha fatto proprie solo in parte le allegazioni della donna, che aveva dedotto la pregressa intollerabilità della convivenza per fatto imputabile al marito, ritenendo provata, per le ragioni in fatto sopra indicate, semplicemente la ritenuta impossibilità di vivere ancora insieme, percepita dalla moglie e non contrastata dal marito.

(…) Il terzo motivo è infondato.

4.1. Come già evidenziato, la condizione di intollerabilità della convivenza può essere intesa anche in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; v. anche v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020).

In tale ottica, questa Corte ha di recente ritenuto dimostrata tale preesistente intollerabilità della convivenza dalla presentazione stessa del ricorso per separazione e dal successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale (v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015).

Non si tratta di un’interpretazione che abroga la previsione normativa del dovere di coabitazione, perché, comunque, l’allontanamento presuppone l’accertamento di una condizione anche personale, non necessariamente condivisa tra i coniugi, che risulti comunque da dati obiettivi e, ovviamente, non sia la conseguenza della violazione di un altro obbligo matrimoniale da parte di chi compia tale scelta.  [ok]

La coabitazione, infatti, non è convivenza, perché quest’ultima si connota per una condivisione di vita che non è richiesta nella prima.

La coabitazione, ove la convivenza sia divenuta intollerabile anche per una sola persona della coppia, perde di significato coniugale, per il declino dei diritti e doveri reciproci che connotano il rapporto matrimoniale, e non può essere imposta come mero artificio esteriore.

4.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha dato applicazione ai principi enunciati, dando rilievo alla missiva inviata dal legale della moglie prima dell’allontanamento della casa coniugale, in cui quest’ultima ha manifestato la volontà di separarsi, la quale costituisce una obiettiva e inequivoca rappresentazione dell’impossibilità per la donna di continuare a vivere con il marito, seguita, dopo pochi mesi dall’allontanamento, dalla sottoscrizione da parte di entrambi i coniugi di un accordo che regolava le condizioni di separazione e prevedeva un assegno di mantenimento in favore della donna, cui si è aggiunta anche la constatazione, da parte del giudice di appello, che non una parola si leggeva negli atti difensivi del marito su eventuali condizioni della vita matrimoniale che avrebbero potuto rendere imprevedibile la scelta della donna (v. supra e p. 7 e ss. della sentenza impugnata)>>.

Infedeltà coniugale, intollerabilità della convivenza e onere della prova

Cass. sez. I, ord. 18/04/2024 n. 10.489, rel. Ioffrida:

<<Questa Corte ha quindi affermato (Cass. 25618/2007) che “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Il principio è stato ribadito (Cass. 16859/2015) : “In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale”.

Sempre questa Corte in punto di riparto dell’onere probatorio ha affermato che “grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà”, cosicché “laddove la ragione dell’addebito sia costituita dall’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicché, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l’onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall’altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata” (Cass. 2059/2012; Cass. 3923/2018).

In sostanza, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale deve essere accertata in modo rigoroso attraverso una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale e chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito (nella specie, dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza) deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà>>.

Validità (e trascrivibilità) degli accordi traslativi tra coniugi in sede di separazione (e divorzio) consensuale e censura relativa alla intepretazione contrattuale in Cassazione

Cass. sez. I, ord. 12/03/2024 n. 6.444, rel. Tricomi:

<<3.2.-La giurisprudenza ha da tempo ammesso gli accordi traslativi o costituitivi di diritti reali tra i coniugi, in sede di separazione consensuale, come accaduto nella specie, o di divorzio consensuale.

Sul punto si sono soffermate anche le Sezioni Unite. Le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., alle condizioni previste nella sentenza (Cass. Sez. U. 21761/2021).

Invero, la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata. Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso ad hoc ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Cass. n.5061/2021).

Per tale ragione è stato affermato, ad esempio, che “E’ valida la clausola con la quale i coniugi, in sede di separazione consensuale, si accordino per vendere in futuro l’abitazione coniugale che sia stata assegnata al coniuge affidatario di figlio minore, in quanto autonoma rispetto alla concordata assegnazione e con essa non incompatibile.” (Cass. n. 34861 del 25/11/2022) e che “L’accordo, concluso in sede di separazione e poi trasfuso nel divorzio congiunto, con cui i coniugi convengano che, a fronte della cessione di quote societarie dalla moglie al marito, quest’ultimo corrisponda alla predetta ed ai figli, senza soluzione di continuità, un assegno “vita natural durante”, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, non è suscettibile di revisione ex art. 8 della l. n. 898 del 1970, trattandosi non di pattuizione di un assegno divorzile, ma di costituzione di una rendita vitalizia.” (Cass. n. 10031/2023).

3.3.- Va aggiunto, quanto alla dedotta violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. n. 22536/2007). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. n. 15604/2007; Cass. n. 4178/2007). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati (Cass. 7500/2007; 24539/2009, Cass. n.8638/2020).

Con specifico riferimento poi alla ricognizione circa la natura definitiva o meno della volontà delle parti, si è ribadito che (cfr. Cass. n. 14006/2017) costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l’intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata (conf. Cass. n. 23142/2014, secondo cui la qualificazione del contratto come preliminare o definitivo si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, il quale, nell’interpretazione del contratto, ove il dato letterale sia equivoco, può ricorrere al criterio di cui all’art. 1362 c.c., comma 2, assegnando rilievo anche all’avvenuta esecuzione delle prestazioni).

Determinazione dell’assegno di mantenimento dei figli da separazione o divorzio: irrilevanti le liberalità ai figli da parte dell’obbligato

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.111, rel. Valentino:

<<L’assegno dovuto al coniuge separato o divorziato, per il mantenimento dei figli ad esso affidati, non può subire riduzioni o detrazioni in relazione ad altre elargizioni del coniuge obbligato in favore dei figli medesimi, ove queste risultino effettuate per spirito di liberalità per soddisfare esigenze ulteriori rispetto a quelle poste a base del predetto assegno, sicché restino ricollegabili ad un titolo diverso (Cass., n. 12212/1990). Nella specie, la Corte ha correttamente accertato che si trattava di un mutuo contratto a favore della figlia a scopo di liberalità, vivendo la medesima con il padre.

Inoltre, in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, di per sè permane, nella misura stabilita dalla sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche se il suo titolare instauri una convivenza “more uxorio” con altra persona, salvo che sussistano i presupposti per la revisione dell’assegno, secondo il principio generale posto dall’art. 9, comma 1, l. 1° dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987, n. 74: e cioè che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza ha determinato un mutamento “in melius” – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidato e protraendesi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza. La relativa prova, pertanto, non può essere limitata a quella della mera instaurazione e del permanere di una convivenza “mora uxorio” dell’avente diritto con altra persona, essendo detta convivenza di per sè neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare, potendo essere instaurata con persona priva di redditi e patrimonio, e dovendo l’incidenza economica di detta convivenza essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano (Cass., n. 1557/2004; Cass., n. 21080/2004; cfr., da ultimo, Cass. S.U. 32198/2021)>>.

Sull’assegno di mantenimento da separazione e sul dovere di mettere in atto la propria capacità lavorativa

Cass. sez. I, ORD. 29/02/2024 n. 5.242, rel. pAZZI, in un caso di coniuge rimasta a lavorare a part time, anzichè passare al full time, pur potendolo fare per essere ormai cresciuti i figli:

la corte di appello:

<<. La Corte d’appello di Venezia, a seguito dell’impugnazione principale presentata dalla Ca.Ba. e dell’impugnazione incidentale del Sa.Ar., osservava che se vi era stato uno squilibrio fra le posizioni economiche delle parti, questo era venuto meno da quando la Ca.Ba. aveva ottenuto l’assegnazione della casa familiare come genitore collocatario della prole e il Sa.Ar. aveva dovuto prendere in locazione un immobile ad uso abitativo. Escludeva che l’appellante principale avesse diritto a un assegno di mantenimento a suo vantaggio, tenuto conto che la stessa aveva ormai la possibilità, stante l’età dei figli, di incrementare con orario pieno il proprio stipendio e di poter cogliere occasioni di avanzamento/conversione professionale destinate a migliorare il suo reddito, mettendo a frutto la laurea conseguita in costanza di matrimonio>>.

La SC sulla differenza tra assegno divorzile e da separazione:

<<7.1 Esso, infatti, pretende di applicare i criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di divorzio (evocando espressamente la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018) all’ambito dell’assegno di mantenimento previsto dall’art. 156 cod. civ..

Il che è non solo un’evidente fuor d’opera, posto che la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato la differenza dei due istituti (chiarendo che l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione dell’adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, mentre tale parametro non rileva in sede di fissazione dell’assegno divorzile, che deve, invece, essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all’art. 5, comma 6, l. 898/1970, essendo volto non alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge beneficiario alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi; Cass. 17098/2019), ma anche un’affermazione che si pone in netto contrasto con le asserzioni della Corte distrettuale (la quale ha correttamente riconosciuto come il reddito adeguato a cui va rapportato l’assegno di mantenimento a favore del coniuge sia quello necessario a conservare tendenzialmente il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; pag. 9 della decisione impugnata) senza formulare alcuna precisa critica che consenta di comprendere perché, nella materia dell’assegno di separazione regolata dall’art. 156 cod. civ., debbano trovare ingresso i criteri previsti dall’art. 5, comma 6, l. 898/1970 per l’assegno di divorzio>>.

E soprattutto sul dovere di mettere in atto la propia capacità economica, confermando la cortre di appello:

<<7.2 Il profilo appena evidenziato non risulta l’unico vizio di non riferibilità della censura in esame alla decisione impugnata. La Corte d’appello ha spiegato, a giustificazione della propria decisione, che il richiedente l’assegno di mantenimento è gravato dall’onere di dimostrare che la situazione in cui versa non sia ascrivibile a sua colpa, in modo che rimanga escluso che egli, pur potendo, non si sia doverosamente adoperato per reperire o migliorare la propria occupazione lavorativa retribuita in maniera confacente alle sue attitudini/capacità. [nds: questa la base giuridica; il 156 cc  nulla dice sulla capacità lavortiva, a diff. ad es. dall’art. 316 bis c. 1 cc]

I giudici distrettuali hanno ritenuto che la Ca.Ba. si trovasse proprio in queste condizioni di colpa, perché si avvaleva ancora di un orario lavorativo parziale con stipendio ridotto, pur avendo conseguito la laurea in scienze politiche nel 2012 e malgrado i tre figli fossero oramai divenuti maggiorenni, e già durante il matrimonio non si era maggiormente proiettata nella realtà lavorativa; per questo motivo la Corte di merito ha negato l’esistenza di una penalizzazione professionale da riequilibrare e che l’appellante potesse porre a carico dell’altro coniuge le conseguenze della mancata conservazione dello stile di vita matrimoniale.

A fronte di questi argomenti la doglianza in esame non considera in alcun modo, ancora una volta, le argomentazioni in diritto poste a fondamento della decisione e tenta di accreditare l’esistenza di una necessità di perequazione che la Corte distrettuale ha espressamente escluso (con un accertamento di fatto che, peraltro, non può essere rivisto in questa sede di legittimità)>>.

Mutamento decisionale in corso di causa sul diritto all’assegno di mantenimento e diritto alle restituizioni

Cass. Sez. I, ord. 22 febbraio 2024 n. 4.715 , Rel. Tricomi:

<<In tema di assegno di mantenimento separativo e divorzile, ove si accerti nel corso del giudizio – nella sentenza di primo o secondo grado – l’insussistenza “ab origine”, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo, ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica, opera la regola generale della “condictio indebiti” che può essere derogata, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, esclusivamente nelle seguenti due ipotesi: [1] ove si escluda la debenza del contributo, in virtù di una diversa valutazione con effetto “ex tunc” delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia, ed [2] ove si proceda soltanto ad una rimodulazione al ribasso, di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, che si presume siano destinate ragionevolmente al consum<o da un coniuge, od ex coniuge, in condizioni di debolezza economica>>.

(caratteri in rosso da me aggiunti)

(massima di Valeria Cianciolo in Ondif)

Onere della prova del coniunge richiedente l’assegno di mantenimento circa l’impossibilità di trovare lavoro

Cass. Civ., Sez. I, ord. 18 gennaio 2024 n. 1894, rel. Meloni:

<In materia di separazione dei coniugi, grava sul richiedente l’assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua capacità di lavorare, l’onere della dimostrazione di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato per reperire un’occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali, poiché il riconoscimento dell’assegno a causa della mancanza di adeguati redditi propri, previsto dall’art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in grado di procurarsi da solo. Ne consegue che il giudice, chiamato a verificare la debenza e la misura dell’assegno, deve valutare tutte le circostanze allegate dalle parti e rilevanti a tal fine, quale è la sussistenza di una malattia oncologica in capo al richiedente, idonea a comprometterne la capacità lavorativa>>.

Importante a fini pratici la disciplina dell’onere della prova.

(massima di Valeria Cianciolo, in Ondif)