L’embedding di altrui post Instagram non costituisce comunicazione al pubblico

Secondo il Tribunale del northern district della california, 17.09.2021, Hunley e altri c. Instagram, caso 21-cv-03778-CRB, inserire nel proprio sito una fotografia latrui reperita su Instagram con lo strumento “embedding tool” non costituisce <display> e dunque non viola il diritto <<to display the copyrighted work publicly; >> (§ 106.5 del 17 US code).

Ciò sulla base di una interpretazione dei concetto di copy , di fixed e di display posta dalla decisione del 2007 Perfect 10 v. Amazon, secondo cui <<an “image is a work that is ‘fixed’ in a tangible medium of expression, for purposes of the Copyright Act, when embodied (i.e., stored) in a computer’s server (or hard disk, or other storage device).” Id. (internal quotation marks omitted). If a website publisher does not “store” an image or video in the relevant sense, the website publisher does not “communicate a copy” of the image or video and thus does not violate the copyright owner’s exclusive display right. Id.  This rule is known as the “server test.”>>.

Deicsione assai opinabile per un doppio passaggio logico di dubbia fondatezza:

i) che la legge sia interpretabile come dice Perfect 10 (ma qui -probabilmente- opera in prima battuta il vincolo del precedente, proprio della common law);

ii) che Perfect 10 sia interpetabile come dice il giudice californiano de quo

Infatti nessuna delle due fonti dice che lo storage del convenuto debba avvenire sui propri PC . Allora si può desumerne che per entrambi è ammssibile che la violazione avvenga con fissazione su PC di terzi , di cui il convenuto abbia per qualche motivo (lecito o illecito) il controllo . Come nel caso de quo, ove l’embedding fa rimanere il post fisicamente sui server di Instagram.

Comunicazione al pubblico in diritto di autore e ruolo delle piattaforme di condivisione dei file caricati dagli utenti

In giugno, giorno 22,  è finalmente stata emessa la sentenza della Corte di Giustizia CG nei due procedimenti C‑682/18 e C‑683/18, promossi da titolari ti diritti (Peterson e Elsevier) contro Google-Youtube e rispettivamente Cyando.

La due cause si assomigliano molto (sono state riunite), anche se c’è qualche differenza fattuale, soprattutto tecnica nel funzionamento delle due piattaforme.

Il quesito è duplice (ce ne è un terzo specifico al diritto tedesco sulle condizioni dell’inibitoria, di cui non mi occupo) :

i) la presenza e proposizione di file illeciti rende la piattaforma autrice di violazione della comunicazione al pubblico in diritto di autore (art. 3 dir. 29/2001)?

ii) la piattaforma può fruire del safe harbour ex art. 14/1 dir. commercio elettronico 2000/31?

Ebbene, sub i) : <<l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva sul diritto d’autore deve essere interpretato nel senso che il gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file, sulla quale utenti possono mettere illecitamente a disposizione del pubblico contenuti protetti, non effettua una «comunicazione al pubblico» di detti contenuti, ai sensi di tale disposizione, salvo che esso contribuisca, al di là della semplice messa a disposizione della piattaforma, a dare al pubblico accesso a siffatti contenuti in violazione del diritto d’autore. Ciò si verifica, in particolare, qualora tale gestore sia concretamente al corrente della messa a disposizione illecita di un contenuto protetto sulla sua piattaforma e si astenga dal rimuoverlo o dal bloccare immediatamente l’accesso ad esso, o nel caso in cui detto gestore, anche se sa o dovrebbe sapere che, in generale, contenuti protetti sono illecitamente messi a disposizione del pubblico tramite la sua piattaforma da utenti di quest’ultima, si astenga dal mettere in atto le opportune misure tecniche che ci si può attendere da un operatore normalmente diligente nella sua situazione per contrastare in modo credibile ed efficace violazioni del diritto d’autore su tale piattaforma, o ancora nel caso in cui esso partecipi alla selezione di contenuti protetti comunicati illecitamente al pubblico, fornisca sulla propria piattaforma strumenti specificamente destinati alla condivisione illecita di siffatti contenuti o promuova scientemente condivisioni del genere, il che può essere attestato dalla circostanza che il gestore abbia adottato un modello economico che incoraggia gli utenti della sua piattaforma a procedere illecitamente alla comunicazione al pubblico di contenuti protetti sulla medesima>>, § 102.

Sub ii): <<Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni seconda e terza sollevate in ciascuna delle due cause dichiarando che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sul commercio elettronico deve essere interpretato nel senso che l’attività del gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione, purché detto gestore non svolga un ruolo attivo idoneo a conferirgli una conoscenza o un controllo dei contenuti caricati sulla sua piattaforma .

L’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sul commercio elettronico deve essere interpretato nel senso che per essere escluso, in forza di tale disposizione, dal beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto da detto articolo 14, paragrafo 1, un siffatto gestore deve essere al corrente degli atti illeciti concreti dei suoi utenti relativi a contenuti protetti che sono stati caricati sulla sua piattaforma>>, §§ 117-118.

I risultati interpretativi sono grosso modo condivisibili , anche se il percorso logico non è sempre rigoroso (ad es. l’affermazione per cui il carattere lucrativo non è <priva di rilevanza> circa la questione sub i): invero o fa parte della fattispecie costitutiva o non ne fa parte, tertium non datur. Non può essere <non privo di rilevanza> ma poi messo da parte nel caso specifico, a meno che la legge così preveda. . Per non dire che questa <eventuale rilevanza> non viene chiarita, ma lasciata nel vago: tanto vale tacerla. La lucratività ha rilevanza <del tutto relativa> per l’AG, § 87).

Più lineare il percorso svolto dall’avvocato generale SAUGMANDSGAARD ØE (qui: AG) nella sue Conclusioni 16.07.2020.

I passaggi importanti sono molti e non possono essere qui tutti riferiti.

Ne ricordo due:

– l’elemento soggettivo va riferito agli <atti illeciti concreti> e cioè, a mio parere, ad ogni singola violazione, una alla volta;

– la distinzione tra materie di competenza europea (violazione primaria) e di competenza nazionale (violazione secondaria), evidenziata soprattutto dall’AG.

Riprodurre un video altrui tramite embedding costituisce comunicazione al pubblico

La South. Dist. Court di NY 30.07.21, Case 1:20-cv-10300-JSR, Nicklen c. SINCLAIR BROADCAST GROUP Inc., afferma che la riproduzione tramite il c.d. embedding di un video altrui costuisce comunicazione al pubblico : o meglio, public display secondo il 17 US code § 106 (secondo le definitions del § 101 <<To “display” a work means to show a copy of it, either directly or by means of a film, slide, television image, or any other device or process or, in the case of a motion picture or other audiovis­ual work, to show individual images nonsequentially>>).

Si trattava del notissimo video riproducente un orso polare tristemente magro ed emaciato che disperatamente e stancamente si trascina per i ghiacci artici in cerca di cibo.

<Embedding> è la tecnica dell’incorporamento nel proprio sito di un file che però fisicamente rimane nel server originario (l’utente non se ne rende conto)

Ebben per la Corte:  <<The Copyright Act’s text and history establish that embedding a video on a website “displays” that video, because to embed a video is to show the video or individual images of the video  nonsequentially by means of a device or process. Nicklen alleges that the Sinclair Defendants included in their web pages an HTML code that caused the Video to “appear[]” within the web page “no differently than other content within the Post,” al though “the actual Video . . was stored on Instagram’s server.” …. The embed code on the Sinclair Defendants’ webpages is simply an information “retrieval system” that permits the Video or an individual image of the Video to be seen. The Sinclair Defendants’ act of embedding therefore falls squarely within the display right>>,  p. 8-9.

La parte più interessante è il rigetto espresso  della c.d. <server rule>: <<Under that rule, a website publisher displays an image by “using a computer to fill a computer screen with a copy of the photographic image fixed in the computer’s memory.” Perfect 10, Inc. v. Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1160 (9th Cir. 2007). In contrast, when a website publisher embeds an image, HTML code “gives the address of the image to the user’s browser” and the browser “interacts with the [third-party] computer that stores the infringing image.” Id. Because the image remains on a third-party’s server and is not fixed in the memory of the infringer’s computer, therefore, under the “server rule,” embedding is not display.>>, p. 9.

Infatti la <server rule is contrary to the text and legislative history of the Copyright Act>, ivi: e i giudici spiegano perchè.

Inoltre  i convenuti alleganti la server rule <<suggest that a contrary rule would impose far-reaching and ruinous liability, supposedly grinding the internet to a halt>>.

Obiezione respinta:  <<these speculations seem farfetched, but are, in any case, just speculations. Moreover, the alternative provided by the server rule is no more palatable. Under the server rule, a photographer who promotes his work on Instagram or a filmmaker who posts her short film on You Tube surrenders control over how, when, and by whom their work is subsequently shown reducing the display right, effectively, to the limited right of first publication that the Copyright Act of 1976 rejects. The Sinclair Defendants argue that an author wishing to maintain control over how a work is shown could abstain from sharing the work on social media, pointing out that if Nicklen removed his work from Instagram, the Video would disappear from the Sinclair Defendants’ websites as well. But it cannot be that the Copyright Act grants authors an exclusive right to display their work  publicly only if that public is not online>>, p. 10-11

Viene -allo stato- respinta pure l’eccezione di fair use: profilo interessante dato che Sinclair è un colosso della media industry e quindi ente for profit. Viene riconosciuto che il primo fattore (The Purpose and Character of the Use) gioca a favore del convenuto , mentre altri due sono a favore del fotografo Niclen (porzione dell’uso , avendolo riprodotto per intero, e lato economico-concorrenziale) (v. sub II Fair use).

(notizia della sentenza dal blog di Eric Goldman).

la Corte di Giustizia si conferma circa la messa a disposizioni del pubblico nella diffusione peer to peer. Esamina inoltre la compatibilità della richiesta di informazioni con il GDPR

Corte Giustizia 17.06.2021, C-597/19, Microm c. Telenet, conferma la propria giurisprudenza in tema di comunicazione al pubblico e in particolare in tema di di quella modalità (oggi la più -l’unica- utilizzata) che è la messa a disposizione per il download.

Conferma in particolare l’orientamento in tema di reti peer to peer con la tenica Bit Torrent (v. la sentenza Ziggo The pirate Bay del 14.06.2017, C-610/95).

A nulla rileva che il file sia spezzettato in pacchetti, §§ 43 ss.

E’ riaffermata la conseueta fattispcie costitutiva della violazione, §§ 46 – 47.

Interessante è l’applicazione al caso sub iudice: <<Nel caso di specie, risulta che ogni utente della rete tra pari (peer-to-peer) di cui trattasi che non abbia disattivato la funzione di caricamento del software di condivisione client-BitTorrent carica su tale rete i segmenti dei file multimediali che ha precedentemente scaricato sul suo computer. Purché risulti – circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare – che gli utenti interessati di tale rete hanno acconsentito all’utilizzo di tale software dando il loro consenso all’applicazione di quest’ultimo dopo essere stati debitamente informati sulle sue caratteristiche, si deve ritenere che detti utenti agiscano con piena cognizione del loro comportamento e delle eventuali relative conseguenze. Una volta accertato, infatti, che essi hanno attivamente acconsentito all’utilizzo di un siffatto software, l’intenzionalità del loro comportamento non è in alcun modo inficiata dal fatto che il caricamento sia automaticamente generato da tale software.>>, § 49.

E poi : <<Per quanto riguarda le reti tra utenti (peer-to-peer), la Corte ha già dichiarato che la messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi ad opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una simile rete costituisce una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (sentenza del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 48).   53        Nel caso di specie, come in sostanza constatato dall’avvocato generale ai paragrafi 37 e 61 delle sue conclusioni, i computer dei suddetti utenti che condividono lo stesso file costituiscono la rete tra pari (peer-to-peer) vera e propria, denominata lo «swarm», nella quale essi svolgono lo stesso ruolo dei server nel funzionamento della Rete (World Wide Web)>>, §§ 52-53.

V. la precisazione , che segue la sentenza Renckhoff del 2018, per il caso in cui l’opera fosse presente senza restrizioni in internet: << In ogni caso, anche qualora si dovesse accertare che un’opera è stata previamente pubblicata su un sito Internet, senza restrizioni che impediscano il suo scaricamento e con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi, il fatto che, mediante una rete tra pari (peer-to-peer), utenti come quelli di cui trattasi nel procedimento principale abbiano scaricato segmenti del file contenente tale opera su un server privato e a ciò sia seguita una messa a disposizione mediante il caricamento di tali segmenti all’interno di questa medesima rete significa che tali utenti hanno svolto un ruolo decisivo nella messa a disposizione di detta opera a un pubblico che non era stato preso in considerazione dal titolare di diritti d’autore o di diritti connessi su quest’ultima quando ha autorizzato la comunicazione iniziale (v., per analogia, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff, C‑161/17, EU:C:2018:634, punti 46 e 47).  58      Consentire una siffatta messa a disposizione mediante il caricamento di un’opera, senza che il titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi su quest’ultima possa far valere i diritti previsti dall’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/29 non rispetterebbe il giusto equilibrio, di cui ai considerando 3 e 31 di tale direttiva, che deve essere mantenuto, nell’ambiente digitale, tra, da un lato, l’interesse dei titolari del diritto d’autore e dei diritti connessi alla protezione della loro proprietà intellettuale, garantita all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali (in prosieguo: la «Carta»), e, dall’altro, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utilizzatori dei materiali protetti, in particolare la tutela della loro libertà di espressione e d’informazione, garantita all’articolo 11 della Carta, nonché la tutela dell’interesse generale (v., in tal senso, sentenza del 9 marzo 2021, VG Bild-Kunst, C‑392/19, EU:C:2021:181, punto 54 e giurisprudenza ivi citata). Il mancato rispetto di tale equilibrio pregiudicherebbe, inoltre, l’obiettivo principale della direttiva 2001/29, che consiste, come risulta dai considerando 4, 9 e 10 della medesima, nella previsione di un elevato livello di protezione a favore dei titolari di diritti che consenta a questi ultimi di ottenere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro opere o di altri materiali protetti, in particolare in occasione di una messa a disposizione del pubblico>>.

Curiosa infine è la seconda questione pregiudiziale: << 60  Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2004/48 debba essere interpretata nel senso che un soggetto contrattualmente titolare di taluni diritti di proprietà intellettuale, che tuttavia non li sfrutta esso stesso, ma si limita a chiedere il risarcimento del danno ai presunti autori di violazioni, possa beneficiare delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II di tale direttiva.     61      Tale questione deve essere intesa come comprensiva di tre parti, vale a dire, in primo luogo, quella relativa alla legittimazione ad agire di un soggetto come la Mircom per chiedere l’applicazione delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al capo II della direttiva 2004/48; in secondo luogo, quella inerente alla questione di stabilire se un soggetto del genere può aver subito un pregiudizio, ai sensi dell’articolo 13 di tale direttiva e, in terzo luogo, quella concernente la ricevibilità della sua richiesta di informazioni, ai sensi dell’articolo 8 della direttiva in parola, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 2, della medesima>>.

La risposta è positiva, § 96.

Segue poi la trattazione di due questioni relative al bilanciamento tra tutela della proprietà intellettuale e tutela della riservatezza: il titolare aveva infatti chiesto al gestore di ottenere dati personali (numeri IP, nome e indirizzo) dei presunti contraffattori. Precisamente le questioni terza e quarta sono così riformulate: <<il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, lettera f), del regolamento 2016/679 debba essere interpretato nel senso che esso osta, da un lato, alla registrazione sistematica, da parte del titolare dei diritti di proprietà intellettuale, nonché da parte di un terzo per suo conto, di indirizzi IP di utenti di reti tra pari (peer-to-peer) le cui connessioni Internet sono state asseritamente utilizzate nelle attività di violazione e, dall’altro, alla comunicazione dei nomi e degli indirizzi postali di tali utenti a detto titolare oppure a un terzo al fine di consentirgli di proporre un ricorso per risarcimento dinanzi a un giudice civile per il danno asseritamente causato da tali utenti>>, § 101.

La risposta, come spesso, è generica , in quanto per lo più  basata su clausole generali: la disposizione cit. del GDPR non osta alla comuncazione di tali informazioni al titolare a condizione <<che le iniziative e le richieste in tal senso da parte di detto titolare o di un terzo siano [1] giustificate, [2] proporzionate e [3] non abusive e [4] abbiano il loro fondamento giuridico in una misura legislativa nazionale, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58 [dir. sulla privacy nelle comunicazioni elettroniche] , che limita la portata delle norme di cui agli articoli 5 e 6 di tale direttiva>>, § 132 (numeri tra parentesti quadra aggiunti).

Si noti il requisito sub 4, relativo alla necessità di esistenza di disposizione nazionale ad hoc.

Riproducibilità dell’opera tramite “framing” (prohibente domino) e comunicazione al pubblico

la Corte di Giustizia con sentenza 09.03.2021, C-392/19, VG Bild-Kunst contro Stiftung Preußischer Kulturbesitz, si pronuncia sulla legittimità della riproduzione tramite framing di opera messa on line dal titolare, ma che intenda sottoporla (o a farla sottoporre da parte del licenziatario) a misure di protezione. In particolare sul se ciò costituisca comunicazione al pubblico (c.a.p.).

Tuttavia la questione viene esaminata solo incidentalmente, essendo strumentale alla soluzione di una questione ulteiore: se sia lecito il rifiuto di concedere licenza al potenziale licenziatario che si rifiuti di adottare le misure anti-framing pretese dal titolare (una collecting society).

Avevo già ricordato le analitiche conclusioni dell’AG Szpunar con mio post 20.09.2020.

La CG lo segue (come spesso ormai succede, però, con motivazione assai meno ricca), ma solo fino ad un certo punto: e cioè solo nella impostazione generale. Diverge invece sulla conclusione relativa alla fattispecie sub iudice, il framing.

La fattispecie concreta, dunque, dovrebbe essere la seguente. La SPK, fondazione che gestisce la Deutsche Digitale Bibliothek, dedicata alla cultura e al sapere tramite la messa in rete delle istituzioni culturali e scientifiche tedesche (con link alle opere ivi presenti e anticipazione online delle relative miniature),  aveva chiesto alla collegting VG Bild Kunst (poi: VG) licenza di riprodurre opere di terzi, gestite da VG. Questa però pretende l’impegno di SPK di adottare misure tecnologiche contro il framing.

Il punto allora è se sia lecito pretendere tale impegno.

La risposta, dipenderebbe, secondo il BGH tedesco, dalla ravvisabilità o meno di comuncazione al pubblico nel dare libero accesso come framing ad  un’opera, quando il titolare (la collecting) ha applicato o ha chiesto di applicare misure di protezione contro il framing stesso (§§ 16-17)

Questione pregiudiziale sollevata: «Se l’incorporazione, mediante framing, di un’opera disponibile su un sito Internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto sul sito Internet di un terzo costituisca una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora ciò avvenga aggirando le misure di protezione contro il framing che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare», § 18.

La CG, ricordati  i soliti principi in tema di c.a.p. (§ 30 ss),  passa alla fattispecie concreta.

Dice che la riproduzione tramite framing, quando il titolare lo ha vietato con misure di protezione o vietandolo ai licenziatari, costituisce c.a.p., § 42-43: si tratta infatti di un nuovo atto di counicazione (pubblico nuovo).

Nega che ciò contrasti con la giurisprudenza sulla liceità del linking , § 44 (casi Svensson e Bestwater): casi che concernono un’opera già pubblicata ma lecitamente..

La CG precisa cosa siano le misure restrittiva adottabili, tali che, se violate , si realizzi una c.a.p.

Tali sono solamente le misure <efficaci> ex art. 6/1 e 3, dir. 29 del 2001, poichè una tutela più ampia sarebbe troppo penalizzante per i terzi: <<al fine di garantire la certezza del diritto e il corretto funzionamento di Internet, il titolare del diritto d’autore non dovrebbe essere autorizzato a limitare il suo consenso se non per mezzo di misure tecnologiche efficaci, ai sensi dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2001/29 (v., a quest’ultimo proposito, sentenza del 23 gennaio 2014, Nintendo e a., C‑355/12, EU:C:2014:25, punti 24, 25 e 27). Infatti, in mancanza di simili misure, potrebbe rivelarsi difficile, in particolare per i privati, accertare se il titolare dei diritti abbia voluto opporsi al framing delle sue opere. Una verifica del genere risulterebbe ancor più difficile quando tali opere sono state oggetto di sublicenze (v., per analogia, sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media, C‑160/15, EU:C:2016:644, punto 46).>>, § 46 (il <non> è un errore di traduzione: si confronti ad es. il testo inglese).

Del resto il pubblico, preso in considerazione dal titolare, è solo quello del sito web,  ove si è realizzata la prima messa on line: non  quello dell’intero orbe terracqueo digitale, § 47.

Tale posizione, visto che ribadisce la sentenza Renckhoff del 2018 (citata), al momento possiamo quelificarla come <insegnamento consolidato>.

La differenza dalle conclusioni dell’AG sta proprio sul framing.

L’AG aveva posto una distinzione fondamentale tra link cliccabili (§ 81 ss) e link automatici (§§ 92 ss): i primi non ampliano il pubblico originariamente considerato e dunque non vanno autorizzati, i secondi invece si (le ragioni di tale distinzione, § 114 ss, però, non riescono del tutto persuasive).

La CG invece non distingue: ogni riproduzione sul proprio sito del materiale, tratto da sito altrui  (meglio: con dettaglio tecnico tale da farlo apparire sul proprio sito) amplia il pubblico considerato dal titolare con la prima messa on line: Pertanto sottosta ad autorizzazione-

Produzione documentale in giudizio e comunicazione al pubblico: un interessante dubbio di diritto di autore

Avevo già segnalato con mio post 12.10.2020 le conclusioni 03.09.2020 dell’AG  in questa lite avanti la Corte di Giustizia (CG) .

La questione è se costituisca <comuncazione al pubblico> ex art. 3 dir. 2001/29 la produzione in giudizio (via email) di un documento riproducente opera dell’ingegno (fotografia, tra l’altro scaricata dal sito di controparte).

Ora è stata pronunciata la sentenza della CG, 28.10.2020, C-637/19,  BY c. CX.

La Corte, come già l’AG, nega che ricorra comunicazione al pubblico. O meglio, ricorre certamente un atto di comunicazione, ma non diretto <al pubblico>.

Per la CG infatti con tale ultimo concetto si vuole <rendere un’opera percepibile in modo adeguato dalla gente in generale, vale a dire senza limitazioni ad individui specifici appartenenti ad un gruppo privato (sentenze del 15 marzo 2012, SCF, C‑135/10, EU:C:2012:140, punto 85, e del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punto 42)>, § 27.  E nel caso specifico ricorre <una comunicazione …  rivolta ad un gruppo chiaramente definito e limitato di persone che esercitano le loro funzioni nell’interesse pubblico, in seno ad un organo giurisdizionale e non ad un numero indeterminato di destinatari potenziali>, § 28.

Pertanto, tale comunicazione è da ritenersi effettuata <non ad un gruppo di persone in generale, bensì a professionisti individuali e determinati. In tal contesto, si deve considerare che la trasmissione per via elettronica di un’opera protetta ad un organo giurisdizionale, come elemento di prova nell’ambito di un procedimento giudiziario tra privati, non può essere qualificata come «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (v., per analogia, sentenza del 19 novembre 2015, SBS Belgium, C‑325/14, EU:C:2015:764, punti 23 e 24)>, § 29.

A nulla osta -precisazione non secondaria- che in Svezia sia previsto l’accesso civico (cioè da parte del quisque del populo) ai documenti di causa. La soluzione non cambia poichè <tale accesso viene concesso non dall’utilizzatore che ha trasmesso l’opera all’organo giurisdizionale, ma da quest’ultima ai singoli che ne fanno domanda, in forza di un obbligo e secondo un procedimento previsti dal diritto nazionale, relativo all’accesso ai documenti pubblici, sulle cui disposizioni la direttiva 2001/29 non ha alcuna incidenza, come espressamente previsto dal suo articolo 9>, § 30.

La tutela d’autore infatti non è assoluta ma va contemperata con diritto confliggenti, come quello di difesa in giudizio (art. 47 Carta di Nizza: ad un ricorso effettivo), § 32.    Considerazione però non coordinata con le precedenti, le quali bastano da sole alla decisione della lite nel senso indicato. In altre parole, la mancanza del <pubblico> e la tutela del diritto di difesa sono due rationes distinte di decisione della lite.

Ancora su counterclaim ex articolo 512 F DMCA e su vicarious liability del provider

Nella vertenza tra Warner Records ed altri c. Charter Communications , risolve alcune questioni  la District Court del Colorado con provvedimento 5 novembre 2020,  Civil Action No. 19-cv-00874-RBJ-MEH.

Qui interessa solamente quella relativa al § 512 DMCA (del 17 US Code) che pone il Safe Harbor per le violazioni di diritto d’autore.

Si trattava di violazioni massicce -denunciate dalle maggiori aziende del settore musicale statunitense (e quindi pure mondiale)- tramite la modalità c.d. peer to peer , tollerate da Charter Communications (poi: Charter) , che aveva omesso di rimuovere i materiali denunciati come illeciti. Il fatto è ben descritto nella precedente decisione di aprile 2020 tra le stesse parti e con stesso giudice: US District Court of Colorado, giudice Brooke Jackson, 15 aprile 2020, Civil Action No. 19-cv-00874-RBJ-MEH , sub <Background>. Qui si legge pure che Charter è uno dei maggiori provider USA con più di 22 milioni di utenti e che la denuncia aveva identificato i singoli utenti tramite il numero IP usato.

Secondo la lettera (f) Misrepresentations del § 512 cit., chi chiede la rimozione di file calunniosamente può rispondere dei danni:  <<(f) Misrepresentations.—Any person who knowingly materially misrepresents under this section—

(1) that material or activity is infringing, or

(2) that material or activity was removed or disabled by mistake or misidentification,

shall be liable for any damages, including costs and attorneys’ fees, incurred by the alleged infringer, by any copyright owner or copyright owner’s authorized licensee, or by a service provider, who is injured by such misrepresentation, as the result of the service provider relying upon such misrepresentation in removing or disabling access to the material or activity claimed to be infringing, or in replacing the removed material or ceasing to disable access to it.>>

Charter aveva in via riconvenzionale fatto valere proprio questa norma sostenendo che ne ricorresse la fattispecie astratta. ciò perchè gli attori, dagli 11482 lavori asseritamente copiati secondo la denuncia iniziale, avevano poi chiesto agito solo per 11027 e cioè per 455 in meno. Se li hanno “abbandonati” , dice Charter,  vuol dire che sapevano che non che non erano stati violati, p. 3

La corte (giustamente, direi ) nega che ridurre di 455 il numero dei lavori, per cui si agisce in giudizio rispetto alla diffida stragiudiziale, di per sè costituisca knowingly materially misrepresentation-.

In particolare Charter non ha allegato <<facts plausibly showing that plaintiffs knowingly or materially misrepresented its infringement claims in the original complaint>>., p. 3

Inoltre l’aver “abbandonato” 455 opere (meno del 4% del totale di quelle azionate) non è material (cioè essenziale/consistente). La Corte aggiunge che come per il provider è necessario l’automatismo per gestire i claims di denuncia, così lo è per i titolari dei diritti nell’individuare le opere a fronte di centinaia di migliaia di infringements (p4: passaggio però non chiaro della Corte)

Infine, non si può dedurre una misrepresentation dal mero fatto di abbandonare l’azione in corte per le opere per le quali non si ravvisano titoli giuridici sufficienti (p. 4): in altre parole, par di capire, non c’è nulla di sleale in ciò (trattandosi anzi di condotta leale, vien da aggiungere)

Infine, Charter non ha allegato alcuna precisa voce di danno , pagina 4

Perciò la corte accoglie l’istanza di rigetto del counterclaim proposto da Charter.

Il cit. provvedimento del 15 aprile, confermando una precedente recommendation del giduice Hegarty, afferma la responsabilità vicaria in capo a Charter (si badi: responsabilità in positivo, cioè ascrizione della stessa, non esenzione da responsbilità , come per il safe harbour). Ricorrono nel caso infatti i due requisiti tradizionalmente richiesti:

i) direct financial benefit from the alleged infingement;  e

ii) possibilità giuridica e fattuale di controllare le attività illecite degli utenti.

La Corte discute ampiamente i due punti (soprattutto il primo: v. sub A, pp. 5-11 del provv. 15 aprile 2020).

Diritto di difesa versus diritto d’autore: interessante questione portata davanti al giudice europeo

Proviene dalla Svezia una fattispecie molto interessante (anche se di non frequente realizzabilità): si può riprodurre in giudizio  a fini difensivi un’opera dell’ingegno altrui?

In una lite tra due soggetti, titolari ciascuno di un sito web, uno dei due si difendeva in giudizio producendo un file reperito nel sito dell’avversario, file che conteneva una fotografia.

Controparte eccepiva l’illegittimità della produzione, contenente la riproduzione fotografica, fondandola non tanto sulla violazione della privacy (come spesso succede in tema di prove cosiddetti illecite; anche se qui la fotografia era stata pubblicamente esposta dall’autore nel proprio sito , sorgendo dunque  il solito dilemma del se detta esposizione tiene conto tutti gli internauti del mondo oppure solo dei frequentatori del sito), quanto piuttosto e sorprendentemente sulla violazione del diritto di autore sulla fotografia stessa

Sorge quindi il problema del se  la produzione in giudizio di un’opera protetto (o meglio di una sua riproduzione) costituisca comunicazione al pubblico.

C’è poi una particolarità nel caso specifico: nel sistema giudiziario svedese, una volta prodotto un documento in giudizio, chiunque può chiederne copia e cioè accedervi.

Si tratta del caso BY c. CX, C-637/19 per il quale sono state depositate il 3 settembre 2020 le conclusioni dell’avvocato generale Hogan (poi solo “AG”).

La risposta suggerita dall’AG è nel senso che tale produzione giudiziaria di (riproduzione della) opera protetta non costituisce comunicazione al pubblico: <sebbene la comunicazione di materiale protetto a terzi che svolgono funzioni amministrative o giudiziarie possa perfettamente superare «una certa soglia de minimis», dato il numero di persone potenzialmente coinvolte , a mio avviso essa non costituisce, in circostanze normali, una «comunicazione al pubblico» nel senso previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, proprio perché tali persone, pur non costituendo, di per sé, un gruppo privato, sono comunque vincolate dalla natura delle loro funzioni ufficiali. In particolare, esse non avrebbero il diritto di trattare il materiale protetto dal diritto d’autore come se fosse esente da tale protezione. Ad esempio, la comunicazione di tale materiale ad opera di una parte nel corso di un procedimento giudiziario ai funzionari giudiziari o ai titolari di un funzione giudiziaria, oltre a non possedere alcuna rilevanza economica autonoma, non consentirebbe ai destinatari di tale materiale di farne uso a loro piacimento. Del resto, in questo esempio, il materiale è comunicato a tali persone nell’ambito delle loro funzioni amministrative o, a seconda dei casi, giudiziarie e l’ulteriore riproduzione, comunicazione o distribuzione di tale materiale da parte loro è soggetta a certe restrizioni giuridiche ed etiche, espresse o implicite, ivi compresa la legge sul diritto d’autore, previste dal diritto nazionale>, § 42-43.

Aggiunge che <nonostante il numero potenzialmente elevato di funzionari giudiziari coinvolti, la comunicazione non sarebbe quindi diretta a un numero indeterminato di potenziali destinatari, come richiesto dalla Corte al punto 37 della sua sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764). La comunicazione sarebbe invece rivolta a un gruppo chiaramente definito e limitato, o chiuso, di persone, che esercitano le loro funzioni nell’interesse pubblico e che sono, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, vincolate da norme giuridiche ed etiche concernenti, tra l’altro, l’uso e la divulgazione delle informazioni e delle prove ricevute nel corso di un procedimento giudiziario>, § 44.

Ed ancora: <A mio avviso, la comunicazione di materiale protetto dal diritto d’autore a un giudice come prova nell’ambito di un procedimento giudiziario non pregiudica, in linea di principio, i diritti esclusivi del titolare del diritto d’autore su tale materiale, ad esempio, privandolo della possibilità di rivendicare un compenso adeguato per l’utilizzo della sua opera. La possibilità di presentare materiale protetto da diritto d’autore come prova in un procedimento civile serve, piuttosto, ad assicurare il diritto a un ricorso effettivo e il diritto a un giudice imparziale, come garantiti dall’articolo 47 della Carta. I diritti di difesa di una parte sarebbero gravemente compromessi se essa non potesse presentare prove a un giudice nel caso in cui un’altra parte di tale procedimento o un terzo invocassero la tutela del diritto d’autore in relazione a tali prove>,§ 45.

Le ragioni parebbero allora tre :

i) il fatto che i destinatari (giudici cancellieri avvocati in causa) non sarebbero legittimati a disporre dell’esemplare/copia prodotta;

ii) il fatto che i destinatari sono in numero determinato e non indeterminato.

iii) il fatto che uno deve pur difendersi: se la difesa giudiziale comporta la necessità (o anche solo l’opportunità, aggiungerei io) di produrre un documento sottoposto a diritto di autore, tale produzione deve essere per questo solo motivo lecita (anche perchè non  danneggia economicamente controparte).

Il reciproco rapporto tra queste tre ragioni, però, non è chiarito, dato che ciascuna di essere dovrebbe essere sufficiente. Perciò non è chiaro quale sia quella fondante il suggerimento dell’AG di rigettare le istanze del titolare del diritto di autore  .

Il tema è assai interessante a livello teorico (anche se , come detto, probabilmente di rara riscontrabilità). In particolare interessa la ragione sub 3 e cioè l’eccezione al diritto d’autore consistente nella necessità difensiva

Nella disciplina d’autore non c’è una disposizione che regoli espressamente questo conflitto di interessi.

C’è  si l’art. 5/3 lettera e) dir. 29/2001, che legittima l’uso <allorché si tratti di impieghi per fini di pubblica sicurezza o per assicurare il corretto svolgimento di un procedimento amministrativo, parlamentare o giudiziario>. Però la correttezza dello svolgimento processuale/procedurale è concetto altamente ambiguo, potendo essere altro dalla necessità difensisa (v. da noi l’art. 71 quinquies c.1 <I  titolari  di  diritti  che  abbiano  apposto   le   misure tecnologiche  di  cui  all’articolo  102-quater  sono   tenuti   alla rimozione delle stesse, per consentire l’utilizzo delle opere  o  dei materiali protetti, dietro richiesta dell’autorita’  competente,  per fini di sicurezza pubblica o per assicurare il  corretto  svolgimento di un procedimento amministrativo, parlamentare o giudiziario>, l. aut.).

Forse con buona interpretazione analogica anche altre disposizioni dell’art. 5/3 dir. 29 potrebbero soccorrere: come la lett. f) <quando si tratti di allocuzioni politiche o di estratti di conferenze aperte al pubblico o di opere simili o materiali protetti, nei limiti di quanto giustificato dallo scopo informativo e sempreché si indichi, salvo in caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell’autore;> oppure la lettera   h) <quando si utilizzino opere, quali opere di architettura o di scultura, realizzate per essere collocate stabilmente in luoghi pubblic> (la messa on line costituisce una stabile collocazione in luoghi che si vogliono aperti al pubblico).

Ci vorrebbe perà una disposizione che espressamente prevedesse l’uso a fini difensivi, trattandosi di diritto costituzionalmente protetto (art. 24 Cost.; artt .47 e 48 Carta dir. fondametnali UE).

Da noi c’è già una disposizione interessante, che dovrebbe bastare allo scopo : art. 67 l. aut. per cui <Opere o brani di opere possono essere  riprodotti  a  fini  di pubblica  sicurezza,  nelle  procedure  parlamentari,  giudiziarie  o amministrative, purche’ si indichino la fonte e,  ove  possibile,  il nome dell’autore>.

L’art. 67 anzi è probabilmente più utile di quella del GDPR, per cui il trattamento dati è lecito se <è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore> (art. 6/1 lett. f): magari si potrebbe in casi estremi invocare pure l’art. 6/1 lettera d): <il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica>).

Il nostro art. 67 è piu utile del GDPR perchè sembra dare tutela assoluta al diritto di difesa, mentre il GDPR lo bilancia col diritto dell’interssato (anche se nel caso nostro il diritto di difesa certamente prevale sul diritto patrimoniale di autore)

Successivamente l’AG si domanda se la risposta debba cambiare, quando si consideri la citata pubblica accessibilità dei documenti prodotti in giudizio, secondo l’ordinamento processuale svedese

La risposta è negativa, ma la ragione desta perplessità.

Infatti così dice l’AG al paragrafo 48: <A mio avviso, e come indicato sia dalla Commissione (21), sia dal governo svedese (22), la comunicazione di materiale protetto da diritto d’autore a un giudice ad opera di una parte non costituisce, in tali circostanze, una comunicazione al pubblico ad opera della parte, dato che, in ultima analisi, è il giudice stesso (o i funzionari giudiziari) a poter eventualmente concedere accesso al materiale ai sensi delle norme nazionali sulla libertà di informazione o sulla trasparenza>.  La perplessità sta nel fatto che,  se c’è un diritto di accesso, nulla possono i funzionari di cancelleria (per loro è atto dovuto): è sempre la parte processuale il motore della comunicazione pubblica.

Poi l’AG su questo secondo aspetto precisa che: < 52.    Inoltre, e forse, aspetto ancora più importante, il governo svedese ha dichiarato che, mentre l’articolo 26b, paragrafo 1, della legge sul diritto d’autore disciplina la divulgazione di documenti pubblici, esso non attribuisce il diritto di utilizzare tali documenti. Secondo tale governo, «chiunque abbia ricevuto una copia dell’opera ai sensi di tale disposizione non può quindi disporne in violazione della [legge sul diritto d’autore]. Ogni ulteriore utilizzo richiede l’autorizzazione dell’autore o deve essere basato su una delle eccezioni alla tutela del diritto d’autore previste dalla [legge sul diritto d’autore]».  53.      Sembrerebbe quindi che il materiale protetto dal diritto d’autore non diventi di pubblico dominio per effetto delle disposizioni relative alla libertà di informazione contenute nella legge sulla libertà di stampa semplicemente per il fatto di essere stato divulgato o esibito, o comunque, reso disponibile come prova nel corso di un procedimento giudiziario.  54.      In altri termini, la divulgazione di tale materiale protetto dal diritto d’autore ai sensi delle norme sulla trasparenza non produce l’effetto sostanziale di privare tale materiale del suo status di materiale tutelato dal diritto d’autore e renderlo, quindi, di pubblico dominio.  55.      È quindi chiaro, con riserva, naturalmente, di verifica, in ultima istanza, da parte del giudice nazionale, che il diritto svedese non prevede né consente che la tutela del diritto d’autore venga meno per il mero fatto che una delle parti abbia esibito tale materiale nel corso di un procedimento civile e che un terzo possa successivamente ottenere accesso a tale materiale in virtù della legge svedese sulla libertà di informazione.>>

Anche qui, ragioni plurime, il cui reciproco rapporto logico non è chiarito: – o la comunicazione non è imputabile alla parte ma alla Cancelleria; – oppure non c’è nemmeno comuncazione, perchè il diritto di autore permane e non viene meno  anche in caso di accessibililità pubblica ai documenti.

Questa seconda ragione, poi,  è irrilevante, dato che, da un lato, la comunicazione proverrebbe non dal titolare del diritto ma da un terzo e, dall’altro, che anche quella prodotta dal titolare non esaurirebbe il diritto (art. 3/3 dir 29).

Stiamo a vedere cosa dirà la Corte.

Nuova questione interessante sulla comunicazione al pubblico in diritto d’autore: le conclusioni dell’avvocato generale

Il bravo avvocato generale Szpunar (di seguito: AG) ha depositato il 10.09.2020 le conclusioni nella causa C39 2/19, VG BildKunst contro Stiftung Preußischer Kulturbesitz.

Una collecting society chiedeva , per l’inserimento di opere del proprio catalogo in un database artistico gestito da una Fondazione, che questa si impegnasse ad adottare misure tecnologiche contro il framing da parte di terzi delle immagini in miniatura delle opere così rese accessibili, p. 25.

Il titolare del database non lo ritenne accettabile e chiese in via di accertamento giudiziale che la collecting fosse obbligata a dare licenza anche senza tale clausola.

La questione di rinvio proposta dalla Cassazione tedesca è la seguente: <Se l’incorporazione, mediante framing, di un’opera disponibile su un sito Internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto sul sito Internet di un terzo costituisca una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora ciò avvenga aggirando le misure di protezione contro il framing che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare>, p. 29.

I temi toccati dall’AG sono tra i più importanti del diritto d’autore contemporaneo, anche perchè intercettanti profili teorici.

L’AG ricorda tutta la giurisprudenza sul controverso tema della comunicazione al pubblico in internet , comprese le questioni relative alla liceità del linking.

Dà anche qualche notazione tecnica sui concetti di deep Linking, embedding, inline Linking, framing etc., pp. 8 ss

Ricorda ai paragrafi 35 seguenti la giurisprudenza sui link cioè sui collegamenti ipertestuali : se l’opera è stata messa on-line lecitamente, il link non costituisce violazione del diritto. Costituisce sì atto di comunicazione e comunicazione ad un pubblico, ma ad un pubblico “non nuovo”, dal momento che l’iniziale pubblicazione su internet è da intendersi rivolta non solo al pubblico, che frequenta quel sito, ma a tutti gli internauti, paragrafi 35-39

Analisi confermata anche per il framing dalla ordinanza Bestwater nel 2014.

L’AG conferma a sua volta che il collegamento ipertestuale costituisce comunicazione al pubblico, in quanto dà accesso diretto all’opera, paragrafo 49/51.

L’affermazione, pur consolidata in giurisprudenza UE, è però discutibile, perché il link semplicemente indica la localizzazione della pagina web di destinazione: si limita ad indicare l’indirizzo (come succede se il link non è attivo e bisogna ridigitare la stringa nel campo URL del browser). Il fatto che sia attivo non cambia qualificazione giuridica dell’attività di chi pone il link.

Facilmente l’intento delle istituzioni giudiziarie europee è quello di attrarre tale casistica entro l’orbita del diritto armonizzato UE: dal quale invece probabilmente fuoriuscirebbe se si trattasse (come parrebbe semmai più esatto)  di concorso nell’illecito altrui. Ma il tema è complesso (tocca nientemmeno che i rapporti tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali: si v. ad es. la potenzialmente distruttiva -dell’Unione-  sentenza 05 maggio 2020 della Corte Costituzionale tedeca sul Public Sector Purchase Programme (PSPP) della BCE di cui hanno parlato i media di tutta Europa e non solo) : si potrebbe infatti replicare (dando ragione alla Corte UE e all’AG) che in tale modo l’armonizzazione europea del copyright rischierebbe una forte compromissione.

L’AG conferma pure l’elemento soggettivo nella comunicazione al pubblico, ma riconosce che contrasta con la tradizione dei diritti su beni immateriali , p. 52-54: questi infatti normalmente hanno protezione, a prescindere dallo stato soggettivo (dolo, colpa)  di coloro che vi interferiscono.

L’AG contesta pure il concetto del pubblico nuovo e in particolare quello per cui il pubblico, avuto di mira da da chi pubblica, è costituito da tutti i possibili internauti, pp. 55 / 57.

Propone infatti un’interpretazione evolutiva , p. 59 con un § significativo, perché indica qual è l’ambito armonizzato di competenza dell’Unione Europea: <La Corte, pur operando nell’ambito dell’apparato terminologico classico del diritto d’autore, definendo gli atti soggetti al diritto esclusivo dell’autore e distinguendoli da quelli non soggetti ad esso, non fa un’opera di teoria del diritto d’autore. Chiamata a interpretare il diritto dell’Unione, nella fattispecie la direttiva 2001/29, certamente in modo astratto, quindi applicabile erga omnes, ma, comunque, sulla base di una controversia concreta sottopostale da un giudice nazionale, la Corte deve fornire una risposta che consenta a tale giudice di accertare la responsabilità di una parte per violazione del diritto d’autore. Essa deve quindi accertare le condizioni di tale responsabilità, il che va ben oltre la semplice definizione dei contorni dell’atto rientrante nel monopolio dell’autore. Un approccio più restrittivo rischierebbe di compromettere l’effetto utile dell’armonizzazione realizzata dalla direttiva 2001/29, lasciando gli elementi decisivi di tale responsabilità alla valutazione necessariamente eterogenea dei giudici nazionali>.

Data la sua importanza per i passaggi che seguono, avrebbe dovuto essere sviluppato in modo più chiaro.

Su questa base giustifica la teoria dell’inclusione nella comunuicazione al pubblico del peer to peer (sentenza Stichting Brein contro Ziggo BV e XS4All Internet BV, c.d. The Pirate bay) e della vendita di lettori multimediali con link preinstallati (sentenza Stichting Brein contro Jack Frederik Wullems),  § 60, e dell’elemento soggettivo, paragrafo 62

Il punto di maggior evidenza della nuova teoria proposta dall’AG è che, in adesione alla sentenza Renkhoff, <<si deve pertanto ritenere, come ha fatto la Corte nella sentenza Renckhoff , che il pubblico che è stato preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore al momento della messa a disposizione di un’opera su un sito Internet sia costituito dal pubblico che consulta detto sito. Siffatta definizione del pubblico preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore ben riflette, a mio avviso, la realtà di Internet. Infatti, sebbene un sito Internet liberamente accessibile possa essere, in teoria, visitato da qualsiasi utente di Internet, in concreto, il numero di utenti potenziali che possono accedervi è certamente più o meno elevato, ma è approssimativamente determinato. Il titolare dei diritti d’autore, autorizzando la messa a disposizione della sua opera, prende in considerazione l’ampiezza di tale cerchia di utenti potenziali. Ciò è importante, in particolare, quando tale messa a disposizione viene effettuata in base a una licenza, in quanto il numero potenziale di presunti visitatori può costituire un fattore rilevante nella determinazione del prezzo della licenza.>, paragrafo 73.

L’AG potrebbe avere qualche ragione: realisticamente colui, che carica opere protette in un determinato sito, ne liberalizza l’accesso a tutti gli internauti del mondo?

In sintesi <la giurisprudenza della Corte relativa ai collegamenti ipertestuali, o più in generale alla comunicazione di opere al pubblico su Internet, deve, a mio avviso, essere intesa nel senso che, nell’autorizzare la messa a disposizione del pubblico della sua opera su una pagina Internet, in modo liberamente accessibile, il titolare dei diritti d’autore prende in considerazione tutto il pubblico che può accedere a tale pagina Internet, anche mediante collegamenti ipertestuali. Pertanto, tali link, pur costituendo atti di comunicazione, in quanto danno accesso diretto all’opera, sono in linea di principio coperti dall’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore rilasciata al momento della messa a disposizione iniziale e non richiedono un’ulteriore autorizzazione> p. 75

Queste le premesse generali.

Va poi al nocciolo della questione e cioè a quella del se sia lecito o no linkare tramite framing al sito di riferimento, paragrafi 76 seguenti

Qui fa una distinzione molto importante a livello pratico, tra collegamenti cliccabili e collegamenti automatici.

Per i collegamenti cliccabili -p. 81 ss.-  sostiene che non ci sia un ampliamento di pubblico, ma sia sempre quello del sito originario, cioè di quello puntato dai link,  paragrafi 87/88 e 91: per cui non serve ulteriore consenso.

Diversa la risposta per i collegamenti automatici , p. 93 ss. Qui non può dirsi che il pubblico, che acceda al sito originario tramite questo collegamento automatico, sia stato preso in considerazione da chi ha pubblicato sul sito originario, paragrafo 95-98.. Ne segue che serve specifico e nuovo consenso del titolare.

Ai paragrafi 99/105 con tre argomenti replica a chi rigettasse l’invocabiità del precedente Renckhoff per l’esistenza di una differenza tra i due casi : differenza consistente nel fatto che in Renckhoff si trattava di riproduzione, sulla quale il titolare del diritto nulla poteva (perdeva il controllo) , mentre invece nel caso del framing -essendo una riproduzione, che dipende da quella originaria, il titolare del diritto mantiene il controllo.

Ai paragrafi 114 seguenti titolati <<L’equilibrio tre diversi interessi in gioco>>, replica ad altra possibile obezione, secondo cui la distinzione tra collegamenti cliccabili e collegamenti automatici non ha giustificazione sufficiente.

Ed in effetti è proprio questa un’altra obiezione: ai fini dell’individuazione del pubblico nuovo nel caso di collegamento instaurato da terzi, è assai difficile sostenere che il relativo pubblico sia stato preso in considerazione se il link è clicccabile e che invece non lo sia stato se è automatico.

infine (paragrafi 121 seguenti) esamina l’ultima questione qui ricordata  relativa alle misure di protezione. Si chiede cioè se eludere il congegno tecnico, che impedidce il framing, costituisca violazione delle misure di protezione. La risposta è negativa, visto che si tratta solo di una diversa modalità di arrivo al sito originario e non di un allargamento o restrizione del pubblico che vi ha accesso (avrebbe infatti avuto accesso in ogni caso) (spt. §§ 128-129)

“Comunicazione al pubblico” in diritto d’autore e noleggio di veicoli equipaggiati con apparecchi radio

La Corte di Giustizia (d’ora in poi: CG) con una sentenza invero un po’ sbrigativa (molto più dettagliate le conclusioni 15.01.2020 dell’AG Szpunar) decide la questione pregiudiziale, relativa alla qualificabilità come <comunicazione al pubblico> del noleggio di autoveicoli equipaggiati con apparecchi radio. Si tratta della sentenza 2 aprile 2020 C-753/18, Stim e Sami contro Fleetmanager Sweden AB e Nordisk Biluthyrning AB.

Le collecting societies svedesi avevano agito contro due compagnie di autonoleggio per il recupero di diritti non pagati, relativi alla violazione del diritto d’autore: vioolazione che sarebbe consistita nel fatto che offrivano veicoli con autoradio capaci di captare il segnale, ciò che costituirebbe <comunicazione al pubblico>.

Le norme pertinenti sono l’articolo 3 della direttiva c.d. infosoc 2001/29 e relativo il considerando 27 nonchè la Direttiva 2006/115 articolo 8/2.

La questione pregiudiziale sollevata dalla corte suprema svedese è la seguente <<1) Se il noleggio di autoveicoli equipaggiati con serie con impianti       radio implichi che il noleggiatore dei veicoli medesimi costituisca un utilizzatore che proceda ad una “comunicazione al pubblico” ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 ovvero, rispettivamente, ad una “comunicazione al pubblico ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, della direttiva 2006/115. 2)      In qual misura rilevino le dimensioni dell’attività di autonoleggio nonché la durata dei singoli noleggi>>

La Corte ricorda ciò che è comunque di senso comune e cioè che il concetto di comunicazione al pubblico nelle due norme è sostanzialmente uguale, § 28

La Corte ricorda poi che per aversi comunicazione al pubblico la giurisprudenza consolidata alcuni requisiti tra cui <<il ruolo imprescindibile dell’utente e il carattere intenzionale del suo intervento. Questi realizza, infatti, un atto di comunicazione quando interviene, con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento, per consentire ai propri clienti l’accesso ad un’opera protetta, in particolare quando, in mancanza di tale intervento, i clienti medesimi non potrebbero, in via di principio, fruire dell’opera diffusa.[v., segnatamente, sentenze del 15 marzo 2012, SCF, C‑135/10, EU:C:2012:140, punto 82 e giurisprudenza citata; del 15 marzo 2012, Phonographic Performance (Ireland), C‑162/10, EU:C:2012:141, punto 31, nonché del 14 giugno 2017, Stichting Brein, C‑610/15, EU:C:2017:456, punto 26 e giurisprudenza citata].>>, § 32

Tuttavia sia il considerando 27 della direttiva infosoc, che l’articolo 8 del Trattato sul Diritto d’autore del Ompi dicono che la mera fornitura di attrezzature fisiche, che permettono di effettuare una comunicazione, non costituisce atto di comunicazione al pubblico, paragrafo 33

Questo, dice la CG, è proprio ciò che succede nella fornitura di un impianto radio integrato in un veicolo dato a noleggio: <<34 … la fornitura d’un impianto radio integrato in un autoveicolo di noleggio, che consenta di captare, senza alcun intervento aggiuntivo da parte della società di noleggio, la radiodiffusione terrestre accessibile nelle zone in cui il veicolo si trova, come parimenti rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 32 delle proprie conclusioni. 35      Una fornitura, del genere indicata al punto precedente, si distingue dagli atti di comunicazione con cui prestatori di servizi trasmettano deliberatamente opere protette alla propria clientela, distribuendo volutamente un segnale a mezzo di ricevitori installati nei loro locali (sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 47 e 54 nonché la giurisprudenza citata).>>

Poi viene il punto più complicato a livello concettuale.

La CG precisa che <<una fornitura, del genere indicata al punto precedente, si distingue dagli atti di comunicazione con cui prestatori di servizi trasmettano deliberatamente opere protette alla propria clientela, distribuendo volutamente un segnale a mezzo di ricevitori installati nei loro locali (sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training, C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 47 e 54 nonché la giurisprudenza citata)>>, § 35.

Pertanto <<mettendo a disposizione del pubblico autoveicoli equipaggiati con impianti radio, le società di noleggio di autoveicoli non compiono un «atto di comunicazione» al pubblico di opere protette>>, § 36.

Questo dicevo è il punto nodale.

Secondo la corte e l’avvocato generale (Conclusioni §§ 38-46) bisogna distinguere tra la mera posa di infrastrutture fisiche, che non costituisce comunicazione al pubblico, e l’erogazione del segnale, che invece la costituisce.

Questa distinzione era stata anticipata nella nota sentenza C-306/5 SGAE c. Rafael Hoteles del 7 dicembre 2006, secondo cui << ** La mera fornitura di attrezzature fisiche, come quella di apparecchi televisivi installati nelle camere di un albergo, non costituisce in quanto tale una comunicazione al pubblico ai sensi della direttiva 2001/29, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione. Per contro, la distribuzione di un segnale, che consenta la comunicazione di opere mediante apparecchi siffatti da parte di un albergo ai clienti alloggiati nelle sue camere, indipendentemente dalla tecnica di trasmissione del segnale utilizzata, costituisce un atto di comunicazione al pubblico ai sensi dell’art. 3, n. 1, di tale direttiva.     ** Infatti, come chiarisce la guida alla Convenzione di Berna, per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, l’autore, autorizzando la radiodiffusione della sua opera, prende in considerazione solo gli utilizzatori diretti, ossia i detentori di apparecchi di ricezione i quali, individualmente o nella loro sfera privata o familiare, captano le trasmissioni. Una volta che questa ricezione avviene per intrattenere un pubblico più ampio, mediante un atto indipendente col quale l’opera trasmessa viene comunicata ad un nuovo pubblico, tale ricezione pubblica dà adito al diritto esclusivo dell’autore di autorizzarla. Orbene, la clientela di un albergo costituisce un tale pubblico nuovo, in quanto la distribuzione dell’opera radiodiffusa a tale clientela mediante apparecchi televisivi non costituisce un semplice mezzo tecnico per garantire o migliorare la ricezione della trasmissione originaria nella sua zona di copertura.  ** Per contro, l’albergo è l’organismo che interviene, con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento, per dare ai suoi clienti accesso all’opera protetta. Il carattere privato delle camere di tale albergo non osta a che il segnale costituisca un atto di comunicazione al pubblico>> (massime ufficiali).

Questa teoria lascia perplessi.

Distinguere tra la posa dell’infrastruttura e l’erogazione del segnale ha poco senso, se -come pare- presuppone che , per non aversi <comunicazione al pubblico>, bisogna che ci sia solo la mera infrastruttura posata senza i cavi di collegamento o senza collegamento con i ponti radio: “erogare il segnale”, pare di capire,  significherebbe proprio questo. Tuttavia per un albergo -come pure per un impresa che voglia noleggiare auto dotate di autoradio- installare l’apparecchiatura senza la possibilità di ricevere il segnale è una insensatezza. L’apparecchiatura ha senso solo per ricevere il segnale e cioè solo se collegata alla rete:  e ciò che serve allo scopo non può che essere realizzato dall’albergo o dalle imprese di autonoleggio (o meglio ancora dal produttore automobilistico).

Chi comunica il segnale è piuttosto chi lo fa sentire all’esterno della propria sfera, attivando con il pulsante di accensione l’apparecchiatura esistente: non chi si limita a predisporre l’apparecchiatura stessa. Tanto si desume dal sostantivo <<comunicazione>>.

Sotto questo profilo non c’è differenza tra radio-tv, fornite nelle stanze d’albergo, e radio-tv, fornite nell’autoveicolo.

Quindi invocare la sentenza CG Reha Training del 31.05.2016, C-117/15, non è pertinente: in quel caso il centro riabilitativo Reha Training non solo aveva predisposto l’impianto di distribuzione del segnale, ma provvedeva lui stesso a diffonderlo al proprio interno a favore dei clienti tramite altoparlanti.

Nel caso SGAE e nel caso qui esaminato, invece, il segnale viene attivato dal singolo utente, nella sua stanza o all’interno dei veicolo. Dunque non può essere il propreitario dell’ingrastrattura a realizzare la comunicazione al pubblico,  ricorra o meno l’astratta possibilità di un  collegametno radio con l’esterno