La corte del Delaware in una ponderosa sentenza sul purpose della company (McRitchie v. Zuckerberg, et al.)

La court of chancery , giudice Leister, C.A. No. 2022-0890-JTL , 30 aprile 2024, (qui la pag. web della corte con lelenco  perlomeno ad oggi e qui link diretto al testo dell’opinion) ragiona sull’altgenrativca single-firm model (or firm-specific model) vs. Modern Modern Portfolio Theory diversification.

Segnalata dal prof.  Bainbridge.

Curiosa causa petendi: gli attori allegano la negligenza xcostituita dall’aver Zuck Sandbert etc. condotto Meta etc. con riguardo all’itneresse della società medesima e non deglio azionisti che hanno portafoglio diversidicati: i quali preferirebbero che Meta internalizzasse le esternalità prodotte per valorizzare al meglio i loro portafogli.

Forse mi sfugge qualcosa, ma ha dell’incredibile che si impegni una corte e che questa risponda con una setnenza di 101 opagg. su un punto che dovrebbe essere pacifico: gli amministgratori devono occuparsi di far rendere gli investimenti nella loro societò, non in eventuali altre in cui alcuni soci avessero per caso investito per diversificare (nemmeno nella modalità light di evitare loro dannosità facendosene carico in proprio).   Così facendo, al contrario, si renderebbero inadempienti al loro incarico.

Trattandosi di contratto, infatti, chi lo gestisce deve far fruttare quel contratto, non altri.

A parte il ns art. 2247 cc, la logica lo impone. Sarebbe invece giuridicamente illogico onerare gli amministratori di far fruttare investimenti in altri contratti sociali: a meno che i patti sociali questo dicano e che lo dicano in modo sufficientemente determinato.

Sintesi iniziale offerta dalla Corte:

<<Under the standard Delaware formulation, directors owe fiduciary duties to the corporation and its stockholders. Implicitly, the “stockholders” are the stockholders of the specific corporation that the directors serve, i.e., “its” stockholders.
The standard Delaware formulation thus contemplates a single-firm model (or firm-specific model) in which directors of a corporation owe duties to the stockholders as investors in that corporation. That point is so basic that no Delaware decisions have felt the need to say it. Fish don’t talk about water.
The plaintiff takes a different view. Capitalizing on the word “stockholders,” the plaintiff observes that stockholders are investors. The plaintiff then argues that under Modern Portfolio Theory, prudent investors diversify. Therefore, says the plaintiff, the law must operate on the assumption that a corporation’s stockholders are diversified. The plaintiff concludes that owing fiduciary duties to the corporation and its stockholders must mean owing duties that run to the corporation and its stockholders as diversified equity investors>>.

(Super)Società di fatto tra soci oppure holding di fatto?

Cass. sez. I, ord. 02/01/2024 n. 74, rel. Fidanzia:

<<3. Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono fondati. Va preliminarmente osservato che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 10507/2016, n. 7903/2020, n. 4784/2023), l’art. 147, comma 5, l.fall. – che trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto), non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento -postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere tendenzialmente conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. E’ stato quindi sovente ritenuto che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto, essendo, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003).

Va, tuttavia, osservato che il fatto che vi possa essere l’abuso di una società da parte di una o più persone (fisiche e giuridiche) che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) nell’interesse proprio delle stesse, non esclude, comunque, la possibile sussistenza tra le stesse persone e la società così abusata (cioè piegata ai fini d’interesse dei suoi soci o soggetti che di fatto la governano) di un rapporto societario di fatto, almeno tutte le volte in cui alla iniziale affectio tra tali persone e la società, sia subentrato, in forza di una modifica ed evoluzione in concreto degli originari accordi o per effetto di essi (art. 2497-septies c.c.), l’esercizio di un abuso su quest’ultima, e cioè la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della stessa, da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo (cfr. gli artt. 2497-sexies e 2359 c.c.).

Non è, peraltro, incompatibile con la sussistenza del rapporto societario non formalizzato tra persone fisiche e una o più società di capitali (e la sua prosecuzione tra le stesse fino al recesso di fatto di una delle stesse o alla sua esclusione in conseguenza del suo fallimento ovvero alla cessazione in fatto dell’attività d’impresa comune), il fatto che queste ultime, sin dall’inizio oppure in seguito, siano state, in concreto, programmaticamente volte a farsi carico dei debiti conseguenti all’attività comune in misura superiore rispetto agli utili ad esse riservati o comunque ricevuti (e le persone fisiche, simmetricamente, ad assumere debiti in misura inferiore rispetto ai vantaggi patrimoniali ricevuti).

Se è pur vero che la partecipazione agli utili ed alle perdite, in relazione al conferimento eseguito, costituisce duplice elemento essenziale ed inscindibile della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato, resta, nondimeno, fermo il principio per cui “l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe”; “quando, per contro, sussista una regolamentazione” (che può essere assunta anche in via tacita e nella stessa forma modificata nel corso della società) “della partecipazione al rischio ed agli utili in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame” (in questi precisi termini, Cass. n. 8927 del 1994; Cass. n. 642 del 2000). Esulano, pertanto, dal divieto tanto le pattuizioni intercorse tra i soci (anche di fatto) di una società di persone che regolano la partecipazione degli stessi al rischio e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione del singolo socio, quanto gli accordi che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi o che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.

La Corte d’Appello non si è attenuta agli esposti principi, atteso che, astenendosi dall’esame della situazione concreta sottoposta alla sua attenzione – non essendo certo sufficiente, ai fini di ricostruzione del rapporto e della organizzazione economica fra i soggetti, il generico riferimento, in alcun modo circostanziato, ai “dati fattuali indicati dalla curatela” -ha escluso la sussistenza di una società di fatto sulla base della superficiale lettura della massima di questa Corte, che richiede, in linea di principio e però sulla base di un criterio di osservazione empirica, la conformità del comune intento sociale perseguito dalla supersocietà di fatto all’interesse dei soci; la Corte d’Appello non ha minimamente indagato se l’eventuale abuso fosse stato programmato sin dall’origine, da quando i soggetti della invocata (dalla curatela) supersocietà di fatto avevano iniziato ad interagire o fosse stato solo il frutto della violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo. Così operando, il giudice di secondo grado ha omesso un approfondito esame dei requisiti richiesti dall’art. 2247 cod. civ. e per come intesi in giurisprudenza per poter accertare l’esistenza di una supersocietà di fatto>>.

Fallimento “in estensione” della società di fatto

Cass. sez. I ,ord. 29/12/2023 n. 36.378, rel. Dongiacomo:

premessa sull’estensione del fallimento ex c. 5 art. 147 l. fall. anche al caso di falliento di società di capitali:

<<4.5. In effetti, “una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi dell’art. 147 l.fall., comma 1”, “non v’e’ alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto comma 5 – in cui l’esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo”, non potendosi, infatti, concepire una “diversità di trattamento fra due fattispecie che presentano identità di ratio”, e dovendosi, d’altro canto, escludere che “il carattere eccezionale della disposizione (che, secondo quanto si legge nella relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. di riforma della legge fallimentare, ha recepito l’orientamento giurisprudenziale in tema di fallibilità della c.d. società occulta) ne impedisca un’applicazione più ampia di quella consentita dalla sua formulazione letterale” (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016, in motiv.).

4.6. L’art. 147, comma 5, l.fall., come questa Corte ha ripetutamente affermato (Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 3867 del 2020; Cass. n. 10507 del 2016; più di recente, Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.), trova, invero, applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa e’, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di interpretazione estensiva (Cass. n. 366 del 2021, in motiv.), anche (come poi confermato dall’art. 256, comma 5, c.c.i.) nel caso in cui il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. “supersocietà” di fatto): “sia nel caso in cui dopo la dichiarazione di fallimento della società risulti l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili (art. 147, comma 4), sia in quello in cui (art. 147, comma 5) dopo la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale – o della società, in base alla citata esegesi estensiva – risulti che l’impresa è riferibile a una società di cui il fallito (imprenditore individuale o società) sia socio illimitatamente responsabile (come tipicamente accade per la supersocietà di fatto), si procede sempre “allo stesso modo”: vale a dire ai sensi dell’art. 147, comma 4, in base alla specifica competenza del tribunale che ha già dichiarato il fallimento” (Cass. n. 4712 del 2021, in motiv.; conf., del resto, Corte Cost. n. 255/2017, secondo la quale “un’interpretazione dell’art. 147, comma 5, l.fall. che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.”).

4.7. Deve, tuttavia, evitarsi il rischio che l’art. 147, comma 5, l.fall. (il cui focus, appunto, “si volge… verso l’ipotesi in cui – una volta dichiarato il fallimento di un (singolo) imprenditore – successivamente emerga che, invece, si tratta di “impresa… riferibile a una società””, nel senso che mentre “il comma 4 riguarda il caso di successiva emersione di soci occulti di società palese”, “il comma 5”, invece, “si concentra sul caso della successiva emersione di una società… dapprima occulta e distinta dal soggetto già dichiarato fallito”: Cass. n. 366 del 2021, in motiv.) possa essere utilizzato per aggirare le separate disposizioni dettate dall’art. 2476 c.c., comma 7, e art. 2497 c.c. ed evitare l’esercizio di un’azione di responsabilità dai profili assai più complessi e dagli esiti incerti, ma di area non coincidente: “la norma non si presta… all’estensione al dominus (società o persona fisica) dell’insolvenza del gruppo di società organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma piuttosto all’estensione ad un gruppo orizzontale di società, non soggetto ad attività di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una società di persone (la c.d. supersocietà di fatto)” (Cass. n. 10507 del 2016 cit., in motiv.), a condizione, naturalmente, che sussista la relativa affectio>>.

Sulla prova del rapporto societario:

<<.8. La prova della sussistenza di tale società dev’essere, infatti, fornita attraverso la dimostrazione dei presupposti costituiti dall’esercizio in comune dell’attività economica dall’esistenza di un fondo comune (da apporti o attivi patrimoniali) e dall’effettiva partecipazione ai profitti e alle perdite e, dunque, da un agire nell’interesse, ancorché diversificato (ma non contro l’interesse) dei soci (Cass. n. 12120 del 2016, in motiv.; Cass. n. 4784 del 2023, in motiv.). Il fatto che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto ed in via tendenziale, possibile prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016; più di recente, Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.) e, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003), nei cui confronti il curatore del fallimento della società che vi è assoggettata può eventualmente agire in responsabilità (art. 2497 c.c.) e che (al pari del caso in cui la società di fatto svolge un’attività d’impresa commerciale diversa da quella della società già fallita che ne è socia e che non e’, quindi, alla predetta società di fatto “riferibile”: art. 147, comma 5, l.fall., in relazione a quanto previsto dall’art. 149 l.fall.), può, se del caso, essere a sua volta dichiarata autonomamente fallita, in via principale (e cioè a norma degli artt. 6 e 15 e art. 147, comma 1, l.fall.) e non per estensione, a richiesta di uno dei soggetti legittimati, ove ne siano accertati i presupposti soggettivi (art. 1, comma 2, l.fall.) e lo stato d’insolvenza (art. 5 l.fall.) rispetto ai debiti alla stessa imputabili (Cass. n. 10507 del 2016; Cass. n. 12120 del 2016; Cass. n. 15346 del 2016; Cass. n. 5520 del 2017; Cass. n. 7903 del 2020; Cass. n. 20552 del 2022, in motiv.)>>

Correttamente applicato dalla sentenza di appello (purtroppo le sole iniziali rendono difficile la compremnsione ed è anche per questo  che la Banca Dati di Merito dovrebbe lasciare il posto al ripristino del precedente accesso completo alla giurisprudenza di merito):

<<4.9. La corte d’appello si è senz’altro attenuta agli esposti principi. La sentenza impugnata, infatti, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità salvo che per il vizio – senz’altro deducibile (pur a fronte della medesima ricostruzione dei fatti da parte del tribunale e della corte d’appello, trattandosi di giudizio al quale non si applica l’art. 348-ter c.p.c., comma 5: Cass. n. 5520 del 2017) ma nel caso in esame neppure articolato con la dovuta specificità – d’omesso esame da parte del giudice di merito di fatti decisivi risultanti dalla stessa sentenza o dagli atti del giudizio (e non anche, invece, come pretendono i ricorrenti, per l’omesso esame delle prove raccolte quando i fatti rilevanti ai fini della decisione sono stati, come ha fatto la corte d’appello, comunque presi in considerazione dal giudice di merito: Cass. SU n. 8053 del 2014), ha (tra l’altro) accertato, in fatto: – lo svolgimento, da parte tanto della (Omissis) s.r.l. e della (Omissis) s.r.l., quanto di R.C., T.R.P. e T.R.C., della (stessa) attività, già facente capo alla società fallita, e cioè l'”impresa afferente la clinica sita in (Omissis)”; – la comunanza tra i diversi compartecipi dell’organizzazione aziendale a tal fine utilizzata, come i locali, l’insegna e le utenze, con i relativi dipendenti, in ragione dell’esecuzione, da parte di ciascuno di essi, di apporti patrimonialmente rilevanti in favore della stessa, come beni aziendali, somme di denaro, prestazioni di servizi e rinunce a crediti maturati nei suoi confronti; – la distribuzione in favore dei partecipi dei benefici economici conseguenti, in termini di percezione di somme di denaro non corrispondenti alle prestazioni d’opera svolte ovvero di mancato versamento di somme giuridicamente dovute, all’esercizio in comune dell’impresa sanitaria; ed ha, in forza di tale accertamento, ritenuto, in via indiziaria, che, tra le indicate società e persone fisiche, sussistesse una società di fatto finalizzata all’esercizio dell’impresa già facente capo alla (Omissis) s.r.l., in precedenza fallita, vale a dire la gestione della predetta clinica, compreso “l’accreditamento per le prestazioni sanitarie rilasciato dal servizio sanitario regionale”.

4.10. La corte d’appello, così facendo, ha senz’altro accertato i presupposti necessari per l’affermato vincolo societario: la cui sussistenza, in effetti, se non richiede, semplicemente, che le società di capitali che ne fanno parte abbiano, direttamente o indirettamente, (come nella specie) gli stessi soci e gli stessi amministratori (trattandosi di fatti compatibili anche con il mero esercizio di un’attività di direzione e coordinamento sulle stesse da parte di questi ultimi), può ben essere affermata (a prescindere dalle forme giuridiche che i relativi atti abbiano assunto) tutte le volte in cui, com’e’ avvenuto nel caso in esame, le stesse società, al pari dei relativi soci e/o amministratori, abbiano conferito in un fondo comune – in termini (di volta in volta) di attribuzione in proprietà (art. 2254 c.c., comma 1), come le somme di denaro versate per il pagamento dei debiti, oppure in godimento di determinati beni (art. 2254 c.c., comma 2, e art. 2281 c.c.), come il complesso aziendale di proprietà della società inizialmente fallita, ovvero di esecuzione della propria opera (art. 2263 c.c., comma 2) e, più in generale, di attribuzione patrimonialmente rilevante, come la rinuncia a far valere crediti o diritti o il rilascio di fideiussioni e di finanziamenti che, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno del garante o finanziatore all’attività di impresa, qualificabile in realtà come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali (Cass. n. 4385 del 2023) – “risorse umane e materiali” “per il conseguimento dell’oggetto sociale” (art. 2253 c.c., comma 2), vale a dire l’esercizio dell’impresa già facente capo alla (Omissis) s.r.l.: in modo da poter così presumere (in difetto di emergenze che possano deporre in senso contrario, come la ricezione di un compenso corrispondente agli apporti patrimoniali o ai servizi resi agli altri) che i risultati (positivi e negativi) dell’attività svolta dagli stessi siano destinati a ricadere, secondo le regole da loro fissate, su tutti (i soci, con l’unica particolarità che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale ma in nome proprio: Cass. n. 14365 del 2021; Cass. n. 17925 del 2016; Cass. n. 366 del 1998, la quale ha evidenziato come, in tale ipotesi, “in deroga ai principi desumibili dagli artt. 1388,1705 e 1706 c.c., la responsabilità verso i terzi, per il compimento di tali operazioni” grava anche “su coloro nel cui interesse esse siano state compiute senza tuttavia spenderne il nome”; Cass. n. 1106 del 1995) e che, in definitiva, l’attività comune così svolta, avendo natura sostanzialmente sociale, sia, conformemente all’interesse dei partecipanti, programmaticamente svolta, come nel caso in esame, al fine di trarne un vantaggio economico da dividersi e distribuire tra loro. E’, in effetti, emerso che: – le persone fisiche hanno “incamerato in proprio ingenti somme apparentemente versate a titolo di “pagamenti stipendi”, ma per importi non compatibili con l’attività lavorativa realmente espletata”; – la (Omissis) s.r.l. ha beneficiato della cessione dei crediti maturati e maturandi in capo alla società già fallita nei confronti della ASP di Cosenza e del “mancato pagamento del canone annuale” di Euro. 500.000,00 per l’affitto dell’azienda; – la società inizialmente fallita ha ricevuto, nel 2015, le “somme necessarie al pagamento dei debiti verso i dipendenti e fornitori” e, nel 2016, goduto del “pagamento delle morosità nei confronti del personale dipendente per retribuzioni e contributi” >>

Sull’insolvenza rilevante:

<<4.14. Ed invero questa Corte ha recentemente ribadito (Cass. n. 1234 del 2019, in motiv.) il principio per cui, nell’ipotesi (come in esame) contemplata dall’art. 147, comma, 5, l.fall., l’insolvenza da prendere in considerazione è quella già accertata nei confronti dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) ma in realtà fallito come socio di una società occulta, perché l’insolvenza della società occulta è la stessa insolvenza dell’imprenditore apparentemente individuale (o della società) già dichiarato fallito (conf., Cass. n. 1106 del 1995, in motiv., la quale ha osservato come l’indicata conseguenza “deriva ineluttabilmente dai patti sociali della società occulta, che si concretano, fra l’altro, (si fa, per attenersi alla specie, il caso dell’imprenditore individuale che agisce per conto di una società occulta) nell’autorizzare il suddetto imprenditore a non spendere il nome della suddetta società, agendo solo per suo conto” sicché, in deroga all’art. 1705 c.c., i soci assumono responsabilità personale ed illimitata, anche per gli atti compiuti dal socio che ha agito in proprio nome, ma per conto della società dagli stessi stipulata”: “la necessità di dare attuazione prioritaria al principio (che non può essere derogato nei confronti dei terzi: vedi art. 2291, comma 2) della responsabilità personale illimitata, stabilito dall’art. 2291, comma 1, deroga all’esigenza della spendita del nome (art. 2266 c.c.); altrimenti, verrebbe posta in forse la stessa figura della società occulta, il che sarebbe contrario alla realtà delle relazioni commerciali, prima ancora che ai principi di legge”).

4.15. La società, al pari dei suoi soci illimitatamente responsabili, può, naturalmente, dimostrare in giudizio, in sede di estensione ai sensi dell’art. 147, comma 5, l.fall., l’insussistenza dello stato d’insolvenza provando che la stessa e’, al contrario, in condizione di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle proprie (nei termini esposti) obbligazioni (cfr. Cass. n. 4712 del 2021: “il fallimento della società…, finisce per costituire, secondo l’art. 147, l’occasione per ravvisare (o comunque per accertare) anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto”) ovvero che i debiti assunti in nome proprio dai soci (successivamente emersi come tali) non sono, in realtà, riferibili all’impresa (ad es., perché personali) e non sono, pertanto, debiti della società tali da integrarne, in caso d’impossibilità di farvi fronte con mezzi normali, lo stato d’insolvenza (cfr. Cass. n. 10507 del 2016: “all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f. (cui gli altri soci potrebbero, in tesi, conferire le liquidità necessarie al pagamento dei debiti)”).

4.1. La corte d’appello si è senz’altro attenuta anche ai principi esposti, dove, in particolare ed ancora, ha: – per un verso, desunto, quale fatto “indiziante” (ma, in realtà, come detto, direttamente dimostrativo dei debiti societari), le obbligazioni della (super) società di fatto da quelle assunte (in nome proprio) dal “socio cui era inizialmente imputabile l’attività economica”, e, precisamente, dall’ammontare del passivo della fallita (Omissis) s.r.l. (che, alla data della pronuncia di primo grado, ammontava ad Euro. 24.172.090,97, cui occorreva aggiungere le domande di ammissione tardiva relative a debiti erariali, non ancora esaminate, per complessivi Euro. 94.033.337,24, per un’esposizione debitoria complessiva pari ad oltre 118.000.000,00 di Euro); – per altro verso, rilevato come nessuno degli (altri) soci di fatto (e cioè la Cura T.R. s.r.l., R.C., T.R.C. e T.R.P.) risultava avere disponibilità finanziarie tali da garantire la completa copertura dei debiti liquidi ed esigibili riferibili alla società di fatto di cui fanno parte; ed ha, in conseguenza, correttamente affermato (in difetto di emergenze probatorie che potessero dimostrare che tali debiti, al pari di quelli degli altri soci, come la (Omissis) s.r.l., gravata da debiti iscritti a ruolo per oltre 2.760.000 Euro, non erano, in fatto, riferibili all’impresa comune e, quindi, non imputabili alla società di fatto tra gli stessi) che “l’ingente esposizione debitoria della società di fatto è di entità tale da rendere manifesto lo stato di insolvenza della società medesima che non è più in grado di far fronte regolarmente e con mezzi normali alle proprie obbligazioni”. D’altra parte, una volta accertata l’esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall’art. 147, comma 1 (e comma 5), l.fall., senza necessità dell’accertamento della loro specifica insolvenza (Cass. n. 1095 del 2016)>>.

Esecuzione del contratto sociale secondo correttezza e buona fede

Trib. Roma n. 1370/2023 del 27.01.2023,  RG 6118/2018, rel. goggi (segnalata da giurisprudenzadelleimprese.it):

<<Se è vero, infatti, secondo quanto previsto dall’art. 1375 c.c., che il contratto sociale deve essere eseguito in buona fede e che, dunque, tutte le determinazioni e decisioni dei soci, assunte formalmente o informalmente durante lo svolgimento del rapporto associativo, debbono essere considerate come veri e propri atti di esecuzione e devono conseguentemente essere valutate nell’ottica della tendenziale migliore attuazione del contratto sociale, dovendosi, dunque, ai fini che qui rilevano, considerare antigiuridico anche un atto che in concreto si presenti espressione dell’inosservanza dell’obbligo di fedeltà allo scopo sociale e/o del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, occorre tuttavia che in concreto venga fornita la prova del pregiudizio patrimoniale effettivamente subito e della correlazione eziologica tra la condotta inadempiente del socio ed il danno al patrimonio sociale che viene ritenuto imputabile a tale condotta>>

Chiaro, conciso ed esatto. Il rapporto sociale è contrattuale e ad esso si applica la disciplina del contratto.

Poi sull’onere della prova:

<<Invero, dall’art. 2697 c.c. – che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell’estinzione dello stesso – si desume il principio della presunzione di persistenza del diritto: in forza di tale principio, pacificamente applicabile all’ipotesi della domanda di adempimento, ove il creditore dia la prova della fonte negoziale o legale della propria pretesa, la persistenza del credito si presume ed è, dunque, sul debitore che grava l’onere di
provare di aver provveduto alla relativa estinzione ovvero di dimostrare gli altri atti o fatti allegati come eventi modificativi o estintivi del credito di parte avversa (in tal senso, Cass. Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533; conf., ex plurimis, Cass., 21 maggio 2019, n. 13685; Cass., 13 giugno 2006, n. 13674; Cass., 12 aprile 2006, n. 8615)>>.

Supersocietà di fatto è figura diversa da holding di fatto: nella prima serve anche la c.d. “economia aggiuntiva”

Cass. sez 1 del 15.02.2023 n. 4784, rel. Campese, sull’oggetto.

Sulla presunto requisito della “economia aggiuntiva” per la supersocietà di fatto:

<<5.2. Neppure convince l’assunto per cui (cfr. in particolare, il secondo motivo), nel ritenere configurabile una supersocietà di fatto tra la (Omissis) s.r.l., il G., la (Omissis) s.r.l. e la (Omissis) s.r.l., la corte di appello non avrebbe verificato e riscontrato rigorosamente l’esistenza di un elemento imprescindibile per la configurazione della fattispecie, come richiesto dalla giurisprudenza, ossia il presupposto dell’economicità aggiuntiva derivante dalla società di fatto.

5.2.1. Di economia aggiuntiva, invero, può discutersi – in thesi – in presenza di una holding di tipo personale (che abbia assunto la veste di società di fatto), costituente impresa commerciale suscettibile di fallimento in quanto fonte di responsabilità diretta dell’imprenditore, quando questa agisca in nome proprio per il perseguimento di un risultato economico ottenuto attraverso l’attività svolta, professionalmente, con l’organizzazione ed il coordinamento dei fattori produttivi relativi al proprio gruppo d’imprese.  Deve trattarsi, cioè, di una stabile organizzazione volta a determinare l’indirizzo, il controllo ed il coordinamento di altre società (non limitandosi al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio): il che, appunto, ne consente la configurabilità come un’autonoma impresa assoggettabile a fallimento sia quando la suddetta attività si esplichi nella sola gestione del gruppo, sia quando abbia di natura ausiliaria o finanziaria (cfr. sostanzialmente, in tal senso, Cass. n. 5520 del 2017; Cass. n. 23334 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003, Cass. n. 12113 del 2002).   In quest’ottica, allora, le società coordinate devono risultare destinate a realizzare un medesimo scopo economico non corrispondente con quello proprio ed autonomo di ciascuna di queste esse, né coincidente con un mero godimento degli utili eventualmente prodotti dalle medesime.   Peraltro, se è pacifico che, in caso di attività di direzione e coordinamento abusiva, l’holder miri a realizzare un fine di lucro tendenzialmente distinto da quello perseguito dalle singole società eterodirette, esso può, tuttavia, anche coincidere con quest’ultimo, allorquando il profitto conseguito rifluisce nel patrimonio dell’imprenditore capogruppo.   Non occorre, per converso, che l’attività di direzione risulti idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici diversi ed ulteriori rispetto a quelli realizzabili in mancanza dell’opera di coordinamento, né che le attività di servizi realizzate dall’holder disvelino un’economicità autonoma rispetto a quella propria delle attività svolte dalle società controllate.

5.2.2. La corte di appello, tuttavia, condividendo gli assunti del giudice di prime cure, ha chiaramente inteso escludere che, nella specie, si fosse al cospetto di una holding di tipo personale che abbia assunto la veste della società di fatto, sicché nemmeno è utile indugiare ulteriormente sul punto>>.

Perdita della non commercialità dell’ente e automatica qualifica come società di fatto

Cass.  sez. 5, n° 546 del 11.10.2023, rel. D’Aquino:

<< Nel momento in cui l’associazione non riconosciuta, quale ente non commerciale, perde la natura di ente non commerciale, essa viene assoggettata, nel caso in cui si accerti che l’attività già associativa fosse svolta da più associati tra di loro, alla  disciplina degli enti collettivi commerciali (Cass., n. 39789/2021, cit.).

Di conseguenza, stante l’assenza di un formale contratto scritto di società tra i soci, l’attività commerciale svolta tra gli stessi deve ritenersi equiparabile a quella delle società in nome collettivo irregolari (Cass., Sez. Lav., 11 giugno 2010, n. 14084). Nel qual caso, l’intenzionale esercizio in comune tra i soci di un’attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o
servizi comporta l’applicazione del regime di trasparenza, «atteso che la disciplina tributaria (artt. 5, terzo comma, lett. b, e 6, terzo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) non richiede, per la tassazione del reddito di una società di fatto, altro requisito se non la ravvisabilità nel suo oggetto dell’esercizio di un’attività commerciale, e che la costituzione di una società è ammessa anche per l’esercizio occasionale di attività economiche» (Cass., Sez. V, 11 marzo 2021, n. 6835; conf. Cass., Sez. V, 24 dicembre 2021, n. 41510).
11. Deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: «La perdita della natura decommercializzata dell’attività svolta dagli enti collettivi non societari costituiti nelle forme dell’associazione non riconosciuta e la conseguente qualificazione dell’attività dall’associazione svolta quale attività commerciale comporta, ove la stessa attività venga svolta da più associati in comune tra loro, la qualificazione dell’ente collettivo quale società di fatto e la conseguente applicazione del regime di trasparenza agli associati che siano qualificabili quali soci della medesima società di fatto».   La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del suddetto principio>>.

Il dovere degli amministratori è favorire il beneficio dei soci, secondo il § 172.1 Companies Act del 2006

Secondo la disposizione citata, <A director of a company must act in the way he considers, in good faith, would be most likely to promote the success of the company for the benefit of its members as a whole>.

Il che si determina avendo riguardo al lungo temrine, ai dipendneti etc. (ivi, lettere a-f).

Disposizione assai discussa nella sua portata: in particolare quale è il ruolo degli stakeholders diversi dai soci (soprattutto dei lavoratori)?

Ebbene, la Supreme Court inglese nella sentenza 5 ottobre 2022, BTI 2014 LLC (Appellant) v Sequana SA and others (Respondents), [2022] UKSC 25, dice che <<successo della company>> significa <<successo dei soci>>.

Almeno fino a che la società arriva vicino alla insolvenza, quando l’interesse da realizzare è anche quello dei creditori. Si v. < it is clear that, although the duty is owed to the company, the shareholders are the intended beneficiaries of that duty. To that extent, the common law approach of shareholder primacy is carried forward into the 2006 Act >, § 65

<The considerations listed in paragraphs (a) to (f) are capable of including the
treatment of certain creditors of the company. Creditors are liable to include
employees, suppliers, customers and others with whom the company has business
relationships; and their treatment may well affect the company’s reputation and its
creditworthiness, and have consequences for it in the long term. However, the primary
duty imposed by section 172(1) remains focused on promoting the success of the
company for the benefit of its members>, § 67.

E poi  : < In addition, it seems to me that acceptance that the fiduciary duty of directors to the
company is re-oriented so as to encompass the interests of creditors, when the
company is insolvent or bordering on insolvency, must result in a similar re-orientation
of related duties. The proper purposes for which powers can be exercised, in
accordance with section 171, include advancing the interests of the company, which in
those circumstances must be understood as including the interests of its creditors, as
was held in In re HLC Environmental Projects Ltd [2013] EWHC 2876 (Ch); [2014] BCC
337, para 99. Similarly, the duty under section 174 to exercise reasonable care, skill
and diligence must be directed, in those circumstances, to the interests of the
company as understood in that context, as appears to have been accepted in a number of cases>. § 73

Si tratta di sentenza molto ampia, diffusa da più fomnti : ad es. Irene-marie Esser e  Iain G MacNeil,   Shareholder Primacy and Corporate Purpose, 21 dic. 2022.

Direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità: impulso dal COREPER

Il comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) del Consiglio UE  ha invitato in data 30.12.2022 il Consiglio stesso ad approvare un orientamento genrale circa la proposta di direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937  .

E’ noto che la direttiva, se approvata, introdurrà significative novità nel diritto dell’impresa. Si applicherebbe alle società con più di 500 dipendneti + oltre 150 mln € di fatturato mon diale oppure più di 250 dipendenti + oltre 40 mln fatturato mondaile se incertio settori maggiormente a rischio di violazioni (art. 2.2.

La proposta di direttiva, basata sugli articoli 50 e 114 TFUE, stabilisce <<norme sugli obblighi rispetto agli impatti negativi sui diritti umani e agli impatti ambientali negativi, siano essi effettivi o potenziali, che incombono alle società nell’ambito delle loro attività, delle attività delle loro filiazioni e delle attività nella catena del valore svolte da soggetti con cui la società intrattiene un rapporto d’affari consolidato. Stabilisce inoltre norme sulla responsabilità in caso di violazione di tali obblighi>>, § 2 dell’Introoduizione.

Centrale quindi è il concetto di <catena del valore> , sostituito ora da <catena di attività> (§§ 18-19 Introduzione), definito dall’art. 3.g:

<<i) attività di un partner commerciale a monte di una società inerenti alla produzione di beni o alla prestazione di servizi da parte della società, compresi la progettazione, l’estrazione, la produzione, il trasporto, l’immagazzinamento e la fornitura di materie prime, prodotti o parti di prodotti e lo sviluppo del prodotto o del servizio e
ii) attività di un partner commerciale a valle di una società inerenti alla distribuzione, a trasporto, all’immagazzinamento e allo smaltimento del prodotto, inclusi lo smantellamento, il riciclaggio, il compostaggio o il conferimento in discarica, laddove i partner commerciali svolgano tali attività per la società o a nome della società, a eccezione dello smaltimento del prodotto da parte dei consumatori e della distribuzione, del trasporto, dell’immagazzinamento e dello smaltimento del prodotto soggetto al controllo delle esportazioni a norma del regolamento (UE) 2021/821 del Parlamento europeo e del Consiglio o al controllo delle esportazioni relativo ad armi, munizioni o materiali bellici, dopo che l’esportazione del prodotto è stata autorizzata>

La responsabilità nascente sarà di tipo contrattuale cioè da violazione di obblighi

L’interesse sociale coincide con quello dei soci (attuali)?

La risposta è sostanzialmente positiva per Trib. Milano 0.09.2021, n° 7201/2021, RG 75268/2015, ASAM – AZIENDA SVILUPPO AMBIENTALE E MOBILITA’ SPA c. amminstratori e sindaci.

la domanda è avanzata ex art. 2392 cc. da una società pubblica partecipata da Provincia Milano ( poi da Regione Lombardia) e a sua volta deteneva  partecipazioni in altre società pubbliche.

Ebbene, quanto all’oggetto:

<<La natura e i connotati pubblicistici specifici di tale gruppo impongono una valutazione dell’interesse sociale, inteso come interesse delle singole società controllate, che non può prescindere dall’interesse (comune) degli enti controllanti, che si sono avvalsi per meglio gestire i servizi di trasporto pubblico di tale forma di organizzazione. [n.d.s.: errore, conta l’interesse dei soci, non delle società partecipate]

La totalità dei soci, i titolari di tutti le azioni di ASAM, senza eccezione alcuna (e dunque in quel momento la società stessa) hanno (ha) approvato l’operazione straordinaria di diminuzione del capitale sociale. Quale danno ora può chiedere la società agli amministratori sottoposti al volere dell’unanimità dei soci?

Né può la società far valere la lesione di interessi di terzi, ovvero dei creditori (i finanziatori) di ASAM, dal momento che certo non è legittimata ad agire in sostituzione di questi, i quali peraltro – pur potendo – non hanno attivato le tutele a loro disposizione, non avendo neppure tentato di proporre opposizione ex art. 2445 c.c. all’operazione di riduzione del capitale sociale.

L’addebito svolto nei confronti degli amministratori si riduce dunque all’aver agito nell’esclusivo interesse dei soci, sacrificando l’interesse della società. Ma a ben guardare, e dovendo il giudizio necessariamente presupporre una valutazione ex ante della ragionevolezza delle decisioni degli organi sociali, non può non osservarsi che nel momento in cui il c.d.a ha autorizzato l’intera operazione non era dato distinguere interesse della società da quello dei soci che all’unisono chiedevano si procedesse nel senso indicato.>>, p. 36.

Le opzioni put e call per l’acquisto di una società non sono prive di causa nè costituiscono patto leonino

Lo insegna Cass. 27.227 de.l 07.10.2021, rel. Nazzicone, basandosi (sul primo punto) su Cass. 2016 n° 763: <<La motivazione esposta nel menzionato precedente, che per la prima volta in sede di legittimità ha offerto la definizione di contratto call e put option – sopra ampiamente richiamata a fini di chiarezza dei contorni della diversa fattispecie giuridica, nonché la stessa vicenda in fatto ivi decisa – palesano come il meccanismo tecnico-giuridico delle opzioni non sia delimitabile solo all’interno dei derivati finanziari in ambito borsistico, ben potendo i patti parasociali contenere il medesimo meccanismo dell’opzione, ma limitati ai soci di una società, dei quali, in particolare come nella specie, l’uno funga da socio finanziatore garantito dal patto in questione.

La stessa causa concreta del patto parasociale oggetto di causa, evocata dalla ricorrente sin dal proprio atto introduttivo, si palesa diversa da quella di uno strumento finanziario del mercato borsistico (cfr. D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, commi 2 e segg., T.U. dell’intermediazione finanziaria), avendo il fine pratico, sia pure mediante il meccanismo dell’opzione di rivendita o di riacquisto a prezzo fisso, di assecondare iniziative imprenditoriali specifiche, tutelate quali espressioni dell’autonomia negoziale privata ex art. 41 Cost. e art. 1322 c.c., con il sorgere di reciproci diritti ed obblighi delle parti: al cui adempimento un contraente non può strumentalmente sottrarsi invocando ex post e secundum eventum un preteso insussistente contrasto con norme imperative.

In definitiva, se è pur vero che l’allegata ragione di nullità per difetto di causa è rilevabile anche in grado di appello, l’assunto difetta, tuttavia, della premessa minore posta a suo fondamento, in quanto non manca la causa in concreto della opzione put e call, conclusa tra le parti.>>

Quanto all’allegata violazione del divieto di patto leonino (art. 2265 cc), la SC la esclude: <<la ratio del divieto va, pertanto, ricondotta ad una necessaria suddivisione dei risultati dell’impresa economica, tuttavia quale tipicamente propria dell’intera compagine sociale e con rilievo reale verso l’ente collettivo; mentre nessun significato in tal senso potrà assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorché non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, né modifichi la posizione del socio in società, e dunque non abbia nessun effetto verso la società stessa.

Nulla, dunque, di ciò nella specie, come accertato dal giudice del merito, essendo ogni elemento dell’accordo tra i soci determinato e rispettati ampiamente i requisiti di validità elaborati dalla giurisprudenza.

Ne’ tale principio è suscettibile di essere sovvertito dalle peculiarità della vicenda, che la ricorrente ha inteso sottolineare nella sua memoria, consistenti nella partecipazione maggioritaria della socia c.d. finanziatrice (evenienza che, semmai, rafforza la funzione svolta dal patto), la natura di societas unius negotii della società partecipata (palesante la meritevolezza del fine di concorrere a quella condivisa operazione economica) ed il collegamento con il valore del bene immobile in proprietà della società partecipata (che non muta la funzione del patto stesso).

La incontestata sinallagmaticità del patto, il quale permetteva all’una parte di rientrare del finanziamento ed all’altra di lucrare i maggiori profitti dell’investimento,e la natura temporanea del diritto di opzione confermano tali conclusioni, attesa la funzione pratica svolta dal patto, di rendere possibile l’affare economico auspicato e regolare efficacemente gli interessi rispettivi dei soci>>.