Validità (e trascrivibilità) degli accordi traslativi tra coniugi in sede di separazione (e divorzio) consensuale e censura relativa alla intepretazione contrattuale in Cassazione

Cass. sez. I, ord. 12/03/2024 n. 6.444, rel. Tricomi:

<<3.2.-La giurisprudenza ha da tempo ammesso gli accordi traslativi o costituitivi di diritti reali tra i coniugi, in sede di separazione consensuale, come accaduto nella specie, o di divorzio consensuale.

Sul punto si sono soffermate anche le Sezioni Unite. Le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., alle condizioni previste nella sentenza (Cass. Sez. U. 21761/2021).

Invero, la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata. Ne consegue che questi ultimi non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso ad hoc ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Cass. n.5061/2021).

Per tale ragione è stato affermato, ad esempio, che “E’ valida la clausola con la quale i coniugi, in sede di separazione consensuale, si accordino per vendere in futuro l’abitazione coniugale che sia stata assegnata al coniuge affidatario di figlio minore, in quanto autonoma rispetto alla concordata assegnazione e con essa non incompatibile.” (Cass. n. 34861 del 25/11/2022) e che “L’accordo, concluso in sede di separazione e poi trasfuso nel divorzio congiunto, con cui i coniugi convengano che, a fronte della cessione di quote societarie dalla moglie al marito, quest’ultimo corrisponda alla predetta ed ai figli, senza soluzione di continuità, un assegno “vita natural durante”, anche dopo il raggiungimento della maggiore età, non è suscettibile di revisione ex art. 8 della l. n. 898 del 1970, trattandosi non di pattuizione di un assegno divorzile, ma di costituzione di una rendita vitalizia.” (Cass. n. 10031/2023).

3.3.- Va aggiunto, quanto alla dedotta violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. n. 22536/2007). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. n. 15604/2007; Cass. n. 4178/2007). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati (Cass. 7500/2007; 24539/2009, Cass. n.8638/2020).

Con specifico riferimento poi alla ricognizione circa la natura definitiva o meno della volontà delle parti, si è ribadito che (cfr. Cass. n. 14006/2017) costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l’intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata (conf. Cass. n. 23142/2014, secondo cui la qualificazione del contratto come preliminare o definitivo si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, il quale, nell’interpretazione del contratto, ove il dato letterale sia equivoco, può ricorrere al criterio di cui all’art. 1362 c.c., comma 2, assegnando rilievo anche all’avvenuta esecuzione delle prestazioni).

L’assegno di mantenimento da separazione è diverso da quello divorzile

Cass., sez. 1, 13.09.2022 n. 26.890, rel. Lamorgese:

L’appello riduceva l’assegno a favopre del marito così motiovando:

<<Il G., all’epoca della separazione nel 2012, aveva quarantasette anni ed era dotato di piena capacità lavorativa e notevole professionalità, avendo goduto di un ottimo stipendio fino al 2007, quando aveva lasciato il lavoro per dedicarsi all’accudimento del figlio (bisognoso di sostegno e di essere seguito nelle attività sportive) e alla cura della prestigiosa abitazione coniugale acquistata con proventi della moglie; egli “era dotato di tutte le risorse personali e professionali per provvedere autonomamente al proprio dignitoso mantenimento” ed era diventato istruttore di tecnica equestre, né aveva dimostrato che le somme erogategli dalla moglie (indicate dal ricorrente in circa Euro 10000,00 al mese) servissero per le proprie esigenze personali piuttosto che per i bisogni del figlio; il G. non contribuiva al mantenimento del figlio, al quale provvedeva la T.; il tenore di vita del G. aveva subito “un rilevante ridimensionamento, con la perdita dell’abitazione familiare… e la necessità di reperire altra abitazione a pagamento, non disponendo egli di proprietà immobiliari”, sicché l’assegno mensile di Euro 300,00 serviva “per consentirgli di disporre di una adeguata abitazione”; dal canto suo, la T. “continua a godere del tenore di vita precedente alla separazione, grazie alle sue numerose proprietà immobiliari e ai proventi che le derivano dalla sua famiglia, pur dovendo provvedere in via esclusiva a mantenere il figlio”>>.

La Sc però accoglie , così censurandolo

<<Da queste argomentazioni traspare che il criterio seguito per la quantificazione del contributo di mantenimento a favore del G. non è quello seguito dalla giurisprudenza di legittimità, che è espresso dal principio secondo cui i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio nella fase temporanea della separazione, stante la permanenza del vincolo coniugale e l’attualità del dovere di assistenza materiale, derivando dalla separazione – a differenza di quanto accade con l’assegno divorzile che postula lo scioglimento del vincolo coniugale – solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione (ex plurimis, Cass. 5605 del 2020, 16809 del 2019, 12196 del 2017).

Ed infatti, il contributo di mantenimento in favore del G. non è stato quantificato in misura idonea a garantirgli, in via tendenziale, la conservazione del tenore di vita matrimoniale – che, come accertato dalla Corte di merito, aveva subito un rilevante ridimensionamento dopo la separazione, contrariamente alla T., la quale poteva contare su notevoli risorse a sua disposizione – ma solo a consentirgli di procurarsi una abitazione, nell’ottica di un aiuto a provvedere al proprio “dignitoso mantenimento”.

Apodittica è l’affermazione secondo cui il G. sarebbe titolare di idonee risorse personali e professionali, essendo priva di una comprensibile esplicitazione dei fatti idonei a corroborarla. Ne’ è chiaro il significato dell’ulteriore affermazione secondo cui “egli peraltro ha goduto per quattro anni di un contributo mensile da parte della moglie di Euro 1500,00 mensili (attribuitogli in sede presidenziale)”, non comprendendosi se e quali elementi rilevanti la Corte ne abbia tratto sul piano decisorio.

Si tratta di una motivazione in fatto perplessa e sostanzialmente apparente, dunque censurabile in sede di legittimità>>.

La tolleranza di infedeltà pregressa è di ostacolo all’addebito della separazione? La Cassazione sulla separazione Ferragamo

E’ stato diffuso il testo di   Cass. 25.966 del 02.09.2022 sez. 1, rel. Mercolino dal collega Alessandro Casartelli.

La SC accoglie la critica al rigetto della domanda di addebito avanzata dal marito.

Premette che <<Grava dunque sulla parte che richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre spetta a chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi l’inidoneità dell’infedeltà a determinare l’intollerabilità della convivenza, fornire la prova delle circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire dell’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (cfr. Cass., Sez. VI, 19/02/2018, n. 3923; Cass., Sez. I, 14/02/2012, n. 2059). Ai fini di tale accertamento, è stata ritenuta peraltro irrilevante la prova della tolleranza eventualmente manifestata da un coniuge nei confronti della condotta infedele tenuta dall’altro, essendosi esclusa la configurabilità della stessa come “esimente oggettiva”, idonea a far venire meno l’illiceità del comportamento, o l’ammissibilità di una rinuncia tacita allo adempimento dei doveri coniugali, in quanto aventi carattere indisponibile, ed essendosi ritenuto che la sopportazione dell’infedeltà del coniuge possa essere piuttosto presa in considerazione, unitamente ad altri elementi, quale indice rivelatore di una crisi in atto da tempo, nell’ambito di una più ampia valutazione volta a stabilire se tra le parti fosse già venuta meno raffectio coniugalis (cfr. Cass., Sez. I, 20/09/2007, n. 19450; 27/06/1997, n. 5762; 2/03/1987, n. 2173)>>.

Va poi al caso sub iudice, con l’interessante precisaizone:

<< deve riternersi che la tolleranza manifestata dal ricorrente nei confronti della relazione extraconiugale intrapresa dalla moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda in tanto potesse impedirgli di far valere la violazione del dovere di fedeltà, in quanto fosse stato dedotto e dimostrato che la predetta relazione non aveva costituito causa della crisi coniugale, all’epoca già in atto e mai più sanata, ovvero che la stessa era rimasta un episodio isolato, eventualmente dovuto ad un temporaneo appannamento del vincolo affettivo tra i coniugi, e superato da una piena e completa ripresa dei rapporti tra gli stessi, nuovamente deterioratisi in epoca successiva per altre ragioni.

A sostegno della domanda di addebito, il ricorrente aveva invece allegato e chiesto di essere ammesso a provare che la predetta relazione era stata seguita da altre, intraprese successivamente alla cessazione della prima e fino all’instaurazione del giudizio di separazione, in tal modo lasciando chiaramente intendere che la tolleranza da lui inizialmente manifestata nei confronti della condotta del coniuge era venuta meno, a causa della reiterata violazione del dovere di fedeltà da parte dello stesso, che aveva determinato il fallimento dell’unione. A fronte di tale allegazione, l’atteggiamento tenuto dal ricorrente nei confronti della prima relazione non poteva essere considerato sufficiente a giustificare il rigetto della domanda di addebito della separazione, a tal fine occorrendo prendere in esame la successiva evoluzione del rapporto coniugale, ed in particolare accertare se si fossero verificate nuove violazioni del dovere di fedeltà da parte della G., e quale fosse stata la reazione del F.: soltanto ove fosse risultato che a seguito delle cessazione della predetta relazione la vita coniugale era ripresa regolarmente senza ulteriori violazioni del dovere di fedeltà, oppure che la donna aveva intrapreso altre relazioni extraconiugali senza che l’uomo vi desse importanza, si sarebbe potuto concludere che non erano state le predette infedeltà ad impedire la prosecuzione della convivenza, divenuta intollerabile per altre ragioni, che avevano fatto venir meno l’affectio coniugalis.>>

Quindi cassa con rinvio.

Però non ritiene assorbito il motivo impugnatorio relativo alla determinazione dell’assegno: <<se è vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 1, l’esclusione dell’addebito costituisce presupposto indispensabile per il riconoscimento dell’assegno, è anche vero, però, che nel caso in cui la predetta statuizione dovesse trovare conferma a conclusione del giudizio di rinvio, la questione posta con il secondo motivo diverrebbe nuovamente rilevante, sicché non può escludersi l’interesse delle parti all’esame della stessa, il cui esito resta tuttavia condizionato a quello del riesame della domanda di addebito (cfr. Cass., Sez. I, 27/09/2017, n. 22602; Cass., Sez. III, 29/02/2008, n. 5513; 6/06/ 2006, n. 13259).>>. Motivo però che viene respinto perchè non in diritto ma sostanzialmente volto a rivalutare il giudizio fattuale, senza rispettare l’art. 360 n. 5 cpc

Poteri di indagine del giudice nella quantificazione dell’assegno di mantenimento da separazione personale e rilevanza di redditi non dichiarati

Cass., sez. 1, del 19.07.2022 n. 22.616, rel. Reggiani, affronta analiticamente i temi in oggetto.

Dopo iniziali esatte considerazioni, così conclude sui redditi evasi:

<<Dall’esame delle norme sopra richiamate si evince con chiarezza che ciò che rileva, ai fini della determinazione degli assegni di mantenimento del coniuge e dei figli in sede di separazione, è l’accertamento del tenore di vita condotto dai coniugi quando vivevano insieme, a prescindere, pertanto, dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali da questi ultimi godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, in relazione ai quali l’ordinamento prevede, anzi, strumenti processuali, anche ufficiosi, che ne consentano l’emersione ai fini della decisione.

Le indagini della polizia tributaria hanno proprio tale funzione, posto che, di fronte a risultanze incomplete o inattendibili, il giudice ha la possibilità di fare ricorso, anche d’ufficio, a tale mezzo di ricerca della prova, poiché l’occultamento di risorse economiche rende per definizione estremamente difficile la dimostrazione della realtà delle stesse in base alle regole dell’ordinario riparto dell’onere della prova, rischiando di pregiudicare il diritto di difesa di chi ha interesse alla loro emersione processuale>>

Sul potere del giuduce di disporre indagini tramite Polizia Tributaria:

<<4.2. Il potere del giudice di disporre indagini della polizia tributaria è la massima espressione della particolarità della disciplina regolatrice dei procedimenti in esame. Qualora ritenga che gli elementi di prova offerti non siano sufficienti o attendibili, infatti, è lo stesso giudice che, per il tramite della polizia tributaria, interviene dando disposizioni ufficiose, per accertare la reale situazione economica e patrimoniale dei coniugi.

In quanto deroga ai generali principi dell’onere della prova, è di fondamentale rilievo la delimitazione dell’ambito di operatività di tale potere ufficioso.

4.3. In tale ottica, questa Corte ha più volte precisato che la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, non può essere letto nel senso che il “potere” del giudice di disporre indagini di polizia tributaria debba essere considerato come un “dovere” imposto dalla “mera contestazione” delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche (v. Cass. Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005).

La relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge devono, infatti, basarsi su fatti specifici e circostanziati (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 23263 del 15/11/2016, con riferimento all’assegno divorzile; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 2098 del 28/01/2011, con riguardo al contributo al mantenimento dei figli).

Lo stesso principio è stato enunciato espressamente con riguardo ai giudizi di separazione, in virtù della sopra menzionata applicazione analogica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9 (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 10344 del 17/05/2005).

Per poter fondatamente richiedere l’attivazione dei poteri ufficiosi in questione, non basta, dunque, contestare genericamente la veridicità delle allegazioni e delle prove altrui, ma occorre che siano offerti fatti concreti, in grado di mettere in discussione la rappresentazione della parte avversa in ordine alle condizioni di vita delle parti, come avviene proprio nel caso in cui siano prospettate entrate occultate al fisco.

Ovviamente tale onere di allegazione probante non arriva fino alla dimostrazione dell’effettiva maggiore entità delle consistenze reddituali della controparte e dell’incidenza delle stesse sul tenore di vita familiare o sulle condizioni economiche delle parti.

Ciò che rileva è la deduzione di fatti concreti, risultanti dagli atti di causa, che inducano a far ritenere che la parte detenga sostanze economiche o patrimoniali ulteriori rispetto a quelle rappresentate in giudizio.

Si tratta, in sintesi, della necessità di far emergere elementi circostanziati in ordine all’incompletezza o all’inattendibilità della rappresentazione delle condizioni reddituali o patrimoniali delle parti.

4.4. Questa Corte ha più volte affermato che il diniego delle indagini in questione non è sindacabile, purché esso sia correlabile, anche per implicito, ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (così Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 8744 del 28/03/2019; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14336 del 06/06/2013; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16575 del 18/06/2008; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9861 del 28/04/2006).

E’, tuttavia, evidente che tale valutazione di superfluità deve fondarsi su corretti presupposti giuridici, tra cui quelli inerenti alla individuazione degli elementi che rilevano ai fini della decisione.

In particolare, si deve tenere conto del fatto che, ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare, funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia.

Inoltre, come precisato in alcune pronunce di legittimità pienamente condivise dal Collegio, e qui ribadite, esiste un limite alla menzionata discrezionalità del giudice.

Tale limite è rappresentato dal fatto che quest’ultimo, pur potendosi avvalere delle indagini della polizia tributaria, non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento ed alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione, da parte loro, degli assunti sui quali le richieste si basano, avendo in tal caso l’obbligo di disporre tali accertamenti (così Cass., Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005 e Cass., Sez. 1, n. 8417 del 21/06/2000; v. già Sez. 1, Sentenza n. 3529 del 21/03/1992 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6087 del 03/07/1996).

In altre parole, se la parte ha offerto elementi concreti e specifici a sostegno della richiesta di indagini della polizia tributaria, il giudice di merito non può rigettare la richiesta e, nel contempo, rigettare anche le domande su di essa fondate.

Tale soluzione interpretativa risponde alla ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, che, come sopra evidenziato, attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti patrimoniali, al fine di far emergere nel processo consistenze economiche non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se non impossibile, la loro rivelazione.

Una soluzione diversa porterebbe ad un esito del tutto contrario alla ratio appena ricordata, consentendo di creare quello “sbarramento istruttorio” lamentato dalla ricorrente, per effetto del quale, ritenute superflue le indagini della polizia tributaria, anche le domande fondate sull’esito di tali indagini vengono rigettate a causa della mancanza di prova degli assunti fondanti che, invece, avrebbero potuto essere confermati dalle indagini non disposte>>