I doveri del Comune per tutelare la tranquillità degli abitanti in relazione ai rumori eccessivi generati da pubbliche manifestazioni: il suo regolamento non determina la soglia privatistica della “normale tollerabilità”

Cass. sez. III, 09/07/2024 n. 18.676, rel Cricenti, richiamante la più dettagliata Cass. 14.209 del 23.05.2023, rel. Vincenti (su cui v. nota di Pisani Tedesco in Giur. it. 2024/6, p. 1316)

<<in generale, i limiti posti dai singoli regolamenti, compreso dunque quello richiamato dal comune, e dallo stesso comune approvato, sono puramente indicativi in quanto anche immissioni che rientrino in quei limiti possono considerarsi intollerabili nella situazione concreta, posto che la tollerabilità è, per l’appunto, da valutarsi tenendo conto dei luoghi, degli orari, delle caratteristiche della zona e delle abitudini degli abitanti (Cass. 28201/ 2018), che è ciò che il consulente ha fatto.

In secondo luogo, anche un ente pubblico è soggetto all’obbligo di non provocare immissioni rumorose ed «è responsabile dei danni conseguenti alla lesione dei diritti soggettivi dei privati, cagionata da immissioni provenienti da aree pubbliche, potendo conseguentemente essere condannata al risarcimento del danno, così come al “facere” necessario a ricondurre le dette immissioni al di sotto della soglia della normale tollerabilità, dal momento che tali domande non investono – di per sé – atti autoritativi e discrezionali, bensì un’attività materiale soggetta al richiamato principio del “neminem laedere”.» (Cass. 14209/2023, in caso analogo)>>.

Innovazioni e/o uso della cosa comune da parte del condomino, che vi installa un condizionatore

Cass. sez. II, sent.  01/07/2024  n. 17.975, rel. Caponi:

<<Nel merito, questa Corte ha più volte affermato che la naturale destinazione all’uso della cosa comune, può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino – solo se queste, costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo (cfr. Cass. n. 15319 del 2011). Ed è stato affermato il principio secondo il quale “nell’identificazione del limite all’immutazione della cosa comune, disciplinato dall’art. 1120 co. 2 c.c., il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione – coessenziale al concetto di innovazione – ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità, per cui si può tener conto di specificità – che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino – solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo” (Cass. n. 24960 del 2016).

Nella fattispecie la Corte distrettuale non è scesa all’analisi degli aspetti tecnici della installazione, quali un apprezzabile deterioramento del decoro architettonico ovvero una significativa menomazione del godimento e dell’uso del bene comune, omettendo anche di valutare che si tratta di obbligo introdotto solo successivamente alla installazione di cui si discute. La delibazione dei dati istruttori da parte del giudice del gravame, a ben vedere, parte da una non condivisibile interpretazione del limite alle innovazioni consentite della cosa comune, là dove lo pone nella trascurabilità del pregiudizio del singolo condomino o nella “corrispettività” di un qualche vantaggio per lo stesso, non meglio definito.

In altri termini, ai sensi dell’art. 1120 c.c., l’installazione, sulle parti comuni, di un impianto per il condizionamento d’aria a servizio di una unità immobiliare, che non presupponga la modificazione di tali parti, può essere compiuta dal singolo condomino per conto proprio, in via di principio senza richiedere al Condominio alcuna autorizzazione. Il rilascio o il diniego di una siffatta autorizzazione può tutt’al più significare l’inesistenza o l’esistenza di un interesse di altri condomini a fare uso delle cose comuni in modo pari a quello del condomino determinatosi all’installazione. Nel caso di specie non emerge dagli atti che sia stato accertato che l’installazione su parti comuni di condizionatori al servizio di un’unità immobiliare determini alterazione della destinazione delle cose comuni, né impedisca ad altri condomini di farne parimenti uso (anzi ciò è anche avvenuto, in precedenza)>>.

Presunzione di danno nella violazione della distanza minima di canna fumaria dal balcone

Cass. sez. II, ord. 27/06/2024 n. 17.758, rel. Giannaccari, circa una canna fumaria posta a 38 cm. dal balcone altrui, in violazione degli artt 1120 (dunque in condominio) e 890 cc:

<<Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per il fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (Cassazione civile sez. II, 20/06/2017, n.15246; Cassazione civile sez. II, 23/05/2016, n.10607;Cassazione civile sez. II, 22/10/2009, n.22389).

Nel caso di specie, la Corte di merito ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive.

La sentenza impugnata, pur condividendo le conclusioni del CTU sulla natura obsoleta della canna fumaria, realizzata in difformità delle disposizioni di legge, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive.

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile.

La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo.

È stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato da questa Corte, secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. II, 18.7.2013, n.17635).

Le Sezioni Unite hanno confermato la linea evolutiva della giurisprudenza della II Sezione Civile, nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

Le Sezioni Unite hanno, altresì, definito il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione. Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.

Nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Ha, quindi, errato la Corte d’Appello ad escludere la tutela risarcitoria per l’assenza di un danno effettivo alla salute, senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a compromettere il godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione.

Sulla base del fatto noto, costituito dalla pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, la Corte d’Appello avrebbe dovuto accertare se, per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive.

La sentenza impugnata non si pone in linea con l’orientamento di questa Corte in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicchè una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)>>.

Sulla natura condominiale del cortile/cavedio

Sempre precisi e chiari gli insegnamenti del relatore Scarpa in materia condominiale (Cass. sez. II, ord. 14/06/2024 n. 16.619):

<<7.1. Per consolidata interpretazione giurisprudenziale, viene intesa come cortile, ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l’accesso (Cass. n. 24189 del 2021; n. 3739 del 2018; n. 17993 del 2010).

La presunzione legale di comunione, stabilita dall’art. 1117 c.c., si reputa peraltro operante anche nel caso di cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi ed autonomi, tra loro non collegati da unitarietà condominiale (così, ad esempio, Cass. n. 14559 del 2004; n. 1619 del 1972).

7.2. Come visto, la Corte d’appello di Roma ha escluso il diritto di condominio sulla area di accesso contraddistinta dalla particella (Omissis), affermandone la proprietà esclusiva in capo a Sa.Th., in base a quanto verificato nell’atto del 25 marzo 1994 di divisione del compendio ereditario di Bo.Ma. e nel regolamento di condominio avente pari data.

In tal modo, la Corte d’appello di Roma ha fatto una falsa applicazione della astratta fattispecie normativa dell’art. 1117 c.c.

7.3. Innanzitutto, l’individuazione delle parti comuni di un condominio edificio, come appunto i cortili, risultanti dall’art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (cfr. Cass. Sez. Un. n. 7449 del 1993). È quindi decisivo accertare, mediante apposito apprezzamento di fatto, se l’obiettiva destinazione primaria del cortile a dare aria, luce ed accesso sia volta al servizio esclusivo di una singola unità immobiliare compresa nel complesso del Condominio di Viale (Omissis), o se invece sia volta all’uso comune di più unità immobiliari.

La prima verifica che i giudici del merito avrebbero perciò dovuto compiere, per dire applicabile, o meno, la disciplina del condominio degli edifici, di cui agli artt. 1117 c.c. e ss., concerneva la relazione di accessorietà necessaria che, al momento della formazione del condominio, legava l’area di accesso contraddistinta dalla particella (Omissis) sub 11 all’uso comune o ad una determinata porzione di proprietà singola. Peraltro, pur mancando un così stretto nesso strutturale, materiale e funzionale, la condominialità di un complesso immobiliare, che comprenda porzioni eterogenee per struttura e destinazione, può essere frutto della autonomia privata.

7.4. Ove poi debba applicarsi l’art. 1117 c.c., bisogna considerare che tale norma non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria, potendo essere superata soltanto dalle opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali. La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti del Codice civile, si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto.

7.5. La Corte d’appello di Roma doveva perciò dirimere la lite non facendo affidamento sul titolo di acquisto di Sa.Th. (avente causa di Sa.Ma.), ovvero sull’atto del 25 marzo 1994, ma individuando l’atto di frazionamento dell’iniziale unica proprietà, da cui si generò la situazione di condominio edilizio, con correlata operatività della presunzione ex art. 1117 c.c. di comunione “pro indiviso” di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio, e non invece oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari. Sarebbe quindi occorso verificare se nel titolo originario sussistesse una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad una unità immobiliare la proprietà della particella (Omissis). Altrimenti, una volta sorta la comproprietà delle parti comuni dell’edificio indicate nell’art. 1117 c.c., per effetto della trascrizione dei singoli atti di acquisto di proprietà esclusiva – i quali comprendono pro quota, senza bisogno di specifica indicazione, le parti comuni – la situazione condominiale è opponibile ai terzi.

7.6. Quando un condomino pretenda l’appartenenza esclusiva di uno dei beni indicati nell’art. 1117 c.c., poiché la prova della proprietà esclusiva dimostra, al contempo, la comproprietà dei beni che detta norma contempla, onde vincere tale ultima presunzione è onere dello stesso condomino rivendicante dare la prova della sua asserita proprietà esclusiva, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell’atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità del bene (Cass. n. 31995, n. 20145 e n. 1849 del 2022; n. 3852 del 2020; n. 4119 del 1974). In sostanza, per affermare la proprietà esclusiva in capo a Sa.Th. non basta accertare che la stessa proprietà gli fosse stata trasferita da Sa.Th., o che l’area in questione era stata oggetto della divisione del compendio ereditario di Bo.Ma. del 25 marzo 1994, in quanto è altrettanto noto che, ai fini della prova della proprietà attribuita ad un condividente, non è sufficiente l’atto di divisione, occorrendo piuttosto dimostrare il titolo di acquisto della comunione.

7.7. Tanto meno risulta dirimente per la soluzione della questione dedotta in lite il regolamento approvato il 25 marzo 1994, non costituendo il regolamento di condominio un titolo di proprietà, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni (Cass. n. 21440 del 2022; n. 8012 del 2012; n. 5125 del 1993)>>.

L’interpretazione del regolamento condominiale contrattuale non può essere estensiva, laddove pone limiti alle facoltà individuali

Cass. sez. II, ord. 23/05/2024 n. 14.377, rel. Besso Marcheis, circa una clausola contenente  la <<previsione di orari per lo svolgimento di lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione (taglio erba, giardinaggio, manutenzioni dell’immobile, etc.), consentiti solo dal lunedì al sabato in determinate fasce orarie e vietati nei giorni festivi>>:

<<La giurisprudenza di questa Corte sottolinea, infatti, come il regolamento contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare, ma “la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rilevatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti” (così Cass. n. 21307/2016)>>.

Servitù discontinua (di passggio) e servitù apparenti

Cass. sez. II, ord. 10/04/2024 n. 9626, rel. Varrone:

<<D’altra parte, la sentenza è conforme alla giurisprudenza di legittimità in tema di servitù discontinue secondo cui: l’esercizio saltuario non è di ostacolo a configurarne il possesso, dovendo lo stesso essere determinato in riferimento alle peculiari caratteristiche ed alle esigenze del fondo dominante; pertanto, ove non risultino chiari segni esteriori diretti a manifestare l’animus dereliquendi, la relazione di fatto instaurata dal possessore con il fondo servente non viene meno per l’utilizzazione non continuativa quando possa ritenersi che il bene sia rimasto nella virtuale disponibilità del possessore (Sez. 2, Sentenza n. 3076 del 16/02/2005, Rv. 586433 – 01).

Anche in riferimento al requisito dell’apparenza deve ribadirsi che: Il requisito dell’apparenza della servitù discontinua, richiesto al fine della sua costituzione per usucapione, si configura quale presenza di segni visibili di opere di natura permanente obiettivamente destinate al suo esercizio, tali da rivelare, in maniera non equivoca, l’esistenza del peso gravante sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante e non un’attività posta in essere in via precaria, o per tolleranza del proprietario del fondo servente, comunque senza animus utendi iure servitutis; tale onere deve avere carattere stabile e corrispondere, in via di fatto, al contenuto di una determinata servitù che, peraltro, non implica necessariamente un’utilizzazione continuativa delle opere stesse (Sez. 2, Ordinanza n. 32816 del 27/11/2023, Rv. 669433 – 01)>>.

Distranza tra costruzioni, distanza dal confione e principio di prevenzione: sugli artt. 873, 875 e 877 cc (in ogni caso: non c’è atto emulativo)

Cass. sez. II, ord. 09/05/2024 n. 12.702, rel. Oliva:

<<La Corte di Appello ha accertato che tra i manufatti realizzati dalle parti residua una intercapedine della larghezza di 20 cm. (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata) e ciò è sufficiente per escludere l’applicabilità dell’art. 877 c.c., non configurandosi una ipotesi di costruzione in aderenza. Di conseguenza, la norma da applicare è quella prevista dall’art. 873 c.c., che prescrive la distanza minima di tre metri tra le costruzioni, ove non derogata dalle normative regolamentari locali e salvo il principio della prevenzione stabilito dall’art. 875 c.c.

La Corte di seconda istanza ha altresì accertato che la costruzione box dei Be.An. – Ne.Pi. era stata realizzata 19 anni prima di quella del De.St. ad una distanza “… tra i dieci e i venti centimetri dal confine” (cfr. pagg. 11 e 12 della sentenza impugnata). L’art. 7.2 delle N.T.A del Comune di B (trascritto a pag. 11 del ricorso) prevede che si possano elevare sul confine tra due fondi “… pareti non finestrate di locali accessori, pertinenze ed impianti tecnologici (box e simili) a condizione che abbiano altezza del punto più alto della copertura non superiore a m. 3,00. Questi stessi locali accessori possono essere posti a distanza dal confine non inferiore da m. 3,00”.

Il box edificato dai prevenienti Ne.Pi. – Be.An., dunque, si trova ad una distanza dal confine minore della metà di quella stabilita dal regolamento locale, e poiché quest’ultimo non prevede un distacco assoluto dal confine, opera il criterio della prevenzione. Va, sul punto, data continuità al principio affermato da questa Corte, secondo cui “Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874,875 e 877 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 10318 del 19/05/2016, Rv. 639677; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 14705 del 29/05/2019, Rv. 654186).

In applicazione del principio sopra richiamato, il De.St. (secondo costruttore) aveva la scelta tra edificare il suo manufatto rispettando la distanza dalla costruzione dei prevenienti oppure avanzare nel rispetto dell’art. 875, ma non lo ha fatto. Il De.St. infatti ha eretto il suo box con modalità tali da creare una intercapedine di 20 cm. dal fabbricato della Be.An., con conseguente violazione della norma di cui all’art. 875 c.c., la cui finalità ultima è proprio quella di evitare la creazione di intercapedini dannose tra gli edifici>>.

La SC rigetta pure la difesa di atto emulativo, cìil quale assai difficilmente è ravvisabile nella costruzione a distanza illegale:

<<La Corte di Appello ha esaminato il primo motivo di gravame, con il quale sia la Be.An. che il Ne.Pi. (il quale aveva spiegato appello incidentale adesivo rispetto all’impugnazione principale, perfettamente coincidente con quest’ultima: cfr. pag. 9 della sentenza impugnata) avevano sollevato la questione della natura emulativa dell’edificazione posta in essere dal De.St. , e lo ha disatteso, affermando che “Non può esservi una volontà emulativa né nella scelta di costruire un’autorimessa (locale accessorio di un’abitazione) né nella sua ubicazione, a ridosso di analoghi locali della confinante proprietà: in tal modo eventuali disturbi (rumori delle autovetture, gas di scarico) risultano confinati, per entrambe le proprietà, in aree ristrette e contigue. Ben maggiore disturbo arrecherebbe, ad es., un box costruito a ridosso di un’abitazione” (cfr. pag. 13 della sentenza). Il passaggio appena richiamato esprime in modo adeguato le ragioni del rigetto del motivo di appello proposto, onde non vi è né violazione dell’art. 112 c.p.c., né vizio della motivazione, in quanto quest’ultima non è viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).

Peraltro va ribadito il principio per cui “Poiché gli atti emulativi, vietati dall’art 833 c.c., sono caratterizzati, oltre che dall’elemento oggettivo del danno e della molestia altrui, anche dall’animus nocendi, consistente nell’esclusivo scopo di nuocere o molestare i terzi senza proprio reale vantaggio, non è riconducibile nella previsione della citata disposizione né l’attività edificatoria posta in essere dal proprietario in violazione delle norme pubblicistiche disciplinanti lo ius aedificandi, in quanto comunque preordinata al conseguimento di un diretto concreto vantaggio, né il mantenimento dell’opera iniziata e non ultimata perché in contrasto con dette norme, il quale (salva l’ipotesi dell’inosservanza delle distanze legali e di un provvedimento amministrativo di riduzione in pristino) rientra sempre nel legittimo esercizio dei poteri del proprietario, sia in relazione a possibili diverse utilizzazioni del manufatto incompiuto, sia con riferimento ad una eventuale abrogazione delle norme limitative, sia con riguardo agli oneri cui l’interessato dovrebbe altrimenti soggiacere per ridurre in pristino lo stato dei luoghi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3010 del 08/05/1981, Rv. 413559; cfr. anche, in termini, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4708 del 05/11/1977, Rv. 388304).

Inoltre, la sentenza impugnata è coerente con l’ulteriore principio, che pure merita di essere ribadito, secondo cui “La sussistenza di un atto di emulazione postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il proprietario e di un elemento soggettivo, costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri. Pertanto, si è al di fuori dell’ambito dell’art. 833 cod. civ. quando ricorra un apprezzabile vantaggio del proprietario da cui l’atto sia stato compiuto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3558 del 25/03/1995, Rv. 491409)>>.

Prima di discutere sulla legittimità della costruzione rispetto ad una veduta, bisogna capire se esista il diritto di veduta (sugli artt. 905 e 907 cc)

Cass. sez. II,  sent. 23/02/2024  n. 4.816, rel. Falaschi:

<<La questione di diritto che il Collegio è chiamato a risolvere riguarda la legittimità o meno della apertura di vedute su un cortile di proprietà esclusiva di un edificio che perciò ne risulti gravato, con la peculiarità che tra l’edificio nel quale è realizzata la veduta ed il cortile non esiste nessun rapporto di accessorietà.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata ha avuto riguardo a fattispecie in cui il cortile è comune ai due edifici e in ordine al quale si sono registrate due posizioni: in una fattispecie ha escluso l’applicabilità dell’orientamento che in mancanza di una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102, comma 1 c.c. (Cass. 14 giugno 2019 n. 16069; Cass. 26 febbraio 2007 n. 4386; Cass. 19 ottobre 2005 n. 20200), in difetto del presupposto della proprietà comune del cortile.

Accanto a tale impostazione si è affiancata altra, che, a ben vedere, meglio si collega alla peculiarità della fattispecie in esame, secondo cui, anche in caso di accertata comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi ed allorché fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c., l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c. Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico dell’edificio frontistante, applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. 21 ottobre 2019 n. 26807; Cass. 4 luglio 2018 n. 17480; Cass. 21 maggio 2008 n. 12989; Cass. 20 giugno 2000 n. 8397; Cass. 25 agosto 1994 n. 7511; Cass. 28 maggio 1979 n. 3092). Quest’ultimo orientamento ha trovato conferma in una recente pronuncia (Cass. 11 marzo 2022 n. 7971), con la quale è stato evidenziato che si tratta di rapporti tra proprietà individuali, anche se con beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite.

Del resto, il riconoscimento di un diritto di veduta comporta una permanente minorazione della utilizzabilità del bene che ne è gravato da parte di chiunque ne sia o ne divenga proprietario, con attribuzione all’edificio limitrofo di un corrispondente vantaggio che a questo finisce per inerire come qualitas, ossia con le caratteristiche di realità tali da inquadrarsi nello schema delle servitù.

Nel caso in esame, il giudice di merito ha applicato seccamente la norma di cui all’art. 907 c.c. senza prima accertare in fatto se la situazione obiettiva trovasse fondamento in una previsione pattizia a titolo derivativo (tramite contratto) o a titolo originario (tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia), fondando il proprio convincimento sulla mera anteriorità dell’apertura che da sola non può costituire il diritto di veduta, ritenendo peraltro erroneamente ricorrere ipotesi di non contestazione (tacita) circa lo stato dei luoghi descritto nei titoli di acquisto, confermata dall’eccezione di prescrizione con effetto liberatorio; trattasi di accertamento necessario per poter eventualmente escludere, alla luce del citato principio di diritto affermato dal Collegio, l’applicazione delle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite per far posto all’utilizzo del cortile nei termini fatti valere dalla originaria attrice.

Si rende necessario, dunque, un nuovo esame degli elementi di giudizio che tenga conto dei rilievi sopra esposti>>.

Frazionamento della proprietà immobiliare con nascita di condominio sulle parti reputabili “comuni” ex ar. 1117 cc

Cass. sez. II, ord. 16/01/2024 n.  1.615, rel. Scarpa, in una complessa fattispecie concreta, pone il seguente principio di diritto:

<<in caso di frazionamento della proprietà di un edificio comune in distinte unità immobiliari, a seguito dell’attribuzione in sede di esecuzione forzata, si determina una situazione di condominio per la quale vige la presunzione legale “pro indiviso” di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano – in tale momento costitutivo del condominio – funzionali all’uso comune (art. 1117 c.c.), qual è il cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi. Tale presunzione può essere superata soltanto ove risulti nel primo decreto con il quale il giudice trasferisce all’aggiudicatario un lotto del bene espropriato, ripetendo la descrizione dell’immobile contenuta nell’ordinanza che dispone la vendita, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno degli aggiudicatari dei distinti lotti la proprietà del cortile>>

Accessione e comunione legale : l’acquisto ex art 934 cc prevale su quello ex art. 177 cc

Cass.  Sez. II, ord. 22 aprile 2024 n. 10727 , Rel. Cavallino:

<<Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo, mentre al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell’onere della prova di avere fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese a tal fine>>.

(massima di Valeria Cianciolo su ONDIF)