Annullamento per dolo di testamento olografo (con qualche considerazione sulla non contestazione processuale)

Cass.  sez. II  31 agosto 2023, n. 25.521 , Rel Papa

<<Ciò precisato, deve allora considerarsi, in diritto, che, come ripetutamente affermato da questa Corte, il rispetto assoluto della volontà del testatore impone che, al fine di poter affermare che una disposizione testamentaria sia affetta da dolo, non è sufficiente dimostrare una qualsiasi influenza di ordine psicologico esercitata sul testatore, se del caso mediante blandizie, richieste, suggerimenti o sollecitazioni; occorre, invece, la prova dell’avvenuto impiego di veri e propri mezzi fraudolenti idonei a trarre in inganno il testatore, avuto riguardo alla sua età, allo stato di salute, alle sue condizioni di spirito, così da suscitare in lui false rappresentazioni ed orientare la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata (Sez. 2, n. 4653 del 28/02/2018 con numerosi richiami).
L’esigenza di assicurare una più penetrante ricerca della volontà del testatore, di là delle mere dichiarazioni, impone innanzitutto un esame globale della scheda testamentaria e non di ciascuna singola disposizione, alla stregua dei principi generali di ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c., applicabili al testamento sia pure con gli opportuni adattamenti (Cass. Sez. 2, n. 468 del 14/01/2010).
Soltanto qualora dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, l’interprete può, in via sussidiaria, ricorrere alla valutazione di elementi estrinseci al testamento, seppure sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la sua cultura, la mentalità, il suo ambiente di vita, le sue condizioni fisiche (Cass. Sez. 2, n. 10075 del 24/04/2018).
Infine, deve rimarcarsi che la prova della captazione, pur potendo essere presuntiva, deve fondarsi su fatti certi che consentano di identificare e ricostruire l’attività di condizionamento e la conseguente influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore (da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, n. 30424 del 17/10/2022)>>.

Aplicazione al processo de quo:

<Dalla concisa esposizione dei punti della motivazione qui riportata, risulta già evidente che la Corte d’appello, con la sua motivazione sulla sussistenza del dolo, non ha correttamente applicato alla fattispecie i principi consolidati suesposti: ha, infatti, continuamente sovrapposto elementi sia intriseci alla scheda testamentaria, estrapolati dal contesto (alcune tra le espressioni utilizzate dal testatore in riferimento a pressioni esterne), sia estrinseci (la sua età avanzata, il risiedere i due fratelli convenuti nell’azione di annullamento per dolo vicino al testatore); ha poi ritenuto sufficiente il riferimento del testatore alle “pressioni ricevute da parenti e conoscenti”.
Come rilevato in ricorso da A.A. e B.B., in particolare la Corte non ha affatto compiuto una valutazione globale della scheda, estrapolando le affermazioni contenenti i riferimenti alle “pressioni ricevute”, sebbene nella parte iniziale della scheda il testatore riportasse, testualmente, di essere indotto a riesaminare le precedenti disposizioni da “alcuni aspetti dei rapporti di C.C. nei confronti miei e dei fratelli (…); in occasione del mio ricovero in ospedale, si dimostrò completamente assente e indifferente anche se non ancora ostile” e che egli “da allora” da parte di parenti e conoscenti cominciò a ricevere le pressioni che la Corte d’appello ha ritenuto poi rilevanti perchè modificasse i diritti successori, ma aveva “rifiutato” di cancellare disposizioni, tenuto conto dei meriti pregressi”; quindi, il testatore riferiva ancora: “ma recentemente, essa tentò di inguaiarmi per pretese omissioni di versamenti contributivi, in ciò avendo a collaborare un individuo di cui non faccio neppure il nome per non sporcarmi”. La sequenza di queste dichiarazioni non è stata esaminata dalla Corte che ha isolato dal contesto il riferimento alle pressioni ricevute non applicando correttamente i principi ermeneutici di cui si è detto.
Quanto poi alle riferite “pressioni” (che, invero, nell’interpretazione, devono essere identificate in modo chiaramente distinto da un’attività di coercizione che, nella specie, non è stata mai dedotta e potrebbe essere rilevante per la violenza, non per il dolo), è necessario che, come già rimarcato, sia riscontrabile l’avvenuto impiego di veri e propri mezzi fraudolenti idonei a trarre in inganno il testatore.
In tal senso, il ragionamento presuntivo – che può sorreggere questo riscontro da parte dell’interprete – deve comunque essere correttamente costruito, ciò che nella specie non può dirsi accaduto.
E’ necessario, infatti, che il giudice analizzi innanzitutto i fatti noti che, seppure secondari, potrebbero essere utili alla deduzione dei fatti ignoti da provare; quindi egli è tenuto a selezionarli per “precisione”, nel senso di considerali soltanto se certi e determinati nella realtà storica; infine, può valutarli nella loro “gravità” e, in caso siano molteplici, “concordanza”, nel senso che deve verificarli come idonei a fondare la deduzione probabilistica della realtà del fatto ignoto (cfr. sulla costruzione del ragionamento presuntivo, Cass. Sez. 2, n. 9054 del 21/03/2022).
Nessuna di queste fasi del ragionamento si evince nella motivazione della sentenza impugnata, in cui non risulta neppure chiaro quali elementi siano ritenuti fatti certi, quali abbiano la caratteristica di fatti secondari, come si sia sviluppata la deduzione del dolo>>.

Sulla non contestazione ex 115 copc:
<<Ebbene, per principio consolidato, il principio di non contestazione (comunque operante nella fattispecie perchè implicitamente codificato, prima che fosse riformato l’art. 115 c.p.c., nell’art. 167 c.p.c.) produce l’effetto della relevatio ab onere probandi soltanto in relazione ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato che siano stati compiutamente allegati dall’attore [NB: purchè entro la sfera di azione e conoscibilità della controparte: non ha senso l’effetto probatorio circa fatti su cui nulla può o sa]; può poi operare, altresì, anche in relazione a fatti secondari se idonei a fondare un ragionamento presuntivo quando, come accade proprio nel caso del dolo nel testamento, la prova non possa che essere fornita per presunzioni.
In questa seconda ipotesi, tuttavia, la non contestazione non può investire immediatamente la fattispecie giuridica dedotta in domanda (l’asserito vizio di volontà del testatore), oggetto di prova presuntiva: il riscontro di tale fattispecie deve comunque avvenire, infatti, con un’attività spiccatamente valutativa, finalizzata a ricavare il fatto principale – insuscettibile di prova diretta – dai fatti secondari invece accertati, eventualmente anche per non contestazione (cfr., in materia risarcitoria, Cass. Sez. L, n. 21460 del 19/08/2019).
La non contestazione è, infatti, un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. U, n. 761 del 23/01/2002 in materia di contestazione dei conteggi per la quantificazione di un credito di lavoro); per contrappunto, il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), perchè egli può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (Sez. U, n. 11377 del 2015, in motivazione).
La Corte d’appello, pertanto, non ha correttamente applicato il principio di non contestazione alla fattispecie>.

(segnalazione e testo da Ondif)

Un caso di institutio ex re certa (art. 588.2 c.c.)

E’ spesso difficile capire quando ricorra l’institutio ex re certa (o la disposizione di legato) e, una volta capitolo, quale sia la sorte dei beni ivi non menzionati.

In Cass. sez. II, 5 agosto 2022 n. 24.310, rel. Tedesco, un riepilogo delle principali quistioni in tema.

la de cuius aveva dichiarato nel testamento <<di volere lasciare in eredità al coniuge Boscarol Giorgio «la parte di mia proprietà, equivalente a metà dell’immobile e del terreno, siti in Vermigliano in via P. Zorutti, adiacenti all’attuale abitazione del sig. Boscarol, situata al n. 7 di detta via  [,,,]>>.

Le corti di merito avevano accertato sia che si trattava appunto di institutio ex re certa sia che l’istituito (marito) fosse erede unico, non essendoci altri beni . O meglio, non essendocene altri conteggiabili,. dato che altri beni c’erano ma, essendo in sistema tavolare, non erano ancora stati oggetto di decreto tavolare di trasferimento (da altra successione m.c.).

Boccia la seconda parte del  ragionamento la SC.

Premesse generali sull’istituto:

<<La giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito in passato che l’institutio ex re certa vale a determinare la quota dell’istituito, non già ad attribuirgli la qualità di unico erede (Cass. n. 737/1963). La possibilità del concorso fra l’istituito ex re e l’erede legittimo è stata in tempi recenti riconosciuta da Cass. n. 17868/2019. E’ stato precisato che in mancanza di una manifestazione contraria all’apertura della successione legittima, i beni consapevolmente esclusi sono attribuiti al chiamato ex lege. (arg. ex art. 734 c.c.). La quota dell’istituito ex re è determinata, perciò, in base al rapporto fra le cose attribuite e il valore globale dei beni che il testatore sapeva di possedere in quel dato momento, tenuto conto anche di quelli non contemplati nel testamento. Nella quota differenziale, formata dalle altre cose dell’asse, succede l’erede legittimo; nella stessa proporzione, in forza della virtù espansiva che costituisce connotato essenziale della vocazione a titolo universale, si ripartiranno fra erede testamentario e legittimo i beni ignorati dal testatore o sopravvenuti dopo la confezione della scheda (Cass. n. 9487/2021).>>

<<1.3. Il connotato essenziale della istituzione ex re certa non va ricercato nell’implicita volontà del testatore di attribuire all’istituito la totalità dei beni di cui egli avrebbe potuto disporre al momento della confezione del testamento, ma nell’assegnazione del bene determinato o del complesso di beni come quota del suo patrimonio (Cass. n. 42121/2021). Ciò che è essenziale ai fini del riconoscimento del carattere universale della disposizione, piuttosto, è la possibilità di una partecipazione anche dell’erede istituito ex re anche all’acquisto di altri beni e quindi la sua attitudine a raccoglierli in proporzione della sua quota, da determinarsi in concreto attraverso il rapporto proporzionale tra il valore delle res certae attribuite e il valore dell’intero asse (Cass. n. 5773/1980; n. 2050/1976; n. 1368/1971). Se non vi è quella attitudine, ma l’acquisto è limitato esclusivamente a beni determinati, il chiamato, anche se designato erede, non può che essere considerato legatario (Cass. n. 42121/2021).

1.4. Consegue da quanto sopra che, in materia di interpretazione di una disposizione testamentaria di uno più beni determinati, l’indagine, sulla composizione del patrimonio del testatore al momento della formazione della scheda, è rilevante ad ampio raggio, non solo per stabilire se la disposizione sia legato o istituzione di erede, ma, in ipotesi risoltasi la questione interpretativa nel senso della istituzione ex re, al fine di stabilire se ci siano i presupposti del concorso dell’erede istituito con l’erede legittimo.>>

Quanto alla questione del se  si debba tener conto -per interpretrare la disposizione- anche dei beni già oggetto di titolo giuridico ma non ancora di pubblicità immobiliare tavolare (normalmente costitutiva, ma non nel caso di successione mortis causa), risolta in negativo dalla C. di appello :

<<Il ragionamento rivela duplice errore. In primo luogo la Corte d’appello non ha considerato che si discuteva di beni acquistati mortis causa, rispetto ai quali opera il seguente principio: “Per i beni soggetti al regime tavolare, ai sensi del R.D. n. 499 del 1929, l’efficacia costitutiva dell’iscrizione o intavolazione è limitata ai soli atti tra vivi e non è estensibile ai trasferimenti per successione ereditaria, in relazione ai quali, ex art. 3 del citato decreto, l’intavolazione nemmeno ha il valore di condizione di opponibilità, occorrendo verificare la qualità di erede secondo la normativa successoria; ne consegue che la sola intavolazione del certificato di eredità compiuta su iniziativa di un determinato soggetto, anche nell’interesse di altro beneficiario, non può di per sé determinare l’acquisto della qualità di erede in capo a quest’ultimo, in assenza di una esplicita ratifica – che non si esaurisca nella mera inerzia – necessaria per l’accettazione dell’eredità” (Cass. n. 9713/2017).

A un attento esame l’approccio seguito dalla Corte di merito risulta comunque improprio. Il giudice, chiamato a qualificare una disposizione testamentaria come eredità o legato, o chiamato a stabilire se la disposizione, in ipotesi considerata istituzione ex re, esaurisca o meno l’asse tenuto presente dal testatore, non potrebbe espungere dall’indagine i beni in ipotesi acquistati prima del testamento, soltanto perché non ancora intavolati. Il ragionamento della Corte d’appello, sviluppato nelle sue estreme conseguenze, porterebbe a dire che il giudice dovrebbe ignorare i beni intavolati il giorno successivo alla formazione del testamento, nonostante il titolo si fosse in quel momento già formato e il testatore ne fosse pienamente consapevole: il che è conclusione palesemente irragionevole, certamente non giustificata dal principio secondo cui, posta l’efficacia costitutiva della iscrizione, l’inscrivente consegue la titolarità del diritto reale solo a seguito della intavolazione di esso.>>

Confessione di liberalità donativa di un’apparente vendita, contenuta nel testamento dell’apparente venditore

Utili precisazioni in Cass. 8 giugno 2022, sez. 2, n. 18.550 , rel. Scarpa.

La dichiarazione testramentaria (testamento pubblico), secondo cui una precedente vendita era in realtà una donazione, era del seguente tenore: <<(Q)ueste sono le mie volontà in quanto a mio figlio M. ho già donato in vita il podere di (OMISSIS), nel quale attualmente vivo, senza ricevere alcunché”.>>

Premesse del ragionamento della SC:

<<5.3. L’art. 2735 c.c., comma 1, seconda parte, dispone che la confessione stragiudiziale può essere contenuta anche in un testamento ed è liberamente apprezzata dal giudice. Le dichiarazioni di natura confessoria possono, quindi, essere rese anche in un testamento per atto pubblico notarile, come si assume avvenuto nella specie.

<<5.3.1. L’art. 587 c.c., comma 2, richiama le disposizioni di carattere non patrimoniale cui la legge riconosce efficacia se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale. La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone, quindi, che sia ravvisabile un “testamento in senso formale”, rivelante la funzione, tipica del negozio testamentario, di esercizio da parte dell’autore del generale potere di disposizione mortis causa. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte e perciò non può non consistere in un atto di “regolamento” post mortem degli interessi del testatore (“per il tempo in cui avrà cessato di vivere”), nel senso che la morte viene assunta dal dichiarante come punto di origine del complessivo effetto dell’assetto dettato.>>

Poi:

<<5.6. Il tratto peculiare della dichiarazione confessoria contenuta in un testamento, avente, per quanto detto, efficacia post mortem, è che essa assume necessariamente rilevanza probatoria non contro il de cuius, quanto, all’interno del giudizio in cui è dedotto il rapporto giuridico di cui il confitente era parte, contro l’erede che in tale rapporto sia subentrato (cfr. Cass. Sez. 2, 26/11/1997, n. 11851).

5.7. Nella controversia promossa dai legittimari che agiscono in riduzione e per l’accertamento di una donazione dissimulata compiuta dal de cuius in favore di altro legittimario istituito erede, la dichiarazione contenuta nel testamento, con la quale il medesimo testatore assuma di aver donato il bene apparentemente venduto, deve quindi essere assimilata ad una confessione stragiudiziale, trattandosi di affermazione vantaggiosa per i legittimari e sfavorevole per l’erede, al quale il valore confessorio di tale dichiarazione può essere opposto in quanto subentrante nella medesima situazione del proprio dante causa (arg. da Cass. Sez. 2, 15/05/2013, n. 11737; Cass. Sez. 2, 05/08/1985, n. 4387).>>

Sul fatto che il donatario/acquirente avesse fatto cancellare l’ipoteca pagando il debto residuo (il che non trasforma il negozio in negotium mixtum cum doantione):

<<5.9.2. Parimenti, pur avendo dato per accertato che C.M. aveva versato la somma di Lire 64.980.000 per estinguere l’ipoteca gravante sugli immobili, la Corte di Firenze ha escluso che a tanto l’acquirente avesse provveduto in esecuzione di un negotium mixtun cum donatione, e cioè di un contratto avente natura comunque onerosa, seppur stipulato dai contraenti con la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, del compratore che aveva ricevuto la prestazione di maggior valore. La configurabilità di un negotium mixtum cum donatione è stata congruamente smentita dai giudici del merito giacché mancava la prova che l’alienante C.L. avesse consapevolmente pattuito di ricevere un corrispettivo (pari all’accollo dell’esborso necessario per ottenere la cancellazione dell’ipoteca) inferiore rispetto al valore reale del bene trasferito, e deponendo, piuttosto, la confessione contenuta nel testamento per la natura del tutto gratuita dell’attribuzione patrimoniale.

Del vincolo ipotecario gravante sull’immobile donato e degli esborsi per la relativa cancellazione si dovrebbe, piuttosto, tener conto nell’accertare il valore del bene ai fini della determinazione dell’ammontare della porzione disponibile, nonché le spese sostenute dal donatario.><

La conferma testamentaria (art. 590 cc) non opera in caso di testamento inesistente (perchè apocrifo)

Cass. n° 40.138 del 15.12.2021, rel. Carrato, chiarisce che la conferma (meglio: la volontaria esecuzione) ex art. 590 cc non opera quando questo il testamento è inesistente, come succede nel caso di documento apocrifo.

In particolare: <<l’art. 590 c.c. non ha modo di operare quando risulta accertata – come è pacificamente accaduto nel nostro caso – l’apocrificità del testamento (quindi interamente nullo) per falsità della sottoscrizione del “de cuius” (non potendo quindi,discorrersi della nullità di singole disposizioni testamentarie, alle quali si possa aver dato volontaria esecuzione, manifestando la volontà di non impugnarle).   E’ stato, infatti, al riguardo affermato il principio (al quale dovrà uniformarsi il giudicedi rinvio) secondo cui l’art. 590 c.c., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presuppone, per la sua operatività, l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che sia comunque frutto della volontà del “de cuius”, sicché detta norma non trovaapplicazione in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, la qualeesclude in radice la riconducibilità di esso al testatore (cfr. Cass. n. 11195/2012 e, daultimo, Cass. n. 10065/2020).In altri termini, in tema di nullità del testamento olografo, la finalità del requisito dellasottoscrizione, previsto dall’art. 602 c.c. distintamente dall’autografia delle disposizioniin esso contenute, ha la finalità di soddisfare l’imprescindibile esigenza di averel’assoluta certezza non solo della loro riferibilità al testatore, già assicuratadall’olografia, ma anche dell’inequivocabile paternità e responsabilità del medesimoche, dopo avere redatto il testamento – anche in tempi diversi – abbia disposto del suopatrimonio senza alcun ripensamento; pertanto, nel caso in cui sia accertata la nonautenticità della sottoscrizione apposta al testamento, non può trovare applicazionel’art. 590 c.c. che, nel consentirne la conferma o l’esecuzione da parte degli eredi,presuppone l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che, pur essendoaffetta da nullità, sia comunque frutto della volontà del “de cuius”>>.

Soluzione ineccepibile.

 

Testamento e disposizione mortis causa a contenuto non patrimoniale (riconoscimento di figlio naturale) : l’atto “veicolo” della disposizione deve avere forma e solennità tipiche del testamento, altrimenti la disposizione non produce effetto.

Istruttivo caso deciso da Cassazione 02.02.2016 n. 1993.

Il de cuius aveva rilasciato una dichiarazione scritta 26.12.1984 del seguente tenore: “Rocca di Caprileone 26.12.1984. N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”. Egli successivamente nominava però erede universale un terzo, la sig.ra MW.

Apertasi la successione in data 20.01.1998 , veniva stipulato tra le sig.re NG e MW un accordo di suddivisione del patrimonio ereditario in data 4 agosto 1998  “al fine di non vedere pregiudicate le rispettive ragioni successorie” (id est una transazione, suppongo). In seguito la sig.ra NG -accortasi di una vendita dell’immobile ereditario da parte di MW senza il proprio  consenso- chiedeva che venisse accertato che il predetto atto del dicembre 1984 costituiva un riconoscimento di figlia naturale e che pertanto ella era  erede al 50%, con domande consequenziali. La controparte sig.ra MW eccepiva, tra l’altro, che l’atto medesimo non poteva invece essere ritenuto un testamento valido e quindi che nemmeno era valido riconoscimento di figlia naturale.

Le domande di NG vennero rigettate sia nei giudizi di merito che in quello di legittimità.

Sul punto sopra ricordato nel titolo, la Cassazione così osserva:  

<< L’art. 587 c.c., al comma 2, afferma poi che le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (quale, ad esempio, il riconoscimento ex art. 254 c.c., i cui effetti si producono alla morte del testatore: art. 256 c.c.) hanno efficacia, se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.

La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un “testamento in senso formale“, rivelante la funzione tipica del negozio testamentario. Tale funzione consiste nell’esercizio da parte dell’autore del proprio generale potere di disposizione mortis causa. Perchè sia individuabile un testamento in senso formale, quindi, occorre rinvenire il proprium dell’atto di ultima volontà, nel senso che l’atto esprima un’intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte. Non è esclusa, quindi, l’esistenza del testamento, qualora esso contenga soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale, ma requisiti irrinunciabili sono la formalità e la solennità dell’atto al fine di garantire la libertà di testare, la certezza e la serietà della manifestazione di volontà del suo autore e la sicura determinazione del contenuto delle singole disposizioni. A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 c.c. e ss.). Affinchè la dichiarazione di riconoscimento di un figlio nato al di fuori del matrimonio possa, pertanto, intendersi inserita in un testamento, del quale pure esaurisca il contenuto, giacchè l’atto risulta sprovvisto di disposizioni di carattere patrimoniale, occorre che esso riveli la sua natura di atto mortis causa (per il tempo in cui avrà cessato di vivere), nel senso che la morte sia assunta dal dichiarante come punto di origine (ovvero, appunto, come causa) del complessivo effetto del regolamento dettato con riguardo a tale situazione rilevante giuridicamente. Se è quindi corretto assumere che l’art. 587 c.c. non postula la necessaria patrimonialità di tipo dispositivo- attributivo, ovvero il necessario riferimento ai beni del testatore, il testamento non può non consistere in un atto di regolamento mortis causa degli interessi del testatore, allorchè tali disposizioni non patrimoniali evidenziano, comunque, la fisionomica essenziale inefficacia sino al momento della morte del testatore.

Come spiegato in precedenti pronunce di questa Corte, perchè un atto possa qualificarsi come testamento (sia pure inteso come forma vincolata, autonoma dal proprio naturale contenuto attributivo, in quanto includente soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale), pur non essendo necessario l’uso di formule sacramentali, è necessario riscontrare in modo univoco dal suo contenuto che si tratti di atto di ultima volontà, ovvero, appunto, di un negozio mortis causa, in maniera da distinguerlo, per rimanere proprio al caso del riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, da una mera enunciazione del fatto della procreazione. La ravvisabilità dell’atto di regolamento mortis causa rappresenta un prius logico rispetto ad ogni questione sull’interpretazione della volontà testamentaria, sicchè non vi è luogo di discutere di violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. se neppure appare oggettivamente configurabile una volontà testamentaria nelle espressioni adottate all’interno della scrittura da esaminare. Si è perciò costantemente affermato che per decidere se un documento abbia i requisiti intrinseci di un testamento olografo, occorre accertare se l’estensore abbia avuto la volontà di creare quel documento che si qualifica come testamento, nel senso che risulti con certezza che con esso si sia inteso porre in essere una disposizione di ultima volontà (Cass. 28 maggio 2012, n. 8490).

Nella specie, facendo corretta applicazione di questi principi, la Corte d’Appello di Perugia ha negato che la dichiarazione sottoscritta da D.S. in data 26 dicembre 1984, del tenore ” N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”, avesse valore di un testamento olografo ed ha perciò ritenuto inesistente il riconoscimento della filiazione. A tal fine, deve evidenziarsi come la valutazione di un atto quale disposizione testamentaria (ai sensi dell’art. 587 c.c.), ovvero, in particolare, quale testamento olografo (art. 602 c.c), costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 29 aprile 2006, n. 10035).

E’ d’altro canto del tutto da condividere la conclusione secondo cui la dichiarazione in esame non denoti un testamento in senso formale, in quanto non si evince da essa un’intenzione negoziale del D. volta a produrre l’effetto accertativo della filiazione dopo la sua morte, e perciò non sussiste la pretesa natura di atto mortis causa, nel quale la morte sia individuata come momento di insorgenza della regolamentazione dettata. Consegue in definitiva il rigetto del ricorso.>>

La Cassazione ricorda che il Tribunale, dopo aver negato che la dichiarazione del dicembre 1984 costituisse valido ricoscimento di figlia naturale,  aveva conseguentemente annullato l’accordo “transattivo” del 4 agosto 1998.

L’inseribilità nel testamento di disposizioni non patrimoniali è questione discussa, soprattutto in base a due variabili: – espressa previsione o meno nella legge della possibilità di  loro forma testamentaria; – presenza o meno nel testamento di ulteriori disposizioni (patrimoniali).