Accessione e comunione legale : l’acquisto ex art 934 cc prevale su quello ex art. 177 cc

Cass.  Sez. II, ord. 22 aprile 2024 n. 10727 , Rel. Cavallino:

<<Il principio generale dell’accessione posto dall’art. 934 c.c., in base al quale il proprietario del suolo acquista “ipso iure” al momento dell’incorporazione la proprietà della costruzione su di esso edificata, non trova deroga nella disciplina della comunione legale tra coniugi, in quanto l’acquisto della proprietà per accessione avviene a titolo originario senza la necessità di un’apposita manifestazione di volontà, mentre gli acquisti ai quali è applicabile l’art. 177, comma 1, c.c. hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprietà personale esclusiva di uno di essi è a sua volta proprietà personale ed esclusiva di quest’ultimo, mentre al coniuge non proprietario, che abbia contribuito all’onere della costruzione spetta, previo assolvimento dell’onere della prova di avere fornito il proprio sostegno economico, il diritto di ripetere nei confronti dell’altro coniuge le somme spese a tal fine>>.

(massima di Valeria Cianciolo su ONDIF)

La comunione legale è senza quote, per cui l’esecuzione forzata contro uno solo dei coniugi per debiti personali ha ad oggetto il bene per intero (e non per metà)

Copsì Cass. sez. 3 del 04.01.2023 n. 150:

<< con riguardo alla peculiare fattispecie in cui il bene ricada nella comunione legale tra coniugi, è stato affermato lo specifico principio secondo il quale la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per debiti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e con diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso oppure del valore di questo, in caso di assegnazione (Cass. 14/03/2013, n. 6575).

Sulla base di tale principio, questa Corte non solo ha confermato che l’esecuzione sul bene ricadente nella comunione legale tra coniugi può avere ad oggetto il bene esclusivamente nella sua interezza e non per una inesistente quota della metà, ma ha ulteriormente specificato che, pur non essendo esclusa la legittimazione del coniuge non debitore ad esperire le opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi, nonché l’opposizione di terzo, tuttavia tali rimedi non possono essere da lui esperiti al fine di escludere dall’espropriazione una quota del bene in natura (Cass. 29/05/2015, n. 11175) ed ha ribadito che l’unico diritto spettategli è quello di percepire, in sede di distribuzione, la metà del ricavato della vendita del bene, al lordo delle spese di procedura (Cass. 31/03/2016, n. 6230).

Se da un lato, infatti, va ritenuto insussistente l’interesse del coniuge debitore a dedurre l’appartenenza del bene alla comunione legale (poiché, di regola, l’esecutato non ha interesse a dolersi dell’appartenenza del bene staggito ad altri od anche solo in parte ad altri), dall’altro lato va pure esclusa la legittimazione del coniuge non debitore a paralizzare o inficiare gli atti di disposizione del bene compiuti durante il processo di espropriazione, e quindi a rivendicare alcunché sulla base della deduzione di una pretesa di natura reale, potendo egli soltanto esercitare il diritto personale ad ottenere la metà (lorda, non potendo porsi a suo carico anche le spese di una liquidazione che già ha luogo contro la sua volontà) del controvalore del bene all’atto della distribuzione.

Questa Corte ha, inoltre, escluso l’applicabilità, alla fattispecie, del meccanismo processuale di cui agli artt. 599-601 c.p.c., attesa la non configurabilità, nel bene oggetto di comunione legale tra coniugi, di una “quota”, come parte ideale del bene staggito sulla quale si puntualizzi la proprietà esclusiva del singolo comunista (Cass. 31/03/2016, n. 6230, cit.).

I detti principi si sono consolidati nella giurisprudenza di legittimità, la quale non solo ha reiteratamente riaffermato il principio – costituente la premessa generale delle implicazioni relative ai diritti spettanti al coniuge non debitore – secondo cui la comunione tra coniugi ha natura di comunione “senza quote” (cfr., ad es., Cass. 05/04/2017, n. 8803); ma ha anche puntualmente riaffermato che la rilevata natura comporta che l’espropriazione, per obbligazioni personali di uno solo dei coniugi, di uno o più beni in comunione abbia ad oggetto la “res” nella sua interezza e non per la metà o per una quota, traendone la conseguenza che, in ipotesi di divisione, è esclusa l’applicabilità sia della disciplina sull’espropriazione dei beni indivisi (artt. 599 e ss. c.p.c.) sia di quella contro il terzo non debitore (Cass. 24/01/2019, n. 2047).

Va, dunque, data continuità all’orientamento secondo il quale, per il debito di uno dei coniugi, correttamente è sottoposto ad esecuzione per l’intero il bene ricadente nella comunione legale con l’altro coniuge, con conseguente esclusione di ogni irritualità o illegittimità degli atti della procedura, fino al trasferimento del bene a terzi, non potendosi riconoscere al coniuge non debitore il diritto di caducare tali atti, né quello di ottenere la separazione di parti o quote del bene staggito o di conseguire dalla procedura esiti diversi dalla vendita per l’intero, salva la corresponsione, in sede di distribuzione, della metà del ricavato lordo della vendita, dovuta in dipendenza dello scioglimento, limitatamente a quel bene, della comunione senza quote>>.

E’ un credito , e non un diritto reale sui beni di impresa, il diritto del coniuge non imprenditore nella comunione de residuo ex art. 178 cc

Sono intervenute le sezioni unite sul tema in oggetto: Cass. Sez. un., 17.05.2022 n. 15.889 , rel. Criscuolo.

L’iter argomentativo è in sostanza questo:

 <<  7.3 Ritiene il Collegio che le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducano a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, come già evidenziato nell’illustrazione delle posizioni della dottrina.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l’intero all’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con la conseguente dimidiazione della garanzia patrimoniale dai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.

Ancora, appare priva di intrinseca razionalità la conclusione che si ricollega alla tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

Ne’ va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.

Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.

Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implica sempre la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto (si pensi all’ipotesi in cui dal matrimonio non siano nati figli, con la successione dei fratelli del de cuius, o l’individuazione di eredi terzi rispetto alla famiglia, nei limiti della disponibile).

D’altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell’avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Peraltro gli stessi fautori della tesi della natura reale del diritto ritengono in maggioranza che la comunione non insorga automaticamente sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi, nozione questa che sfugge alla costituzione di una contitolarità, presupponendo un calcolo di carattere economico), affermazione questa che per essere resa coerente con la premessa da cui si parte implicherebbe che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore. Il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è però un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, premessa questa che implica l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.

Il potenziale attentato che la tesi della natura reale è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell’impresa del coniuge denota altresì come siffatta opzione ermeneutica si ponga in controtendenza con l’esigenza, fortemente sostenuta a livello sovranazionale, ed in particolare unionale, di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, come appunto testimoniato dalla scelta legislativa, in vista dell’evento morte dell’imprenditore, compiuta con la previsione del cd. patto di famiglia (art. 768 bis e ss., introdotti dalla L. n. 55 del 2006).>>

Si tratta dunque di motivazione basata soprattutto sugli inconvenienti che produrrebbe l’opposta tesi del diritto di comproprietà.

Di fronte all’argomento contrario più forte (quello letterale), così replicano le S.U.:

<< 7.3 Ritiene il Collegio che le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducano a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, come già evidenziato nell’illustrazione delle posizioni della dottrina.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l’intero all’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con la conseguente dimidiazione della garanzia patrimoniale dai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.

Ancora, appare priva di intrinseca razionalità la conclusione che si ricollega alla tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

Ne’ va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.

Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.

Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implica sempre la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto (si pensi all’ipotesi in cui dal matrimonio non siano nati figli, con la successione dei fratelli del de cuius, o l’individuazione di eredi terzi rispetto alla famiglia, nei limiti della disponibile).

D’altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell’avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Peraltro gli stessi fautori della tesi della natura reale del diritto ritengono in maggioranza che la comunione non insorga automaticamente sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi, nozione questa che sfugge alla costituzione di una contitolarità, presupponendo un calcolo di carattere economico), affermazione questa che per essere resa coerente con la premessa da cui si parte implicherebbe che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore. Il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è però un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, premessa questa che implica l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.

Il potenziale attentato che la tesi della natura reale è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell’impresa del coniuge denota altresì come siffatta opzione ermeneutica si ponga in controtendenza con l’esigenza, fortemente sostenuta a livello sovranazionale, ed in particolare unionale, di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, come appunto testimoniato dalla scelta legislativa, in vista dell’evento morte dell’imprenditore, compiuta con la previsione del cd. patto di famiglia (art. 768 bis e ss., introdotti dalla L. n. 55 del 2006).>>

Principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data“.