Twitter è esente da responsabilità diffamatoria, fruendo del safe harbour ex § 230 CDA statunitense

Altra decisione che esenta Twitter da responsabilità diffamatoria sulla base del § 230 Communication Decency Act CDA.

Si tratta di US DISTRICT COURT EASTERN DISTRICT OF NEW YORK del 17 settempbre 2020, MAYER CHAIM BRIKMAN (RABBI) ed altri c. Twitter e altro, caso 1:19-cv-05143-RPK-CLP.  Ne dà notizia l’aggiornato blog di Eric Goldman.

Un rabbino aveva citato Twitter (e un utente che aveva retwittato)  per danni e injunction, affermando che Twitter aveva ospitato e non rimosso un finto account della sinagoga, contenente post offensivi. Dunque era responsabile del danno diffamatorio.

Precisamente: <<they claim that through “actions and/or inactions,” Twitter has “knowingly and with malice . . . allowed and helped non-defendant owners of Twitter handle @KnesesG, to abuse, harras [sic], bully, intimidate, [and] defame” plaintiffs. Id. ¶¶ 10-12. Plaintiffs aver that by allowing @KnesesG to use its platform in this way, Twitter has committed “Libel Per Se” under the laws of the State of New York. Ibid. As relevant here, they seek an award of damages and injunctive relief that would prohibit Twitter from “publishing any statements constituting defamation/libel . . . in relation to plaintiffs.”>>.

L’istanza è respinta in base al safe harbour presente nel § 230 CDA.

Vediamo il passaggio specifico.

Il giudice premette (ricorda) che i requisiti della fattispecie propria dell’esimente sono i soliti tre:  i) che sia un internet provider; ii) che si tratti di informazioni provenienti da terzo; iii) che la domanda lo consideri “as the publisher or speaker of that information” e cioè come editore-

Pacificamente presenti i primi due, andiamo a vedere il terzo punto, qui il più importante e cioè quello della prospettazione attorea come editore.

<<Finally, plaintiffs’ claims would hold Twitter liable as the publisher or speaker of the information provided by @KnesesG. [NB: il finto account della sinagoga contenente post offensivi].  Plaintiffs allege that Twitter has “allowed and helped” @KnesesG to defame plaintiffs by hosting its tweets on its platform … or by refusing to remove those tweets when plaintiffs reported them …  Either theory would amount to holding Twitter liable as the “publisher or speaker” of “information provided by another information content provider.” See 47 U.S.C. § 230(c)(1). Making information public and distributing it to interested parties are quintessential acts of publishing. See Facebook, 934 F.3d at 65-68.

Plaintiffs’ theory of liability would “eviscerate Section 230(c)(1)” because it would hold Twitter liable “simply [for] organizing and displaying content exclusively provided by third parties.” … Similarly, holding Twitter liable for failing to remove the tweets plaintiffs find objectionable would also hold Twitter liable based on its role as a publisher of those tweets because “[d]eciding whether or not to remove content . . . falls squarely within [the] exercise of a publisher’s traditional role and is therefore subject to the CDA’s broad immunity.” Murawski v. Pataki, 514 F. Supp. 2d 577, 591 (S.D.N.Y. 2007); see Ricci, 781 F.3d at 28 (finding allegations that defendant “refused to remove” allegedly defamatory content could not withstand immunity under the CDA).

Plaintiff’s suggestion that Twitter aided and abetted defamation “[m]erely [by] arranging and displaying others’ content” on its platform fails to overcome Twitter’s immunity under the CDA because such activity “is not enough to hold [Twitter] responsible as the ‘developer’ or ‘creator’ of that content.” … Instead, to impose liability on Twitter as a developer or creator of third-party content—rather than as a publisher of it—Twitter must have “directly and materially contributed to what made the content itself unlawful.” Id. at 68 (citation and internal quotation marks omitted); see, e.g., id. at 69-71 (finding that Facebook could not be held liable for posts published by Hamas because it neither edited nor suggested edits to those posts); Kimzey v. Yelp! Inc., 836 F.3d 1263, 1269-70 (9th Cir. 2016) (finding that Yelp was not liable for defamation because it did “absolutely nothing to enhance the defamatory sting of the message beyond the words offered by the user”) (citation and internal quotation marks omitted); Nemet Chevrolet, Ltd. v. Consumeraffairs.com, Inc., 591 F.3d 250, 257 (4th Cir. 2009) (rejecting plaintiffs’ claims because they “[did] not show, or even intimate” that the defendant “contributed to the allegedly fraudulent nature of the comments at issue”) (citation and internal quotation marks omitted); see also Klayman v. Zuckerberg, 753 F.3d 1354, 1358 (D.C. Cir. 2014) (“[A] website does not create or develop content when it merely provides a neutral means by which third parties can post information of their own independent choosing online.”).

Plaintiffs have not alleged that Twitter contributed to the defamatory content of the tweets at issue and thus have pleaded no basis upon which it can be held liable as the creator or developer of those tweets. See Goddard v. Google, Inc., No. 08-cv-2738 (JF), 2008 WL 5245490, at *7 (N.D. Cal. Dec. 17, 2008) (rejecting plaintiff’s aiding and abetting claims as “simply inconsistent with § 230” because plaintiff had made “no allegations . . . that Google ‘developed’ the offending ads in any respect”); cf. LeadClick, 838 F.3d at 176 (finding defendant was not entitled to immunity under the CDA because it “participated in the development of the deceptive content posted on fake news pages”).

Accordingly, plaintiffs’ defamation claims against Twitter also satisfy the final requirement for CDA preemption: the claims seek to hold Twitter, an interactive computer service, liable as the publisher of information provided by another information content provider, @KnesesG>>.

Interessante è che l’allegazione censurava non solo l’omessa rimozione ma pure il semplice hosting del post: forse mescolando fatti relativi alla perdita delll’esimente (responsabilità in negativo) con quelli relativi alla responsabilità in positivo.

Un’importante sentenza inglese sulla comunicazione al pubblico effettuata da aggregatore di radio internet (Warner e Sony v. TuneIn)

Con l’importante sentenza del 1 novembre 2019, [2019] EWHC 2923 (Ch) Case No: IL-2017-000025, la High Court of Justice-Business & Property Courts of England and Wales. Intellectual Property List, a firma del giudice Birss , interviene sul dibattito inerente la comunicazione al pubblico di opere già rese pubbliche in precedenza (esiste poi una seconda sentenza parallela nella medesima lite,  [2019] EWHC 3374 (Ch) – claim No. IL-2017-000025, relativa solo ad inibitoria e costi, qui non esaminata). Ne dà notizia

Nella fattispecie Warner Music e Sony Music Entertainment sostenevano che la TuneIn Incorporated, quale aggregatore di internet radio stations, dovesse ottenere da loro licenza (§ 11), come avviene quando le radio si rivolgono a collecting societies per diffondere musica dei loro repertori (§§ 3-4). TuneIn lo contestava, affermando di limitarsi a fornire hyperlinks ad opere già rese pubbliche.

La Corte (EWHC) affronta la questione con pregevole approfondimento, tutto concentrato sui fatti e sulla giurisprudenza, come nella prassi anglosassone.

Prima compare un’introduzione sui fatti (§§ 1-10: v. spt. quelli che descrivono l’attività di TuneIn) e l’esame della (fondamentale, per gli operatori) questione di giurisdizione, c.d. audience targeting test (§§ 12-34), usato in common  law (v. ad es. Belfield, Establishing personal jurisdiction in an internet context: reconciling the fourth circuit “targeting” test with Calder v. Jones using awareness, in UNIVERSITY OF PITTSBURGH LAW REVIEW vol. 80, winter 2018).

Poi il giudice Birss affronta la questione relativa alla comunicazione al pubblico. Inizia ricordando la normativa rilevante (§§ 35 ss) e poi -con un apprezzabile dettaglio- la giurisprudenza europea (§§ 48 ss)

In particolare come ovvio si riferisce essenzialmente ai casi Svensson del 2014 e GS Media del 2016: si v. ad es. § 66 dove coglie la novità costituita dalla rilevanza dello stato soggettivo di conoscenza in capo alla persona che crea il link per capire se o meno ha commesso comunicazione al pubblico , rilevanza propria della accessory tort liability (corresponsabilità aquiliana), che non è armonizzata in UE.

Al § 90 esamina la sentenza Renckhoff del 2018, che potrebbe essere ritenuta confliggente con GS Media . La  conciliazione da parte del giudice è trovata nei §§ 101-102. Il punto è molto importante: quando taluno acconsente alla pubblicazione su un sito, è vero che prende in considerazione tutti i potenziali utenti del web, ma solo come destinatari di link al sito stesso, non dei file ivi presenti (si v. al § 109 la sintesi di altra sentenza inglese del 2013 sull’acquis europeo in tema di comunicazione al pubblico ).

Questo passo centrale della motivazione è però di dubbia esattezza: si v. in senso contrario le conclusioni dell’Avvocato Generale Sanchez-Bordona nella causa  Renckhoff , andate disattese dalla Corte europea.

Il giudice Birss ricorda che la differenza tra Renckhoff e Soulier del 2016, da una parte, e Svensson, dall’altra, sta nel fatto che la divulgazione tramite link permette al titolare di rimuovere da internet il materiale, quando lo voglia; il che invece non è possibile se la divulgazione è avvenuta riproducendo il file su un nuovo sito (§ 104).

Questo però -preciso io- non toglie che i pubblici considerati siano i medesimi: allora la differenza non è tra i pubblici considerati in assoluto , ma tra pubblici considerati a seconda del possibile successivo mezzo di diffusione del materiale e o della notizia. Si tratta di fictio iuris. Il punto -centrale, lo ripeto- richiederebbe approfondimento.

Al § 113 il giudice categorizza le internet radio stations in quattro tipi, per poi analizzarli partitamente:

i) music radio stations which are licensed in the UK (Category 1);

ii) music radio stations which are not licensed in the UK or elsewhere (Category 2);

iii) music radio stations which are licensed for a territory other than the UK (Category 3); and

iv) Premium music radio stations (Category 4).

Ssuccessivamente valuta l’applicabilità della comunicazione al pubblico al servizio di TuneIn ( § 120 ss.).

Al § 121 esamina i normali motori di ricerca e quindi afferma che Tunein non  è equiparabile ad un ordinario search engine ( § 121) :

<<In argument neither party put it this way but it seems to me that when making a comparison with internet search engines it is necessary to identify the appropriate comparator. The relevance of the comparison is to illuminate where the balance lies between the functioning of the internet and the freedoms associated with that on the one hand, and the high protection to be afforded to intellectual property rights on the other. The issue is whether TuneIn does something different from the kind of search engine service which is a necessary part of the normal functioning of the internet. I call that a conventional search engine. A conventional search engine provides a service which the functioning of the internet depends on. It has a database with a search facility. It will no doubt have a prominent box for search on its home page. It will (internally) have structured indices of what is on the database. It may use fuzzy logic and automatic completion of text strings. When a search term is entered, the engine simply provides links to other websites in response to search terms. If a user selects the link then, at least from their point of view, the user is taken to that other website and the involvement of the search engine ceases. The search function is optimised in all sorts of ways to try and offer users what the search engine provider thinks the user really wants, nevertheless the search results provided are essentially neutral. Sponsored links (i.e. advertisements) may also be provided, reflecting a direct relationship between the search engine and particular websites or advertisers, but that sort of material is provided alongside the search results, not instead of them>>

Al § 123 elenca le caratteristiche del servizio Tunein: aggregation, categorization, curation of stations Lists, personalisation of content, search functionality, Station information, Artist information:

i) Aggregation: TuneIn collates and provides access to a vast array of international radio station streams. It essentially acts as a ‘one-stop shop’ for users, who are easily able to browse, search for and listen to stations in one place. The alternative for users is to use a standard internet search engine to locate a webcast / simulcast station by using tailored search terms, and then click-through to their websites to listen to the specific stream. One aspect of the difference there is that in the latter case the advertising targeted to the user once they access the stream will be entirely distinct in the two cases.

ii) Categorisation: TuneIn Radio enables users to browse by categories of music, such as location, genre and language, including sub-categories within those categories. This is the most commonly used method for users to find audio content. Music stations are placed in categories based on information provided by the stations and factors such as geographical location.

iii) Curation of station lists: In addition to categorising stations, TuneIn curates lists of radio stations and programmes to present them to users as part of the browsing experience on its website and via the apps. These stations are collated by factors such as location and language or themed around current events. For example, TuneIn promotes lists of stations to users, such as “Spin the Globe” (comprising international music stations) and “Editor’s Choice – Music” (a hand-curated list of music stations). Certain stations are also listed in a “Featured” section, which is frequently updated by TuneIn to keep content relevant and non-repetitive.

iv) Personalisation of content: TuneIn Radio provides a personalised service to users, which facilitates their ability to find and listen to radio stations. TuneIn recommends stations to users based on their location, the reliability of audio streams and (in respect of registered users) the user’s listening history. Registered users are also able to view their listening history and tag their ‘favourite’ stations and/or artists, which enables them to quickly access radio stations they have previously listened to via TuneIn Radio or their favourite stations and artists.

v) Search functionality: Users are able to search TuneIn Radio for specific radio stations and artists by name. The search functionality prioritises inter alia reliable station streams and stations which are popular at that time.

vi) Station information: TuneIn collates information about music stations, which is presented on individual station pages. This includes the genre of the station and, where available, the artist and track currently playing, the station’s show timetable and related podcasts or featured shows.

vii) Artist information: TuneIn also collates information about artists on dedicated artist pages, which can be accessed by searching for the particular artist. The artist pages include a list of stations which play the particular artist (based on metadata provided by the stations) and a list of the artist’s albums. Users are also able to click-through to each album page, which displays the individual tracks on each album.

Ai §§ 127-128 indica perché TuneIn non è paragonabile al motore di ricerca che fornisce link. Si tratta del punto centrale della sentenza (§ 128):

i) The fact that TuneIn aggregates links to audio streams as opposed to links to some other form(s) of content is relevant. The audio streams carry music and as a result they engage various intellectual property rights, as TuneIn is well aware.

ii) The data collected and curated by TuneIn allows for searches of stations to be carried out by artist. Such a search returns internet radio stations which are playing music by the artist at that moment. As I understand it this is only possible as a result of TuneIn’s own monitoring stream metadata and the AIR APIs. There was evidence about what a search for internet radio stations would produce on the commonly used Google search engine but, as far as I am aware, there is no evidence that a similar search on that search engine would produce results of the same kind as TuneIn.

iii) The fact that when a station is selected, although a hyperlink to the stream is provided at a technical level, from the user’s point of view content is provided to them at the TuneIn site. In effect this is a kind of framing. The fact that framing was not relevant to answer the questions posed in Svensson (para 29) does not mean it is irrelevant to considering the nature of TuneIn’s activity.

iv) The persistent nature of the content to which the user wishes to link. This is connected to (iii) but is a different point. One of the consequences of providing streams is that they persist over time as the user listens to them. In a conventional search engine, once a user has clicked on a link, they go to the new website and the involvement of the search engine is over. That is not how TuneIn’s service works and if it was then TuneIn would not be able to provide its own visual advertisements while the user was listening.

Date queste differenze il giudice Birss conclude che << For all these reasons I find that TuneIn intervenes directly in the provision of the links to the streams in a manner which neither conventional search engines nor hyperlinks on conventional websites do. TuneIn’s service is not the same as either a conventional search engine or the conventional hyperlinks considered in Svensson and GS Media.                 Before getting to individual categories, I find therefore that the activity of TuneIn does amount to an act of communication of the relevant works; and also that that act of communication is to a “public”, in the sense of being to an indeterminate and fairly large number of persons (see Arnold J’s summary at paragraph >> (§§ 130/131)

La, pur pregevole ed accurata, disamina non riesce però persuasiva. TuneIn non appare nulla più che un fornitore di link, per quanto tailorizzato e customizzato in base ad algoritmi magari autoapprendenti, non sostanzialmente diverso -sotto il profilo della comunicazione al pubblico- da un normale motore di ricerca

Il giudice deve quindi esaminare se l’atto sub iudice, accertato come di comunicazione al pubblico,  era rivolta ad un pubblico nuovo (§ 132 seguenti, soprattutto §§ 135/136), secondo l’elaborazione giurispruedneziale europea della comunicazione al pubblico di opere già pubblicate in precedenza (quando si tratti di uso del medesimo mezzo diffusivo).

La risposta è positiva: << Therefore it is appropriate to analyse the facts on the footing that the whole internet public, insofar as they encounter a link to a Category 3 station which is provided either by a conventional search engine or some other conventional sort of website, has been taken into account. It is an inherent aspect of making this material available on the internet that that sort of linking is likely to happen.       On the other hand, absent evidence to the contrary, there is no reason why the kind of public to whom TuneIn’s system is addressed should have been taken into account. TuneIn’s activity is a different kind of act of communication and is targeted at a particular public, i.e. users in the UK>> ( §§ 139-140)

Questo per la categoria di Radio Station numero 3. Le altre categorie non le esamino ma comunque seguono subito dopo: v. §§ 143 160 per la categoria 2, §§ 161 163 per la categoria 4, §§ 164 171 per la categoria 1.

Successivamente esamina la qualificazione giuridica del servizio Premium cioè senza pubblicità (§§ 172 e seguenti)

Interessante anche la disamina sulla responsabilità di coloro che forniscono i servizi radio cioè delle singole radio (§§ 192 e seguenti) : circa la categoria 3 (condivisibilemtne) afferma che c’è comunicazione al pubblico (§ 193).

Infine ai §§  205 ss nega l’applicazione della direttiva e-commerce n. 31 del 2000 nella parte in cui concede il safe harbour agli internet providers (artt. 12-15).

La conclusioni sono al paragrafo 213:

i) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes or included the sample stations in Categories 2, 3, and 4, infringes the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

ii) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes the sample stations in Category 1, does not infringe the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

iii) TuneIn’s service via the Pro app when the recording function was enabled infringed the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act insofar as it included the sample stations in Categories 1, 2, 3, and 4.

iv) Individual users of the Pro app who made recordings of sound recordings in claimants’ repertoire will themselves have committed an act of infringement under s17 of the 1988 Act. Some but not all will have fallen within the defence in s70.

v) The providers of sample stations in Categories 2, 3, and 4 will (or did) infringe when their station was targeted at the UK by TuneIn.

vi) TuneIn is liable for infringement by authorisation and as a joint tortfeasor.

vii) TuneIn cannot rely on the safe harbour defences under Arts 12, 13 and 14 of the E-Commerce Directive.

Il concorso in contraffazione di chi tiene in deposito (ed eventualmente spedisce) merci contraffatte per conto terzi (sulla posizione di Amazon Logistics)

Pende presso la Corte di Giustizia una causa relativa alla posizione di Amazon per lo stoccaggio e l’eventuale invio di merci per conto di un venditore, qualora si tratti di merci contraffatte: Coty Germany GmbH contro Amazon Services Europe Sàrl, Amazon FC Graben GmbH, Amazon Europe Core Sàrl, Amazon EU Sàrl, C-567/18.

Sono state pubblicate le conclusioni 28.11.2019 dell’avvocato generale M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA  (di seguito solo : AG) , delle quali mi occupo in questo post.    Si tratta di causa importante, quanto alle questioni trattate.

Coty, già protagonista di un’altra vertenza in tema di divieto di avvalersi di piattaforme elettroniche (amazon.de) nella distribuzione selettiva (Coty Germany GmbH c. Parfümerie Akzente GmbH, Corte di Giustizia 6 dicembre 2017, C-230/16), ha poi iniziato una lite in Germania, chiedendo ad Amazon il nome del venditore da cui provenivano i prodotti contraffatti. Amazon ha risposto che non sarebbe stato possibile risalire a tale impresa, § 12 (non è chiaro se per scelta o per impossibilità di recupero dei dati: verosimilmente si trattava della prima alternativa)

Coty allora ha proposto domanda di inibitoria contro Amazon, ritenendo che violasse il diritto di marchio : in particolare proponendo domanda di inibitoria dello stoccaggio o spedizione dei profumi marcati Davidoff hot water, § 13.

Il processo è arrivato al Bundesgerichtshof, il quale, pur ritenendo che non vi fosse contraffazione addebitabile ad Amazon (§ 18), ha ugualmente proposto la seguente domanda pregiudiziale: «Se una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo, senza aver conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

La normativa applicabile è quella del regolamento 207 del 2009, poi sostituito dal reg. 2017 n° 1001. Il giudice del rinvio ragiona su entrambi , ma sottolinea che deve applicarsi quello ora in vigore (2017/1001), forse perché la misura richiesta è processuale (riporta infatti l’AG: <<, data la natura dell’azione proposta>>: § 4): affermazione però di dubbia esattezza, poiché è dubbio che sia processuale l’inibitoria, essendo una delle misure a tutela del diritto.  Tuttavia si dice ivi che non ci sono state modifiche significative tra le due normative.

Ragionerò quindi sul regolamento del 2017 n. 1001-

Le  norme rilevanti sono:

– l’articolo 9 comma 2, che indica quando c’è contraffazione : <<Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando: ...>>;

– l’articolo 9 comma 3, che precisa alcune fattispecie rientranti nel comma 2, e in particolare la lettera B : <<Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2: …b) l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;>>

L’AG nei §§ 33-43 esamina precedenti sentenze in tema di uso del segno di terzi da parte dell’intermediario e soprattutto la sentenza L’Oréal ed altri c. eBay 12.07.2011,  C‑324/09.

Ai §§ 41 e 42 propone una duplice alternative interpretativa, a seconda che si dia un’accezione ristretta o lata ai servizi offerti da Amazon (impostazione già presente i paragrafi 22 e 27) (impostazione importante visto che percorre tutte le sue Conclusioni)

Passa poi ad indicare i requisiti per aversi la fattispecie di “stoccaggio ai fini dell’immissione in commercio”, di cui all’articolo 9 c. 3 lettera b) (§ 44 ss); anche lo stoccaggio, del resto, rileva solo se finalizzato alla  immissione in commercio, come si ricava pianamente dal dettato della norma (§ 47).

L’ AG  conclude dunque che sono due le condizioni per  per ravvisare la ricorrenza di tale fattispecie: 1) un elemento materiale e 2) un elemento intenzionale (cioè la volontà di possesso ai fini dell’immissione in commercio) (§ 48).

POSSESSO – circa il possesso l’AG dice che, se si intende in senso stretto il servizio di Amazon Logistics, probabilmente non ricorre

Tuttavia  la valutazione potrebbe essere diversa, <<se si adottasse l’approccio alternativo ai fatti al quale ho fatto riferimento in precedenza. In tale ottica, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a un modello integrato di negozio, tengono un comportamento attivo nel processo di vendita, che è per l’appunto ciò che la norma esemplifica là dove elenca atti quali «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Corollario di siffatto comportamento attivo sarebbe l’apparente controllo assoluto del processo di vendita>> § 51.

In particolare l’AG ricorda la complessità del servizio offerto da Amazon Logistics:  <<con il programma «Logistica di Amazon» le imprese di tale gruppo, che agiscono in modo coordinato, non si occupano soltanto dello stoccaggio e del trasporto «neutri» dei prodotti, bensì di una gamma di attività molto più ampia.  Infatti, optando per detto programma, il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano (possono anche etichettarli, imballarli adeguatamente o confezionarli come regali) e li spediscono all’acquirente. Amazon può occuparsi anche della pubblicità (37) e della diffusione delle offerte sul proprio sito Internet. Inoltre, Amazon offre il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestisce i rimborsi dei prodotti difettosi (38). Sempre Amazon riceve dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario (39).      Tale coinvolgimento attivo e coordinato delle imprese del gruppo Amazon nella commercializzazione dei prodotti comporta l’assunzione di buona parte dei compiti del venditore, del quale Amazon svolge il «lavoro pesante», come evidenziato sul suo sito Internet. Su tale pagina si può leggere, quale incentivo al venditore per aderire al programma «Logistica di Amazon», la seguente frase: «Inviaci i tuoi prodotti e lascia che ci occupiamo del resto». In tali circostanze, le imprese del gruppo Amazon tengono «un comportamento attivo [ed esercitano] un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso [del marchio]»>> (§§ 55-57).

Se dunque nel caso di specie fosse confermato che le imprese del gruppo Amazon hanno prestato tali servizi (o quanto meno i più importanti) nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», <<si potrebbe ritenere che, in qualità vuoi di gestori del mercato elettronico vuoi di depositari, esse svolgano funzioni nell’immissione in commercio del prodotto che vanno oltre la mera creazione delle condizioni tecniche per l’uso del segno. Di conseguenza, dinanzi a un prodotto lesivo dei diritti del titolare di un marchio, la reazione di quest’ultimo potrebbe legittimamente consistere nel vietare loro l’uso del segno>> § 58.

Nè del resto sono applicabili le esenzioni alla responsabilità previste dalla direttiva 2000/31  articolo 14 paragrafo 1, stante la non neutralità di Amazon (paragrafo 62).

Quest’ultima affermazione lascia perplessi per due motivi:

motivo 1 :  perché è assai dubbio che il servizio di stoccaggio fisico rientri nel concetto di <<servizi della società dell’informazione>>. Tale nozione secondo  l’art. 2 dir. 2000/31 è costituita dai <<servizi ai sensi dell’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE, come modificata dalla direttiva 98/48/CE>>, la quale così recita:

<< “servizio”: qualsiasi servizio della società dell’informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

Ai fini della presente definizione si intende:

– “a distanza”: un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti;

– “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento (compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici od altri mezzi elettromagnetici;

– “a richiesta individuale di un destinatario di servizi”: un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale.

Nell’allegato V figura un elenco indicativo di servizi non contemplati da tale definizione.

La presente direttiva non si applica:

– ai servizi di radiodiffusione sonora,

– ai servizi di radiodiffusione televisiva di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva 89/552/CEE (*).>>

Ebbene, il servizio di stoccaggio e spedizione non è <<prestato (…) a distanza, per via elettronica>>!

Può essere invocata a conferma in tale senso Corte Giustizia 20.12.2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi c. Uber Systems SpainSL. La C.G. ha detto che la mera intermediazione tra domanda ed offerta di servizi di trasporto rientra bensì nel concetto di «servizio della società dell’informazione» (§ 35). Però il servizio di Uber non è solo questo o meglio la sua intermediazione è così ampia che è essa stessa ad offrire sul mercato il servizio di trasporto (§§ 37-40): per cui complessivamente è questo il servizio offerto da Uber. Analoghe considerazioni valgono nel nostro caso: in Amazon Logistics lo stoccaggio e il deposito hanno importanza non minore della presenza sul marketplace digitale, come il software di Uber è la premessa per l’esecuzione poi del trasporto.

La Corte di Giustizia invece ha ragionato in modo opposto nel recente caso Airbnb (sentenza 19.12.2019, C-390/18). Qui ha ravvisato un «servizio della società dell’informazione» , dato che <<la raccolta delle offerte presentate in modo coordinato con l’aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto di tali offerte costituisce, per la sua importanza, un servizio che non può essere considerato come un semplice accessorio di un servizio globale al quale vada applicata una qualifica giuridica diversa, ossia una prestazione di alloggio>> (§ 54 e in generale §§ 52-57)

motivo 2: perché la domanda azionata da Coty era di inibitoria e le inibitorie verso gli intermediari prescindono per opinione comunemente ricevuta dalle necessità di una loro corresponsabilità civile.

L’ELEMENTO INTENZIONALE  (il fine di offrire o immettere in commercio i prodotti stoccati o posseduti) – Nei §§§ 64 ss. , l’AG ricorda che già l’impostazione del giudice a quo escludeva la presenza dell’elemento del possesso o detenzione, dal momento che elemento soggettivo veniva ravvisato solamente in capo al terzo e non ad Amazon (§ 67). Anche qui però la l’AG dice che , aderendo ad un concetto più ampio di servizio offerto da Amazon, la conclusione potrebbe essere diversa:  <<anche in tal caso, però, la risposta potrebbe essere diversa qualora si adottasse un’interpretazione dei fatti che ponga l’accento sulla situazione specifica delle imprese di Amazon in quanto ampiamente implicate nella commercializzazione dei prodotti in questione, nell’ambito del programma «Logistica di Amazon» . In tale prospettiva, che supera ampiamente quella di un mero assistente neutro del venditore, è difficile negare che dette imprese intendano anch’esse, insieme al venditore, offrire o immettere in commercio i prodotti controversi.>> (§ 68-69).

LA RESPONSABILITà (RISARCITORIA, PARREBBE) – Circa la responsabilità infine, da intendere parrebbe come soggezione al rimedio del risarcimento del danno, l’AG offre alcune considerazioni alla lettera C), §§ 70 ss. Se tale mia interpretazione (riferimento al risarcimento del danno) è corretta, la pertinenza di quest’ultima parte delle conclusioni è dubbia: il rinvio pregiudiziale infatti si concentrava solo sul se ricorresse o meno il concetto normativo di stoccaggio, senza menzionare il rimedio risarcitorio (v. quesito al paragrafo 19). La violazione del diritto e la risarcibilità dell’eventuale , però, costituiscono due profili diversi.

L’AG ai §§ 71-75 ricorda alcune norme europee, che danno rilevanza all’elemento soggettivo. Egli ancora distingue le due configurazioni possibili del servizio di Amazon Logistics, distinguendo infatti in base al ruolo concretamente svolto dall’intermediario. L’AG concede che i meri depositari vadano esenti da responsabilità (§§ 79-80). Il panorama è invece diverso <<quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità. Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo (52), potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi» (53), esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore>>. ( § 81-82).

L’intera causa lascia perplessi dal momento che le condizioni per l’emissione delle  inibitorie (ciò che aveva chiesto Coty inizialmente in Germania) sono notoriamente lasciate ai diritti nazionali, come si ricava senza particolari difficoltà dall’articolo 11 dir. 48/2004, ultima parte. Per cui la ricerca di un elemento soggettivo per la sottoposizione ad inibitoria è probabilmente non pertinente. Del resto il giudice a quo aveva semplicemente chiesto se, secondo la normativa europea, la fattispecie integrasse o meno il concetto di <<stoccaggio>> dei prodotti contraffatti, senza alludere minimamente il profilo soggettivo (v. quesito al § 19).

Staremo a vedere la risposta della Corte su questi importanti -anzi apicali- aspetti  del diritto europeo della proprietà intellettuale

La Corte di Giustizia sull’ambito del giudicato di accertamento sottostante l’inibitoria: quando ricorre “la medesima violazione” accertata illecita, che può ritenersi contenuta nell’inibitoria e che dunque la viola?

La Corte con sentenza 03.10.2019, C-18/18, Eva Glawischnig‑Piesczek c. Facebook Ireland Limited, interviene con un’attesa sentenza sull’ampiezza del giudicato coperto dall’accertamento di illiceità, sottostante all’inibitoria di comportamenti futuri.

Userò indifferentemente i termini inibitoria e ingiunzione come pure inibire/ingiungere. Injunction in common law corrisponde grosso modo alla nostra inibitoria: solo che ha un contenuto molto più ampio (Mattei U., Tutela inibitoria e tutela risarcitoria, Giuffrè, 1987, 157/8)  e in particolare può avere anche contenuto positivo (si parla infatti oltre che di prohibitory injunction , pure di mandatory injunction: voce Injunction, in A Dictionary of Law Enforcement (2 ed.) a cura di Graham Gooch and Michael Williams, Oxf. Univ. Press, 2015). Da noi invece l’inibitoria è un ordine di cessazione (inibire=vietare), anche se teoricamente si potrebbe vietare una condotta omissiva, nel caso fosse dovuta una condotta positiva (in tema di responsabilità contrattuale, dunque; da vedere in quella aquiliana): difficilmente però, in tal caso ne seguirebbe la conseguenza logica di dover tenere una condotta positiva precisamente individuata (l’intercambiabilità tra ottica positiva e negativa è però affermata da Frignani A., voce Inibitoria (azione), Enc. dir., 1971, § 7 Contenuto: <<La contraddizione è soltanto apparente, in quanto ciò che si vuole impedire per il futuro (o inibire) è l’illecito in se stesso; e non c’è dubbio che l’illecito visto sotto il profilo della condotta, possa essere sia commissivo sia omissivo secondo il tipo di obbligo violato. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo si avrà una condanna ad un non facere, mentre, invece, in presenza di un illecito omissivo si avrà una condanna ad un facere. Bisogna tuttavia rilevare che si tratta di due aspetti dello stesso fenomeno, talvolta inscindibilmente legati l’uno all’altro, talvolta addirittura intercambiabili. Infatti, da un punto di vista teorico, anche l’inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a far cessare l’illecito, potrebbe ordinare la cessazione dell’illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative>>. In breve, da noi l’inibitoria in linea di massima ha contenuto solo negativo cioè ordina un’astensione (solamente un contenuto negativo per Basilico, La tutela civile preventiva, Giuffrè, 2013, 205-216, secondo cui quando ha un contenuto positivo si tratta di tutela contro l’inadempimento contrattuale). La traduzione italiana della sentenza usa il termine ingiunzione.

A dire il vero non è chiarissimo se riguardi pure la rimozione di materiale già caricato o solo l’inibizione o blocco di caricamenti futuri . Le cose potrebbero combinarsi, dal momento che qualche caricamento potrebbe sfuggire ai filtri: quindi  potrebbe succedere di dovere rimuovere ciò che oggi non c’è sul server del provider ma che in futuro ci sarà.

I fatti storici contemplano un post diffamatorio su Facebook inerente una politica austriaca: consisteva in un link ad altro sito (del quale il post offre un’anteprima) e un commento diffamante.

La questione giuridica sorta riguarda il se eventuali futuri comportamenti identici da altra fonte, oppure anche solo equivalenti, rientrino tra quelli oggetto dell’inibitoria. Anzi più precisamente la questione è affrontata dal punto di vista del contenuto dell’inibitoria e cioè nell’ottica del giudice che deve emetterla. Ma il problema si pone anche se il giudice nulla dice in proposito (non è scontato che il dictum giudiziale in tale caso vada interpretato in modo formalistico e rigoroso).

In sostanza il giudice a quo chiede  se il diritto europeo e in particolare l’articolo 15 paragrafo 1 direttiva 31/2000 (divieto di porre obblighi di sorveglianza o di ricerca generalizzati) osti ad un’inibitoria (anzi letteralmente: ad un obbligo di rimuovere, ma come detto poi il giudice lo interpreta anche come riferito ad un ordine di bloccare l’accesso futuro) di caricamenti di informazioni future “identiche” a quelle accertati illeciti e prescindere dall’uploader (cioè da chi metta on line le informazioni stesse). Cioè identiche nel contenuto ma non nel soggetto che le metta on line.

Chiede poi se osti ad inibitoria riferite a contenuti non identici a quelli accertati illeciti ma solo “equivalenti” ad essi. Qui però la Corte stranamente non menziona più il profilo soggettivo e cioè la questione della rilevanza dell’identità o diversità dell’uploader (cioè se faccia una qualche differenza, ai fini dell’inibitoria di informazioni equivalenti, che siano caricate dall’uploader originario oppure da un soggetto terzo)

Nell’ambito di tale questione si chiede poi  se gli effetti di tale ingiunzione possono essere estesi a livello mondiale

la terza questione pregiudiziale non è ben chiara e sembra riferita al dovere di trattamento di informazioni illecite non identiche bensì equivalenti , appena il gestore ne sia venuto a conoscenza: e cioè a prescindere, sembrerebbe, dal soggetto che glielo notifica. Di questa domanda , data la sua scarsa comprensibilità, non mi occupo (l’intero set delle questioni pregiudiziali non è però scritto o tradotto in modo molto chiaro).

Circa la prima domanda pregiudiziale la Corte afferma che il giudice può legittimamente esigere il blocco dell’accesso alle informazioni identiche a quelle già accertati illecite, a prescindere da chi sia l’uploader (<< qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione>> par. 37).

E’ abbastanza semplice  arrivare a questa conclusione, dal momento che è certo che non ricorre il concetto di sorveglianza/ricerca generale ex art. 15 dir., unico aspetto rilevante presso la Corte .

Più complesso è il secondo quesito, relativo alla possibilità di inibire anche permanenza o caricamenti  di materiali o informazioni dal contenuto equivalente anziché identico a quello già accertato illecito

(si dovrebbe distinguere, dato che si può ordinare di : i) evitare caricametni futuri; ii) far permanere caricamenti passati già effettuati; iii) far permanere caricamenti futuri che venissero effettettuati nonostante i filtri perchè in violazione o comunque in superamento degli stessi)

Il giudice europeo ritiene che l’ingiunzione, per essere effettiva e cioè per far effettivamente cessa l’illecito/impedirne il reiterarsi, deve  potersi estendere alle informazioni equivalenti: cioè a quelle che recano sostanzialmente il medesimo messaggio, anche se formulato in modo leggermente diverso. Precisamente dice <<deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole utilizzate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito. Diversamente infatti, e come sottolineato dal giudice del rinvio, gli effetti inerenti a un’ingiunzione del genere potrebbero facilmente essere elusi tramite la memorizzazione di messaggi appena diversi da quelli dichiarati illeciti in precedenza, il che potrebbe condurre l’interessato a dover moltiplicare le procedure al fine di ottenere la cessazione dei comportamenti illeciti di cui è vittima>> (par.  41).

La Corte però ricorda che la tutela del soggetto le Ieso non è assoluta e deve conciliarsi con le esigenze di non imporre obblighi eccessivi al provider: è questa la ragione dell’articolo 15 comma 1 dir. 31 (§ 44). In applicazione di questo criterio, allora, afferma che le informazioni “equivalenti” sono quelle che <<contengono elementi specifici debitamente individuati dall’autore dell’ingiunzione>> (cioè dal giudice),  <<quali il nome della persona interessata dalla violazione precedentemente accertata, le circostanze in cui è stata accertata tale violazione nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito>> (§ 45). Si precisa pure che <<differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto al contenuto dichiarato illecito non devono, ad ogni modo, essere tali da costringere il prestatore di servizi di hosting interessato ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto>> (§ 45).

Ora, che debba esserci equivalenza anzi identità circa il nome della persona interessata (l’aggredito) e  equivalenza circa le circostanze relative alla violazione (nel caso: opinioni sulla politica di accoglimetno dei migranti) è condibvisibile e potrebbe essere non difficile da accertare in concreto. Potrebbe invece essere difficile accertare  l’equivalenza circa il resto del contenuto e cioè il giudizio negativo e diffamante sulla persona.

La Corte lodevolmente cerca di ridurre il margine di opinabilità e tutelare quindi la libertà imprenditoriale del provider, in mancanza di uno specifico Safe Harbor per la fase esecutiva delle inibitorie (non menziona la libertà di espressione e di inoformazine dell’uploader: probabilmente dato che in thesi si tratta di caricamente di materiali illeciti). Precisa che << la sorveglianza e la ricerca che richiede sono limitate alle informazioni contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>> e che la ricerca dell’equivalenza non può <<il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma, e quest’ultimo può quindi ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati>>: cioè par di capire deve essere palese, ictu oculi rilevabile (non dal soggetto medio di un certo paese ma dal livello medio di professionalità di un operatore del medesimo settore professionale) e deve essere verificabile invia automatica.

Inoltre il dovere è limitato , si badi, alle informaizoni <<contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>>.

Il passaggio è importante: ad es in relazione alla norma italiana (assente nella direttiva) del 17 comma 3, D. LGS. 70/2003, che afferma la responsabilità civile per chi, richiesto dall’autorità, non abbia prontamente impedito l’accesso oppure, avendo comunque avuto conoscenza dell’illiceità, non ha informato l’autorità stessa. In particolare il riferimento è al primo caso: la violazione di una inibitoria inftti può avvenire anche quando il provider sbagli nella valutazione e ritenga non rientrare nel concetto di equivalenza ciò che invece ex post si accerta rientrarvi. In tal caso infatti  si avrebbe una mancanza di blocco dell’accesso, pur se richiesto dall’autorità: quindi integrandosi la fattispecie posta dal 17 comma 3 punto

In tal modo dice la CG l’ingiunzione non contrasta col divieto di sorvegnlianza rierca generale (§ 47).

La Corte però e sorprendentemente non dedica alcuna riga -salvo errore ad una prima lettura- a specificare se il dictum sull’inbitoria di conteuti equivalenti valga solo verso il medeismo soggetto già ritenuto autore dell’illecito o anche verso terzi. Dico sorprendentemente perchè la distinzione era stata fatta in modo netto dal’AG. Nè lo si capisce dal concetto di equivalenza: questo contiene anche il profilo soggettivo e, se si, lo ritiene discriminante o no? Il che è probabilmente una conseguenza dell’aver sin dall’inizio impostato le questioni pregiudiziali senza dare attenzione a questo punto, come si è segnlato sopra.

L’impressione traibile dal ragionamento svolto, però, è che la Corte ritenga compatibile col diritto UE  l’inibitoria riferita a condotte equivalenti a prescindere da chi possa caricare i materiali illeciti :  cioè non solo se caricati dall’autore del caricamento già accertato illecito, ma da chiunque

Circa la possibilità di inibitorie a livello mondiale il giudice dice che la Direttiva 31 non osta alla stessa. Saggiamente però fa presente -anche se in maniera non chiarissima (più chiaro è il relativo passaggio dell’AG) che  va tenuta in considerazione la coerenza della normativa dell’UE con le norme internazionali: in particolare aggiungerei -sulla scia di quanto detto dall’avvocato generale- il rapporto con la sovranità che gli altri stati esercitano sui loro territori e popolazioni. Pretendere infatti di bloccare caricamenti, che possono avvenire da qualunque parte del mondo, potrebbe essere ritenuto incompatibile con le sovranità nazionali sugli altri territori e con le rispettive legislazioni,le quali possono essere diverse (§ 100). E’ il problema delle cross-borders injuntions e cioè della possibilità di effetti extraterritoriali di un provvedimento giudiziale (analogamente, direi, al caso di esecizio della sovranità tramite non  l’organo giudiziario ma tramite quello legislativo e cioè tramite  una norma di legge che pretendesse di applicarsi anche all’estero): non nuovo nel dibattito giuridico.

La struttura del ragionamemento sul punto è analoga a quella della recente sentenza nel caso Google c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), del 24.09.2019, C-507/17 sul c.d. delisting nazionale, europeo o mondiale (l’analogia è negata da Andrej Savin  nel suo  EU Internet Law & Policy Blog , The CJEU Facebook Judgment on Filtering with Global Effect: Clarifying Some Misunderstandings 4 ottobre 2019). In entrambi i casi la Corte dice che il delisting mondiale non è contrario a specifiche norme di diritto UE, ma non è nemmeno imposto. dalle stesse (anche qui assai più utili sono le  Conclusioni dell’AG  10.01.2019, che guarda caso è il medesimo)

Passiamo alle conclusioni dell’avvocato generale (poi: AG) 04.06.2019, un po’ più articolate.

Dopo aver chiarito che il provider è soggetto ad ingiunzioni anche se non è responsabile delle informazioni e che la disciplina delle ingiunzioni spetta e diritti nazionali (§§  32-33), affronta il divieto di obbligo generale in materia di sorveglianza.

Ricorda che questo va inteso come sorveglianza sulla totalità o quasi totalità dei dati di tutti gli utenti del suo servizio ti richiama con ciò le sentenze L’Oreal e Scarlett x-tended (§ 35 ).

Qui introduce un’osservazione sulla cui esattezza bisognerebbe ragionare. Dice che se uno Stato potesse imporre una sorveglianza generale, il provider perderebbe il suo carattere tecnico, automatico e passivo e cioè non sarebbe più neutro (§ 36). il punto è discutibile, dal momento che, se la sorveglianza avviene tramite sistemi di filtraggio automatico, la passività del’ISP rimane. Mi  pare tuttavia una questione poco importante, dal momento che il divieto di sorveglianza/ricerca generale è posto dalla legge.

Inoltre l’AG dice che, anche non concordando con ciò, un provider che esercitasse sorveglianza generale potrebbe  essere ritenuto responsabile di qualsiasi informazione illecita, senza rispettare quindi le lettere a e b nel paragrafo 1 articolo 14 punto (§ 37). L’affermazione appare poco lineare e poco pertinente. Da un lato egli sarebbe responsabile non tanto delle informazioni ilecite, quanto del divieto della violazione di questo divieto di sorveglianza, cosa diversa. Dall’altro e soprattutto, ha poco senso ipotizzare uno scenario fattuale di sorveglianza/ricerca generale  che cozzerebbe con lo safe harbour dell’art. 14: lo avrebbe se mancasse un divieto di dovere di sorveglianza/ricerca generale, il quale invece c’è ed è espresso.

Il punto importante è la conclusione di questo passaggio (§ 40), secondo cui dal 14 paragrafo 3 dell’articolo 15 un obbligo imposto da uno Stato nazionale al provider tramite in ingiunzione non può avere la conseguenza di renderlo non più neutro rispetto alla totalità o quasi totalità delle informazioni memorizzate.

L’affermazione non mi pare esattissima perché confonde il fatto col giudizio, che vanno invece tenuti ben distinti. Il fatto è che il dovere di vigilanza riguarda tutte o quasi le informazioni e di tutti gli utenti: il che è condivisibile. Costituisce invece un giudizio il “rendere il provider  non più neutro”. Prima viene il fatto da valutare e poi viene la valutazione del fatto .

Al paragrafo 41 ricorda che si può senz’altro inibire una violazione futura e che ciò non contrasta con  il divieto di sorveglianza generale (§ 41).

Su questo non ci sono dubbi: il dato normativo non è equivoco.

Ricorda poi ai paragrafi 43 e 44 la sentenza L’Oréal che ha legittimato le inibitorie di “nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi” (C. G. 12.07.2011,  C‑324/09, L’Oreal ed altri c. eBay, § 141.

Quindi un provider può essere costretto a rimuovere informazioni illecite non ancora diffuse, senza che la diffusione venga portata nuovamente a sua conoscenza tramite comunicazione ad hoc e in maniera separata rispetto alla domanda iniziale (AG § 44). il che sembra voler dire che non serve una nuova contestazione ed eventualmente un nuovo processo.

Deve trattarsi però di violazioni della stessa natura, dello stesso destinatario e nei confronti degli stessi diritti: § 45. Qui c’è forse una ripetizione poiché violazioni della stessa natura e nei confronti degli stessi diritti dicono forse la stessa cosa: una violazione del medesimo diritto costituirà spesso una violazione della stessa natura e così forse pure per il reciproco. Tuttavia dato il tasso di genericità dei concetti di “stessa natura” e “stessi diritti”, è inopportuno soffermarvisi, anche se nella pratica il profilo sarà assai importante.

In ogni caso l’AG ricorda e richiama le sue conclusioni nella causa McFadden C-484/14, § 132, in cui si dice che l’obbligo inibitorio “in casi specifici” (cons. 47 dir. 31) deve essere delimitato per l’oggetto e per la durata. Questi requisiti generali sono adattabili al caso specifico, prosegue l’AG, relativo ad un post su Facebook. dato che un host provider -quale FB- è in condizioni migliori per adottare misure di ricerca ed eliminazione informazioni illecite rispetto al fornitore di accesso (§  48).

Affronta poi (§ 49) il requisito della limitazione temporale, richiamando le sentenze L’Oréal, § 140, e Netlog, § 45 (dove però si legge <<implica una sorveglianza, nell’interesse di tali titolari, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto>>, mentre in L’Oreal l’ingiunzione era riferita solo ai marchi in causa). Dice che un obbligo di sorveglianza permanente è difficilmente conciliabile con il concetto di obbligo “applicabile a casi specifici” ai sensi del cons. 47 dir. 31.

L’affermazione non persuadegranchè , dal momento che l’inibitoria concernente un solo cliente, se non addirittura una singola opera o opere determinate, anche se illimitato nel tempo, non  può rientrare nel concetto di “sorveglianza/ricerca  generale”.

Potrebbe semmai confliggere con la necessità che le misure siano proporzionate e soggette a termini ragionevoli (art. 3 § 2 e § 1 della dir. 48/2004).

La sintesi è al § 50: <<Di conseguenza, il carattere mirato di un obbligo in materia di sorveglianza dovrebbe essere previsto prendendo in considerazione la durata di tale sorveglianza, nonché le precisazioni relative alla natura delle violazioni considerate, al loro autore e al loro oggetto. Tutti siffatti elementi sono interdipendenti e connessi gli uni agli altri. Essi devono essere pertanto valutati in maniera globale al fine di rispondere alla questione se un’ingiunzione rispetti o meno il divieto previsto all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31>> Rimarco il cenno al limite temporale della misura, poco trattato nei discorsi giuridici in tema: le inibitorie dovranno contenerlo  e sarà interessante vedere in concreto come verrà quantificato.

Ai §§  51-53 ripropone una sintesi del percorso svolto fino a quel momento.

Successivamente va al cuore del quesito sottoposto alla corte. Affronta il primo, il più semplice, cioè quello delle informazioni identiche dallo stesso utente o anche da altri utenti. Tenendo conto che si tratta di un’ordinanza cautelare [il che però appare irrilevante]  e che esistono strumenti informatici tali per cui l’attività del provider non consiste in un filtro attivo e non automatico, l’AG ammette la compatibilità col divieto di sorveglianza generale dell’inibitoria per violazioni identiche a carico e provenienti da qualunque utente (§§ 57 61). Sul punto  èstato quindi seguito dalla CG.

Poi affronta l’inibitoria su contenuti equivalenti. Ancora una volta, è questo il passaggio più importante e delicato

Ricorda che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale il concetto di informazione equivalente <<riguarda le informazioni che divergono a malapena dall’informazione iniziale o le situazioni in cui il messaggio resta, in sostanza, immutato. Intendo tali indicazioni nel senso che una riproduzione dell’informazione qualificata come illecita, la quale contenga un errore di battitura, nonché quella che presenti una sintassi o una punteggiatura diverse, costituisce un’«informazione equivalente»>> (§ 67)

Poi ricorda che le violazioni in materia di proprietà intellettuale sotto questo profilo sono diverse delle violazioni dell’onore (diffamazioni). Infatti è più frequente nelle violazioni del primo tipo che ci sia la ripetizione della condotta accertata illecita,  mentre questo è insolito per le diffamazioni. In questa ultime dunque il riferimento ad atti della stessa natura non può svolgere lo stesso ruolo che svolge in materia di violazione della proprietà intellettuale : §§ 69-70. Altro punto non secondario: trovare il nucleo del fatto lesivo in una violazione di autore sarebbe più semplice che in una di diffamzione.

Sembra puoi dire che il riferimento a informazioni “equivalenti” incide sulla ampiezza dell’obbligo di sorveglianza e dunque che -se opportunamente modulato- rispetta il divieto di sorveglianza generale. Un giudice quindi in via inibitoria può statuire sulla rimozione di informazioni equivalenti ma <<deve (…) rispettare il principio della certezza del diritto e garantire che gli effetti di tale ingiunzione siano chiari, precisi e prevedibili.Nel farlo, tale giudice deve ponderare i diritti fondamentali coinvolti e tenere conto del principio di proporzionalità.>> (§ 72) .  Il suggerimento è astrattamente giusto ma generico e non aiuta ad applicarlo in concreto.

Pertanto, alla luce di  questa considerazione, al provider può essere  ordinato di individuare informazioni equivalenti a quella illecita, se provenienti dallo stesso utente: §  73

L’avvocato generale nega invece la possibilità di inibire caricamenti o permanenza di informazioni illecite equivalenti a carico di utenti diversi (qui non seguito dalla CG la quale -salvo errore- non fa la distinzione tra stesso utente/diverso utente). Questo perché <<73. (…) richiederebbe la sorveglianza della totalità delle informazioni diffuse attraverso una piattaforma di rete sociale. Orbene, a differenza delle informazioni identiche a quella qualificata come illecita, le informazioni equivalenti a quest’ultima non possono essere individuate senza che un host provider ricorra a soluzioni sofisticate. Di conseguenza, non soltanto il ruolo di un prestatore che esercita una sorveglianza generale non sarebbe più neutro, nel senso che non sarebbe soltanto tecnico, automatico e passivo, ma tale prestatore, esercitando una forma di censura, diverrebbe un contributore attivo di tale piattaforma. 74.      Inoltre, un obbligo di individuare informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita provenienti da qualsiasi utente non assicurerebbe un giusto equilibrio fra la protezione della vita privata e dei diritti della personalità, quella della libertà d’impresa, nonché quella della libertà di espressione e di informazione. Da un lato, la ricerca e l’individuazione di siffatte informazioni richiederebbero soluzioni costose, le quali dovrebbero essere elaborate e introdotte da un host provider. Dall’altro, l’attuazione di siffatte soluzioni darebbe luogo ad una censura, con la conseguenza che la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata>>.

L’affermazione lascia un pò perplessi. Inibire contenuti equivalenti a quelli specificamente accertati illeciti non significa imporre un dovere di sorveglianza/ricerca generale, come era invece ad es. nel caso Sabam Netlog. E’ vero che nel caso qui sub iudice riguarda tutti gli utenti, ma solo circa i contenuti equivalenti a quelli accertati illeciti: quindi inibisce in modo molto specifico.

Secondo l’AG la ricerca delle informazioni equivalenti impone soluzioni sofisticate e quindi richiedenti investimenti finanziari.  Dal che seguirebbe che il suo ruolo non solo non sarebbe più neutro ma, esercitando una forma di censura, diventerebbe un contributore attivo della piattaforma.

Affermazione però poco condivisibile, poiché lo stesso avviene anche quando il controllo sulle informazioni equivalente riguarda un solo utente (quello autore del illecito o altro non conta). L’aumentare il numero delle persone sorvegliate, se il meccanismo è automatico, non rende il ruolo del provider attivo anziché passivo. Il filtraggio è automatico o per tutti o per nessuno: non può esserlo solo per uno o pochi e non per la genralità. Diverso sarebbe se avvenisse in via umana e manuale: allora sì farebbe la differenza il numero dei soggetti da sorvegliare. Così pure la necessità di adottare soluzioni tecnicamente sofisticate non ha nulla a che fare con la generalità della sorveglianza. questa concerne l’ambito oggetivo del controllo, non l’entità dei mezzi finanziari per realizzarlo. I mezzi finanziari per conseguire gli strumenti tecnici hanno a che fare con il livello di diligenza che è cosa diversa dal dato oggettivo della delimitazione dell’ambito da sottoporre a controllo.

Poi passa ad esaminare la possibilità di estendere l’inibitoria anche a livello mondiale. l’AG affronta quindi la questione della extraterritorialità del provvedimento di rimozione. La soluzione è negativa nel senso che -par di capire- è meglio che il giudice si autolimiti alla sfera dello Stato a cui appartiene, anche se astrattamente e formalmente la normative UE non vi osterebbe.

Ciò sulla base soprattutto dei seguenti argomenti, se ben capisco (ma il punto è complesso, richiedendosi un approfondimento internazionalprocessualistico): i) sarebbe di difficilissima attuazione pratica, se si segue l’insegnamento di C.G. 17.10.2017, C-194/16, Bolagsupplysningen OÜ-Ilsjan c. Svensk Handel AB, secondo cui la domanda di rimozione va posta al giudice competente a decidere sul risarcimento totale del danno (anzichè frazionato per Stato), il  quale giudicherebbe in base a una o più leggi applicabil (§§ 96): ed un giudice con competenza “totale” sarebbe difficile da trovare.

ii) Inoltre toccherebbe al soggetto leso dimostrare che l’informazione illecita secondo la legge applicabile delle norme di conflitto dello Stato europeo è tale pure secondo tutte le leggi potenzialmente applicabili (§97)? Onere improbo!

iii) Infine un ulteriore ostacolo consiste nel fatto che la tutela dei diritti fondamentali, antagonisti di quello azionato in giudizio può essere diversa nei vari Stati (§ 98-99): col rischio che in questi si rischierebbe di proibire l’accesso ad informazioni e quindi conculcare il diritto di informazione che è invece ammesso in base a quel medesimo Stato (§ 98/99).

In conclusione <<il giudice di uno Stato membro può, in teoria, statuire sulla rimozione di informazioni diffuse a mezzo Internet a livello mondiale. Tuttavia, a causa delle differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro [per inciso: distinzione superflua, dato che la tutela è prevista nelle leggi degli Stati] , e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un siffatto giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione. Di conseguenza, nel rispetto della cortesia internazionale, menzionata dal governo portoghese, tale giudice dovrebbe limitare, per quanto possibile, gli effetti extraterritoriali delle sue ingiunzioni in materia di pregiudizio alla vita privata e ai diritti della personalità (52). L’attuazione di un obbligo di rimozione non dovrebbe eccedere quanto necessario ad assicurare la protezione della persona lesa. Pertanto, invece di cancellare il contenuto, detto giudice potrebbe, se del caso, ordinare la disabilitazione dell’accesso a tali informazioni con l’ausilio del blocco geografico>> (§ 100).

Sull’ultima affermazione, mi  chiedo -ai fini della tutela del diritto all’informazione degli utenti- che differenza ci sia tra il dovere di rimuovere e il dovere di bloccare gli accessi: in entrambi infatti gli utenti interessati non possono accedere a quelle informazioni,.

Sulla responsabilità del provider per illecita diffusione di audiovisivi (il caso RTI c. Vimeo)

Il tribunale di Roma si è da poco pronunciato sulla vertenza RTI / Vimeo, affrontando in dettaglio le questioni tipiche delle liti sulla responsabilità dei provider (sentenza 639/2019 del 10.01.2019, RG 23732/2012). RTI è società del gruppo Mediaset,  concessionaria per l’esercizio di alcune emittenti televisive del gruppo nonché titolare esclusiva in proprio (come produttore) di diritti su alcuni programmi televisivi e di segni distintivi. RTI ha citato la società statunitense Vimeo perché venisse accertata la sua responsabilità tramite il portale Internet www.vimeo.com per la condivisione di contenuti audiovideo e per la diffusione di filmati in titolarità RTI (e chiedendo pure i consueti ordini di inibitoria e rimozione con fissazione di penale).

La piattaforma Vimeo opera come sito di condivisione video e consente ai suoi utenti di caricare, condividere e guardare varie categorie di video, dove è presente un forum dedicato al mondo dell’audiovisivo. E’ una rete sociale per la condivisione di video: il servizio offerto è assimilabile ad un servizio di video On Demand, dove i contenuti sono precisamente catalogati, indicizzati e messi in correlazione tra loro (p. 16).

Inoltre fornisce agli utenti un motore di ricerca interno alla stessa piattaforma di video sharing, che consente di ricercare i video semplicemente inserendo il titolo di interesse. Vimeo non ha contestato ciò, ma ha detto -eccezione insidiosa, su cui v. sotto la risposta del Tribunale- che l’indicizzazione dei contenuti avviene con procedura automatica gestita da software, che non permette una conoscenza effettiva dei contenuti caricati sul portale (p. 16).

il tribunale ha accolto la domanda di RTI con un provvedimento analitico e interessante. I punti più significativi sono i seguenti:

  1. Sulla giurisdizione  – Vimeo ha sollevato l’eccezione di carenza di giurisdizione (come di solito fanno i convenuti stranieri), ma il Tribunale l’ha respinta. Ha applicato l’articolo 5 della convenzione di Bruxelles 27 settembre 68, secondo cui c’è giurisdizione presso il giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Ha infatti interpretato quest’ultimo concetto, nel senso che deve darsi rilievo non all’attività di uploading, cioè al luogo di caricamento sui server di Vimeo, bensì <<all’area di mercato dove la danneggiata esercita la sua attività di produttrice e o di titolare di sfruttamento dei programmi>> (pag.  7 / 8).
  2. Sulla legittimazione attiva di RTI  – Anche se non contestata da Vimeo, sono però interessanti i passi sul punto offerti dal Tribunale d’ufficio. Su essi non mi soffermo, ma saranno da tenere in considerazione da parte di dovesse in futuro occuparsene.
  3. Sulla  responsabilità degli Internet Service Provider  ISP , v.si la definizione di Internet Service Provider (ISP) offerta a pagina 10;
  4. Sui principali provvedimenti europei in materia di responsabilità dei provider e sulla  consueta distinzione tra hosting attivo e hosting passivo – Dice il tribunale che ”in relazione al regime di esenzione , tema centrale è quello della individuazione dei criteri interpretativi in base ai quali valutare quando il servizio di hosting possa definirsi “passivo” [sottol. aggiunto] e quando invece il provider perde il carattere di neutralità è opera forme di intervento volte a sfruttare i contenuti dei singoli materiali caricati dagli utenti e memorizzati sui propri server”. In quest’ultimo caso il provider qualifica  la propria posizione come “attiva” e ne segue la non applicabilità dell’esenzione da responsabilità ex articolo 16 del decreto legislativo 70 (e ex art. 14 dir. UE 31/2000) .  Si dovrà allora valutare la sua condotta secondo le comuni regole di responsabilità civile ex articolo 2043 cc (p. 12). Secondo il tribunale, la Corte di Giustizia ha detto che non viene meno l’esonero per la presenza di “indici di attività meccanica e non manipolativa nel trattamento dei dati, mentre la responsabilità per servizi di hosting sorge ogni qualvolta c’è un attività di gestione, di qualsiasi natura, anche se limitata alla ottimizzazione o promozione delle informazioni di tali contenuti” richiamandone alcune note sentenze (p. 12/3). Cioè secondo il diritto UE , continua il Collegio romano, per “godere dell’esonero da responsabilità , è necessario che il provider sia un “prestatore intermediario” che si limiti ad una fornitura neutra del servizio mediante trattamento puramente tecnico, automatico e passivo dei dati forniti dai suoi clienti, senza svolgere un ruolo attivo atto a conferirgli conoscenza o un controllo dei medesimi dati, e quindi a condizione che non abbia dato un minimo contributo all’editing  del materiale memorizzato lesivo di diritti tutelati” (p. 12/13, richiamando  le pronunce UE nei casi Google c. Louis Vuitton e L’Oreal).
    1. Pur tuttavia -ricorda però il Tribunale- l’hosting attivo non può essere assoggettato ad un obbligo generalizzato di sorveglianza e controllo preventivo, come ricorda la Corte di Giustizia in alcune sentenze (Scarlet Extended e Sabam c. Netlog) (p. 13/14)
  5. Sull’orientamento dei giudici italiani  – Due sono gli orientamenti in Italia. Uno minoritario, per cui il punto di discrimine tra fornitore neutrale (“passivo”) e fornitore non neutrale (“attivo”) deve essere indidviduato  “nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati”  : quindi qualora  vengono attuate delle mere operazioni, volte alla migliore fruibilità della piattaforma e dei contenuti in essa versati, attraverso indicizzazioni o suggerimenti , le predette clausole di esenzione possono operare (almeno così intuisco,  essendo qui il testo coperto e non leggibile). Secondo invece l’altro orientamento, maggioritario e che il tribunale dichiara di seguire, il provider perde il carattere passivo quando i servizi offerti vanno oltre la predisposizione del solo processo tecnico ed egli “interviene nella organizzazione e selezione del materiale trasmesso, finendo per acquisire una diversa natura di prestatore di servizi -”quella di hosting attivo” – non completamente passivo e neutro rispetto alla organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti, dalle quali trae anche sostegno finanziario in ragione dello sfruttamento pubblicitario connesso alla presentazione organizzata di tali contenuti. (…) Non appare infatti condivisibile quella giurisprudenza che limita il ruolo attivo dell’hosting provider al solo caso in cui il gestore operi sul contenuto sostanziale del video caricato sulla piattaforma” (p. 14-15)
  6. Prima conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo – Tenuto conto delle caratteristiche del servizio offerto da Vimeo, “deve affermarsi che Vimeo non si è limitata ad attivare il processo tecnico che consente l’accesso alla piattaforma di comunciazione su cui sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi,. al solo fine di rendere più efficiente la trasmissione, ma ha svolto una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento di contenuti immessi in rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri, arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità, dotato di una sua precisa e specifica autonomia” (p. 17; anche qui problemi di leggibilità del testo, come già sopra)
  7. Sulla necessità o meno di conoscenza diretta del contenuto illecito – Altro punto interessante. Il tribunale, rigetta l’eccezione di Vimeo e dice che “non è necessaria una conoscenza personale diretta del contenuto illecito ma è sufficiente che i mezzi tecnologici utilizzati siano comunque idonei a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. (…) Pertanto anche se il prestatore di servizi si avvale di un software per indicizzare organizzare catalogare associare ad altri o alla pubblicità i video caricati dagli utenti, egli viene comunque a svolgere un ruolo attivo di ingerenza nei contenuti memorizzati, tale da permettergli di conoscere o controllare e di fornire un importante contributo all’editing del materiale memorizzato” (p. 18)
  8. Seconda conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo: non può essere ritenuto hosting provider passivo, ma piuttosto attivo. Ne segue che non può giovarsi delle esimente prevista dalla legislazione e risponde secondo le regole comuni ex articolo 2043. Ciò detto, bisogna però dimostrare che fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza dell’illecito  commesso dall’utente (p. 18)
  9. Sulla idoneità della diffida stragiudiziale e delle ulteriori segnalazioni inviate dal titolare a Vimeo –  Altro punto assai rilevante nella pratica è quello del tasso di analiticità della diffida nell’indicare le opere illecitamente riprodotte, perchè possa venir meno l’invocabilità dell’esimente – Sostanzialmente il dubbio interpretativo è riconducibile ad un’alternativa, ricorda il Tribunale:  se sia sufficiente indicare quantomeno i titoli dei programmi televisivi, su cui il titolare vanti diritti di sfruttamento; oppure se serva anche indicare gli indirizzi specifici compendiati in singole URL per ciascuna riproduzione illecita. Il Tribunale , precisato che non è certo sufficiente la generica indicazione di <<tutti i programmi di una certa emittente televisiva>>, segue l’opinione più restrittiva per il provider e più favorevole al titolare dei diritti:  stima cioè sufficiente che quest’ultimo indichi i titoli dei programmi televisivi, senza l’URL (p. 19-21).
  10. Sulla diligenza che ci si poteva aspettare da Vimeo, una volta informata delle riproduzioni illecite – Qui il tribunale si appoggia alla CTU secondo cui esistevano già all’epoca dei fatti delle tecniche per  controllare sia preventivamente (ex-ante), sia successivamente (ex post) i contenuti da pubblicare o già pubblicati e alle cui risultanze subordinare la stessa pubblicazione o permanenza on-line del contenuto audiovisivo considerato (c.d. watermarking e videofingerprinting: p. 22/4, ove esposizione della  ctu in proposito). Pertanto sarebbe stato ragionevole attendersi da Vimeo un comportamento diligente per sollecitare questa attività di verifica e controllo a seguito della segnalazione da parte di RTI. Invece Vimeo si è limitata a rimuovere i contenuti per le quali RTI ha individuato gli URL , senza ulteriori sforzi.
    1. Inoltre Vimeo non ha allegato nè provato quale pregiudizio avrebbe subito la propria attività di hosting provider qualora avesse adottato le tecnologie disponibili riferite dal CTU per la necessaria attività di verifica e controllo ex post. (p. 24) . In effetti quest’ultimo elemento avrebbe potuto contrastare la conclusione del giudice: una elevata onerosità di questi filtri, allegata e provata, avrebbe infatti forse portato ad un esito diverso circa le misure che per diligenza Vimeo avrebbe potuto e quindi dovuto adottare.
  11. In conclusione, c’è stata una cooperazione colposa mediante omissione nella violazione dei diritti di cui agli articoli 78 e 79 legge sul diritto d’autore, che porta al dovere di risarcire il danno patrimoniale aquiliano (non è stato chiesto il danno non patrimoniale, possibile anche per gli enti, secondo una recente tendenza).
  12. Sul risarcimento del danno patrimoniale – RTI ha portato documentazione contrattuale sulle licenze concordati con altre piattaforme  o emittenti televisive e su queste il tribunale si è appoggiato per la liquidazione del danno. Ha escluso la utilizzabilità di un contratto tra RTI e Rai , ma ha invece sorprendentemetne affermato di potere utilizzare gli importi concordati con altra emittente in sede transattiva di una precedente lite: ha dichiarato che “deve escludersi che i prezzi stabiliti a seguito di un accordo transattivo siano meno congrui rispetto a quelli che si formano in una libera contrattazione commerciale” (p. 30). La sorpresa sta nel fatto che in sede transattiva, visto che ciascuna parte cede qualcosa (art. 1965 cc: “reciproche concessioni”), è probabile che il titolare accetti un corrispettivo inferiore a quello che avrebbe accettato in una contrattazione ex ante .
  13. Sul parametro per determinare la royalty ipotetica – E’ stato individuato nel corrispettivo medio a minuto di durata dei video in contestazione per un tempo di permanenza di un anno, stimato in euro 563,00, moltiplicato per i 2.109 video abusivamente pubblicati. L’importo complessivo ha superato i 10 milioni di euro, poi equitativamente abbassati ad euro 8.500.000,00 (p. 31-33).
  14. il tribunale ha escluso invece sia la concorrenza sleale, per carenza del rapporto di concorrenza, sia la violazione di marchi registrati, non essendoci stato uso degli stessi (non essendosene appropriata), “non assumendo rilievo, quale uso del marchio,  la circostanza che i contenuti audiovisivi in contestazione riportassero i loghi dei canali di cui è titolare RTI” (p. 34). Anche quest’ultima affermazione è di un certo interesse.
  15. Ha accolto la domanda di inibitoria e di rimozione , facendole assistere da penali.