Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 378 → art. 2476, art . 2486 c.c.)

L’articolo 378 rubricato <<Responsabilità  degli amministratori>> modifica l’art. 2476 sulla società a responsabilità limitata e l’art. 2486 sui doveri degli amministratori  in presenza di una causa di scioglimento nelle soc. di capitali.

L’art. 2476  estende alle s.r.l. l’azione di responsabilità dei creditori sociali, prevista per le società per azioni dall’art. 2394.  L’estensione non avviene tramite rinvio, ma riproponendone il contenuto in un nuovo sesto comma. La norma non è particolarmente innovativa, dal momento che la maggioranza di dottrina e giurisprudenza già si era espressa in tale senso. Però è utile perché toglie eventuali dubbi, fonti di contenzioso.

Ben più rilevante è l’innovazione dell’art. 2486.

Secondo il nuovo terzo comma di tale disposizione, quando è accertata la responsabilità degli amministratori ai sensi del medesimo articolo (meglio sarebbe stato dire: “quando è accertata la violazione dei loro doveri”: si può parlare di responsabilità solo quando un danno è accertato, il che costituisce un passaggio logicamente successivo),  il danno si presume pari alla differenza tra i patrimoni netti alla data di cessazione dalla carica/dell’apertura della procedura concorsuale, da una parte, e alla data di verificazione della causa di scioglimento, dall’altra.

Vanno tuttavia detratti i costi sostenuti o da sostenere “secondo un criterio di normalità” dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Ciò perchè sono costi, che sarebbero stati sostenuti anche con una pronta apertura della liquidazione: pertanto non possono essere considerati danno addebitabile all’amministratore (sarà da approfondire la portata della precisazione temporale: “fino al compimento della liquidazione”).

Probabilmente ci saranno anche altri criteri, in base ai quali rettificare in riduzione la differenza dei netti patrimoniali addebitabile agli amministratrori: ad es. la diminuzione di valore dei cespiti, che si sarebbe comunque verificata per il fatto in sè dell’apertura della liquidazione. In generale, andranno dedotte tutte le poste passive non addebitabili a negligenza (o dolo) degli amministratori (v. art. 1223 cc: “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”) : cioè quelle che si sarebbero comunque manifestate.

Questa la regola di legge: è però data la possibilità di provare un diverso ammontare del danno. Il relativo onere incombe sugli amministratori.

Ancor più importante è la seconda parte  di questo nuovo terzo comma dell’articolo 2486. Qui si dice che, aperta una procedura concorsuale (quindi: solo in presenza di questa), se mancano le scritture contabili o comunque se -per irregolarità nelle stesse o per qualunque altra ragione- non siano determinabili i netti patrimoniali [basta che la indeterminabilità ne colpisca uno solo, direi], il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

Cioè in caso di non ricostruibilità della contabilità, la legge impone quel criterio che, seppur diffuso in passato, era ormai recessivo e in via di abbandono tra quelli adoperati dalle corti: e la ragione stava nel fatto che non rispetta le norme generali di determinazione e liquidazione del danno, enucleabili dal cit. art. 1223 c.c.

Tale criterio, essendo scollegato dalla prova di specifici inadempimenti (e delle relative conseguenze dannose), non ha struttura risarcitorio/compensativa. Dato però che non ha nemmeno struttura restitutoria nè di arricchimento ingiusto, assume una veste punitiva. La sua previsione esplicita, però, almeno ad una prima lettura, offre la copertura  di legge chiesta dall’articolo 25 Costituzione (o almeno dall’art. 23 Cost).

Resta un duplice dubbio, visto che si applica solo in presenza di procedure concorsuali:  i) cosa si intende per procedure concorsuali: il dubbio concerne soprattutto gli accordi di ristrtturazione ex art. 182 bis l.f., che per recente giurisprudenza (Cass. 21/06/2018, n. 16347, sub § 5.1, e altre Cass. ivi ricordate) sono “procedura concorsuale”, anche se molta dottrina ne dubita per più motivi, ad es. non esistendo il dovere di rispettare la par condicio creditorum (nemmeno nel nuovo art. 61 cod. crisi impr. insolv., che pure permette talora di estendere l’efficacia ai creditori non aderenti); ii) se è è giustificato che tale regola punitiva sia applicabile solo entro tale ambito applicativo, anzichè pure in questioni di responsabilità sorgenti al di fuori di una procedura concorsuale (salvo arrivarci per via analogica o per principio generale: operazione ermeneutica tuttavia implausibile, stante l’art. 14 prel.)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 377 → art. 2257, art . 2380 bis, art. 2409 novies e art. 2475 c.c.)

L’articolo 377 “Assetti organizzativi societari” del Codice della crisi (ora pubblicato nel suppl. ord. n. 6/L  della G. U. n. 38 del 14.02.2019) introduce nei vari tipi societari la regola introdotta per l’impresa in generale dall’articolo 2086 co. 2, inserendo un richiamo nelle rispettive sedi.

Nell’art. 2086, come già visto in precedente post, è stato inserito un duplice dovere: i) di istituire un adeguato assetto organizzativo/amministrativo/contabile, anche in funzione della tempestiva rilevazione della crisi di impresa e della perdita di continuità aziendale; ii) di attivarsi senza indugio per adottare e attuare gli strumenti ad hoc previsti dalla legge.

Oltre a fare ciò, l’articolo 377 estende a società di persone e a  s.r.l. la regola, per cui la gestione spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per attuare l’oggetto sociale, già prevista per le s.p.a. (art. 2380 bis co. 1-art. 2409 novies co.1). Era però difficile dubitare di tale estendibilità già prima della novella.

Con la duplice precisazione che segue,  a proposito delle s.r.l. (art. 2475), legata al fatto che i poteri gestori in tale tipo sociale possono essere affidati (in tutto o solo in parte: la dottrina è divisa) ai soci in quanto tali :

i) il dovere di rispetto dell’art. 2086 graverà su chiunque godrà dei relativi poteri gestori: cioè anche sui soci, qualora fossero a loro affidati;

ii) la regola seguente (spettanza della gestione ai soli amministratori e loro dovere di fare il necessario per attuare l’oggetto sociale) può essere interpetata in duplice modo, in relazione all’uso del termine “amministratori”: 1° o si riferisce solo al caso di gestione attribuita non a soci ma ad amministratori (soci o terzi è irrilevante): ma bisognerebbe allora -per coerenza sistematica- capire come stanno le cose nell’opposto caso di gestione affidata ai soci in quanto tali; 2°  oppure il termine “amministratori” va inteso in senso ampio, non tecnico, e cioè come sinonimo di “titolari del potere gestorio” : il che non è però possibile, dato che la nuova disposizione distingue nettamente tra gestione ed amministratori. Per cui pare preferibile la prima interpetazione; e dunque ci si dovrà interrogare sulla possibilità di estendere la regola al caso di gestione affidata ai soci (in tutto o solo in parte: in tale ultimo caso, forse, con qualche difficoltà di coordinamento tra atti di competenza dei soci ed atti di competenze degli amministratori).

Infine, viene disposta l’applicabilità dell’intero art. 2381 anche alle s.r.l. (“in quanto compatibile”), aggiungendo un comma in coda all’art. 2475. Stante la complessità dell’art. 2381 (pur depurato della regola sugli assetti adeguati che vien inserita autonomamente nell’art. 2475 co.1), questa estensione andrà prudentemente vagliata

Le norme, il cui dettato è inciso dalla riforma, sono dunque: – l’art. 2257, per la società semplice e quindi -a cascata, in base ai noti rinvii- pure per la società in nome collettivo e quella in accomandita semplice; – l’art. 2380 bis co. 1, per la s.p.a. a sistema tradizionale (e a cascata per il c.d.a. del sistema monistico, stante il rinvio ad esso nell’art. 2409 noviesdecies); – art. 2409 novies, per il consiglio di gestione delle s.p.a. in sistema dualistico; – art. 2475, per le s.r.l.

La formulazione della novella insomma non è perspicua, come la dottrina ha già rilevato (v.  R. Guidotti, La governance delle società nel Codice della Crisi di Impresa, 9 marzo 2019, www.ilcaso.it)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 376 → art. 2119 c.c.)

L’art. 376 del codice della crisi e dell’insolvenza (c.c.i.) , rubricato “Crisi dell’impresa e rapporti di lavoro” modifica l’art. 2119 c.c.  sul recesso per giusta causa dai rapporti di lavoro.

La modifica riguarda solo il co. 2. il cui testo attuale recita: “Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda“.

Per la liquidazione coatta amministrativa rimane la regola,  per cui la procedura concorsuale non costituisce giusta causa di recesso (rectius: di risoluzione) dell’impresa (termine che sostituisce il precedente “azienda”). Per la procedura ordinaria (liquidazione giudiziale), invece,  si rinvia all’apposita disciplina posta dal c.c.i. (art. 189).

L’art. 189 c.c.i. pone una regola generale simile a quella desumibile dalla normativa attuale: il fallimento non cessa ipso iure il rapporto di lavoro , ma lo sospende sino alla decisione del curatore di subentrarvi oppure di recedere.

Aggiunge però un termine di quattro mesi decorso il quale, se il curatore non ha comunicato il subentro, i rapporti si intendono risolti di diritto, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale (art. 189 co.3).

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 375 → art. 2086 c.c.)

L’art. 375 (“Assetti organizzativi dell’impresa”) del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza, nel testo approvato in via definitiva dal Governo il 10.01.2019 (leggibile in diversi siti, ad es. in  www.fallimentiesocieta.it) , modifica l’art. 2086 c.c.

Modifica la rubrica che passa da “Direzione e gerarchia nella impresa” a  “Gestione dell’impresa“.

La modifica al testo consiste nell’aggiunta di un secondo comma (il primo resta inalterato), secondo cui:  L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Quindi il dovere è duplice: 1) istituire assetti adeguati i) sia in generale, ii) sia -in particolare- in funzione della tempestiva rilevabilità della crisi e della perdita di continuità aziendale (quest’ultimo sub ii) costituisce la vera novità, dovendosi desumere quello generale già dalla norma prevista per le s.p.a., art. 2381 cc: non essendoci motivo per riservare a queste sole il dovere di retto comportamento gestionale); 2) di conseguenza, al presentarsi della crisi, attivarsi senza indugio per adottare e attuare gli strumenti offerti dalla legge per tale evenienza .

Il nuovo dovere organizzativo riguarda dunque solo l’imprenditore collettivo o societario, non quello individuale.

Negli enti il dovere graverà allora sugli amministratori. La sanzione per l’eventuale violazione sarà quella consueta per l’inadempimento di costoro.

Entrata in vigore – Mentre secondo la regola generale l’entrata in vigore avverrà diciotto mesi dopo la pubblicazione in G.U., alcune disposizioni (tra cui proprio l’art. 375) entreranno in vigore trenta giorni dopo la predetta pubblicazione (art. 389). Pertanto, alla luce della pubblicazione del d. lgs. 12.01.2019 n. 14 nel Suppl. Ord. della G.U. n. 38 del 14.02.2019 , entreranno in vigore il  16 marzo 2019, .

Può un video costituire plagio di un dipinto?

Questo è il quesito posto ai giudici del Nevada (USA) dall’artista russo-americano Vladimir Kush.

Secondo costui, la cantante Ariana Grande nel suo video God is a Woman riprodurrebbe il proprio dipinto The Candle.

La risposta alla domanda in oggetto, astrattamente, è positiva: non c’è motivo per pensare l’opposto, visto che la tutela copre pure le trasformazioni dell’opera in altra forma artistica  (art. 4 e 18 l. aut.) .

Bisognerà poi vedere se il plagio ricorra o meno nel caso concreto.

Ne riferisce il sito   www.theartnewspaper.com , ove sono riprodotti sia il dipinto che un fotogramma del video.

Segnalazione da Eleonora Rosati in IP Law at University of Southampton – School of Law

Postergazione ex art. 2467 c.c. dei finanziamenti del socio anche per le s.p.a. chiuse? Pare di si.

La postergazione dei finanziamenti dei soci alla società, prevista per le srl dall’art. 2467 cc, è applicabile anche alle s.p.a. (se assomiglianti alle prime e dunque se s.p.a. chiuse): così pensa Cass. 20.06.2018 n. 16291

La Corte infatti si era già  posta in “tale ultimo solco interpretativo, previa sottolineatura che la ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci, dettato dall’art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata, consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società “chiuse”, determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, ponendo i capitali a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento anzichè in quella del conferimento; e tale ratio – si è detto – è compatibile anche con altre forme societarie, come desumibile proprio dall’art. 2497-quinquies c.c., visto che siffatta norma ne estende l’applicabilità ai finanziamenti effettuati in favore di qualsiasi società da parte di chi vi eserciti attività di direzione e coordinamento. Sicchè in tal guisa è stato affermato il principio per cui l’art. 2467 è estensibile alle società azionarie a valle di una valutazione in concreto, dovendosi segnatamente valutare se la società, per modeste dimensioni o per assetto dei rapporti sociali (compagine familiare o, comunque, ristretta), sia idonea di volta in volta a giustificare l’applicazione della disposizione citata (v. Cass. n. 14056-15)“.

La Corte dunque conferma l’orientamento: “Simile approdo deve essere ulteriormente confermato, poichè è vero che la regola di postergazione tende a sanzionare la cosiddetta “sottocapitalizzazione nominale” delle società, nella quale l’impresa che necessita di mezzi propri viene invece finanziata dai soci attraverso l’erogazione di strumenti di debito, con conseguente artificiosa precostituzione – in situazione di squilibrio patrimoniale della società – di posizioni omogenee a quella dei creditori.

Essendo l’art. 2467 c.c. espressamente richiamato dall’art. 2497-quinquies rispetto ai rapporti di finanziamento infragruppo tra società controllanti e controllate, qualunque ne sia il tipo, non se ne può sostenere un’esegesi legata al mero specifico ambito del tipo della s.r.l., come in pratica assume il tribunale di Udine.

Alla medesima conclusione porta d’altronde anche l’art. 182-quater, comma 3, L. Fall., che, quanto alla prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione in deroga alle citate norme, non procede per distinzioni a seconda del tipo societario.

Nè il principio appare contraddetto dall’ulteriore arresto col quale questa sezione ha escluso la postergazione a proposito dei crediti dei soci finanziatori di società cooperative, alle quali in generale si applica la disciplina delle s.p.a. (Cass. n. 10509-16). Simile conclusione è difatti ancorata essenzialmente all’ambito applicativo della L. 27 febbraio 1985, n. 49, art. 17 (cd. legge Marcora), come novellata dalla L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 12 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), che ha previsto l’erogazione di denaro pubblico in favore delle cooperative, e che, in quanto norma eccezionale, assume prevalenza, ai sensi dell’art. 14 prel., sulla previsione dettata dall’art. 2467 c.c.. Non può farsi a meno di sottolineare d’altronde che l’eccezionalità delle previsioni dettate per le società cooperative trova oggi definitiva conferma nella L. 27 dicembre 2017, n. 205 (recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella quale è specificato (art. 1, comma 239) che l’art. 2467 c.c. non si applica alle somme versate dai soci alle cooperative a titolo di prestito sociale.”

Interessante è il ragionamento sulla eadem ratio: “6 – Vale la pena di puntualizzare in qual senso l’interpretazione estensiva (o anche analogica) della disposizione postuli la verifica di somiglianza della condizione concreta afferente. Tale condizione, che certo può esser dedotta su base presuntiva in ragione delle ridotte dimensioni della società, si sostanzia in ultima analisi nell’essere i soci finanziatori della s.p.a. in posizione concreta simile a quelle dei soci finanziatori della s.r.l.

L’identità di posizione può pacificamente affermarsi tutte le volte che l’organizzazione della società finanziata consenta al socio di ottenere informazioni paragonabili a quelle di cui potrebbe disporre il socio di una s.r.l. ai sensi dell’art. 2476 cod. civ.; e dunque di informazioni idonee a far apprezzare l’esistenza (art. 2467, comma 2) dell’eccessivo squilibrio dell’indebitamento della società rispetto al patrimonio netto ovvero la situazione finanziaria tale da rendere ragionevole il ricorso al conferimento, in ragione delle quali è posta, per i finanziamenti dei soci, la regola di postergazione.

In questa prospettiva la condizione del socio che sia anche amministratore della società finanziata può essere considerata alla stregua di elemento fondante una presunzione assoluta di conoscenza della situazione finanziaria appena detta“.

Nel caso specifico si trattava di sottoscrizione di prestito obbligazionario non convertibile per € 200.000,00, garantito da ipoteca, da parte di chi era socio di maggioranza  e presidente del consiglio di amministrazione.

Su risarcimento del danno e reversione degli utili del contraffattore in caso di violazione brevettuale

Trib. MI n. 7717/2018 del 10/07/2018, RG n. 31690/2014 (in www.giurisprudenzadelleimprese.it) costituisce un interessante caso di quantificazione del danno da violazione brevettuale (relativa a cartucce contenenti gas per camping).  Tre regole sono desumibili dalla sentenza; riporto i passi relativi, necessari per capire il ragionamento condotto dal giudice.

1) il risarcimento del danno da lucro cessante non è parametrabile al prezzo di vendita della cartuccia nel suo complesso, dato che il trovato da proteggere non era stato comunicato al pubblico e quindi non ha potuto costituirne motivo di acquisto:  << Ritiene tuttavia il Collegio che la particolarità della concreta fattispecie impedisca di ritenere quale parametro di riferimento per la determinazione del danno risarcibile (lucro cessante) l’importo relativo alla vendita della cartuccia nel suo complesso. Invero deve precisarsi che l’oggetto dell’invenzione di cui al brevetto n° …….. consiste nel solo dispositivo di sicurezza reso necessario dall’intervento normativo introdotto nel 2014 e che la presenza di tale dispositivo – obbligatoria per tutte le cartucce poste in vendita dall’aprile 2014 – non era in alcun modo resa palese all’acquirente finale del prodotto, il quale dunque procedeva all’acquisto sulla base di criteri di scelta che non potevano comprendere un eventuale maggiore o minore affidamento del (nuovo) sistema di sicurezza. Sul mercato erano presenti sistemi di sicurezza alternativi implementati dagli imprenditori concorrenti su cartucce del tutto simili. Deve dunque escludersi che le pretese risarcitorie delle titolari del brevetto possano comprendere a titolo di lucro cessante la vendita della cartuccia contestata nel suo insieme, posto che nessuna concreta influenza sull’acquisto appare possibile attribuire alla presenza all’interno di essa del dispositivo in contraffazione>> (§ 5).

2) qui possiamo scindere in due l’insegnamento: i) parametrare la riduzione delle vendite della vittima alle vendite del prodotto contraffatto non è possibile, se non ci sono elementi che permettano di giustificare tale correlazione; ii) ne segue che, non potendo applicare il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind. , il giudice calcolerà il danno secondo la regola della reversione degli utili ex comma 3 del medesimo articolo (oggetto di specifica domanda):  << Le analisi svolte in sede di CTU contabile non hanno fornito elementi rilevanti al fine di poter procedere alla determinazione del danno risarcibile sulla base dei criteri indicati dal comma 1 dell’art. 125 c.p.i. In effetti non vi sono elementi sufficienti – anche richiamando le osservazioni innanzi svolte circa le determinazione dei consumatori all’acquisto del prodotto originale o di quello contenente il dispositivo in contraffazione – per verificare se vi sia stata un’effettiva relazione tra le vendite delle cartucce in contraffazione da parte di P. s.r.l. ed una eventuale riduzione delle vendite dei prodotti originali da parte delle titolari del brevetto. Lo stesso CTU contabile ha affermato l’inesistenza di elementi documentali atti a confermare che le vendite conseguite da P. s.r.l. siano state o meno in tutto o in parte sottratte a P.A.I. s.r.l. (unica parte convenuta che ha partecipato alla CTU contabile). Deve dunque il Collegio provvedere alla determinazione del danno risarcibile in relazione alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 125 c.p.i. e cioè procedendo alla reversione degli utili conseguiti dal contraffattore in favore del titolare del brevetto, consentendo così a quest’ultimo di recuperare tutte le utilità derivanti dallo sfruttamento della privativa indebitamente sottratte e fatte indebitamente proprie dal contraffattore. Entrambe le parti convenute e attrici in via riconvenzionale, cointestatarie del brevetto n° ……, hanno espressamente formulato la domanda di retroversione degli utili nelle loro rispettive comparse di costituzione nel presente giudizio e dunque – contrariamente all’infondata contestazione sul punto svolta da P. s.r.l. – il lucro cessante connesso all’illecito contraffattorio deve essere accertato sulla base di tale criterio.>> (§ 6).

3) gli utili da trasferire alla vittima sono determinati col criterio aziendalistico del margine operativo lordo (MOL), oggetto di stima da parte del CTU. Centrale, allora, è capire quali sono i costi da dedurre:  <<La determinazione del margine operativo lordo (MOL) realizzato da P.  s.r.l. sul numero di cartucce complessivamente commercializzate come innanzi riportato (n. 7.078.678 cartucce) ma limitatamente al dispositivo ritenuto in contraffazione è stata eseguita dal CTU contabile ed è stata valutata in complessivi € 818.449,00. Come è noto l’individuazione del margine di contribuzione al lordo delle imposte prevede di sottrarre dai ricavi incrementali esclusivamente i costi variabili incrementali specificamente sostenuti per produrre e commercializzare i beni contraffatti.  Da tale calcolo risultano pertanto estranei sia i costi fissi di produzione che i costi variabili che non abbiano natura incrementale e che l’impresa avrebbe sostenuto anche in assenza della condotta illecita. Il CTU contabile, in coerenza con tali criteri, ha escluso dalla determinazione del costo incrementale i costi commerciali, amministrativi e generali nonché i costi di produzione per mano d’opera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. I costi ritenuti effettivamente rilevanti sono stati elencati dal CTU contabile nella tabella n. 3, alla quale ha aggiunto in via equitativa un’ulteriore 5% per i costi di trasporto. In particolare ha escluso da tale calcolo anche i servizi interni di litografia, imbutitura e riempimento, taglio, trasporto interno, collaudo ed assemblaggio in quanto riconducibili in percentuale a costi fissi di manodopera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. P. s.r.l. ha contestato la metodologia seguita dal CTU contabile sia in relazione all’esclusione dai costi variabili della mano d’opera – che a suo dire avrebbe dovuto essere invece inclusa per il 100% del suo valore – che per l’esclusione dei costi relativi al taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno, in quanto necessari per la produzione delle cartucce. Tali rilievi non possono essere accolti. Quanto al costo del lavoro impiegato per la produzione (del dispositivo in contraffazione) è corretto identificare nei costi fissi dell’azienda lo stipendio e gli oneri finanziari del lavoratori fissi, dunque tra quei costi che l’azienda avrebbe comunque subito anche in assenza dell’attività contraffattoria accertata. Nel caso di specie le richieste di inclusione di tali costi – sia in termini percentuali rispetto all’utilizzazione che sarebbe stata fatta sulle specifiche linee di produzione che addirittura per il 100% di esso – evidentemente confermano la natura di costo non incrementale della mano d’opera anche nella stessa prospettazione di P. s.r.l. In effetti nessun elemento di effettivo rilievo probatorio consente di poter attribuire – anche solo in parte – il costo della mano d’opera come esclusivamente dedicato alla produzione del dispositivo in questione, tenuto altresì conto – come osservato dal CTU contabile (pag. 54 relazione) – che la produzione in questione rivestiva un ruolo del tutto minoritario nelle complessive vendite della società e che pertanto anche in assenza di attività contraffattoria il personale sarebbe stato utilizzato in altre attività produttive dell’impresa. Nemmeno le ulteriori contestazioni relative all’esclusione di costi particolari (taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno) possono essere ritenute rilevanti, tenuto conto del fatto che essi risultano comunque riconducibili a servizi interni dell’azienda utilizzati per tutte le sue attività produttive. Le valutazioni del CTU in ordine alla misura del MOL conseguito da P.  s.r.l. devono dunque essere confermate>>.

OSSERVAZIONI  – Genera qualche perplessità il passaggio sub 2, dove il giudice osserva che, non potendo liquidare il danno secondo il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind., lo fa  secondo il criterio della reversione degli utili, prevista dal successivo comma 3. La perplessità sta nel fatto che il comma 3 non offre un diverso criterio per risarcire il danno, bensì un  rimedio diverso: non risarcitorio ma semmai restitutorio, che nulla ha a che fare con la finalità del compensare i pregiudizi altrui. Anzi ha natura punitiva, più che restitutoria, dato che: i) in generale, oltre a fattori generanti l’utile propri della vittima (e “usurpati”), ce ne saranno anche altri propri esclusivamente del contraffattore (per i quali dunque non si può parlare di “restituzione”); ii) a maggior ragione nel caso de quo, in cui il giudice esclude che la contraffazione abbia rivestito una qualsiasi  rilevanza nella motivazione d’acquisto dei clienti del contraffattore.

Sul punto v. il mio saggio “Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale (con un cenno al diritto di autore) per Contratto e impresa , 2010, 1149 segg., presente in www.academia.edu .

Sulla responsabilità del provider per illecita diffusione di audiovisivi (il caso RTI c. Vimeo)

Il tribunale di Roma si è da poco pronunciato sulla vertenza RTI / Vimeo, affrontando in dettaglio le questioni tipiche delle liti sulla responsabilità dei provider (sentenza 639/2019 del 10.01.2019, RG 23732/2012). RTI è società del gruppo Mediaset,  concessionaria per l’esercizio di alcune emittenti televisive del gruppo nonché titolare esclusiva in proprio (come produttore) di diritti su alcuni programmi televisivi e di segni distintivi. RTI ha citato la società statunitense Vimeo perché venisse accertata la sua responsabilità tramite il portale Internet www.vimeo.com per la condivisione di contenuti audiovideo e per la diffusione di filmati in titolarità RTI (e chiedendo pure i consueti ordini di inibitoria e rimozione con fissazione di penale).

La piattaforma Vimeo opera come sito di condivisione video e consente ai suoi utenti di caricare, condividere e guardare varie categorie di video, dove è presente un forum dedicato al mondo dell’audiovisivo. E’ una rete sociale per la condivisione di video: il servizio offerto è assimilabile ad un servizio di video On Demand, dove i contenuti sono precisamente catalogati, indicizzati e messi in correlazione tra loro (p. 16).

Inoltre fornisce agli utenti un motore di ricerca interno alla stessa piattaforma di video sharing, che consente di ricercare i video semplicemente inserendo il titolo di interesse. Vimeo non ha contestato ciò, ma ha detto -eccezione insidiosa, su cui v. sotto la risposta del Tribunale- che l’indicizzazione dei contenuti avviene con procedura automatica gestita da software, che non permette una conoscenza effettiva dei contenuti caricati sul portale (p. 16).

il tribunale ha accolto la domanda di RTI con un provvedimento analitico e interessante. I punti più significativi sono i seguenti:

  1. Sulla giurisdizione  – Vimeo ha sollevato l’eccezione di carenza di giurisdizione (come di solito fanno i convenuti stranieri), ma il Tribunale l’ha respinta. Ha applicato l’articolo 5 della convenzione di Bruxelles 27 settembre 68, secondo cui c’è giurisdizione presso il giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Ha infatti interpretato quest’ultimo concetto, nel senso che deve darsi rilievo non all’attività di uploading, cioè al luogo di caricamento sui server di Vimeo, bensì <<all’area di mercato dove la danneggiata esercita la sua attività di produttrice e o di titolare di sfruttamento dei programmi>> (pag.  7 / 8).
  2. Sulla legittimazione attiva di RTI  – Anche se non contestata da Vimeo, sono però interessanti i passi sul punto offerti dal Tribunale d’ufficio. Su essi non mi soffermo, ma saranno da tenere in considerazione da parte di dovesse in futuro occuparsene.
  3. Sulla  responsabilità degli Internet Service Provider  ISP , v.si la definizione di Internet Service Provider (ISP) offerta a pagina 10;
  4. Sui principali provvedimenti europei in materia di responsabilità dei provider e sulla  consueta distinzione tra hosting attivo e hosting passivo – Dice il tribunale che ”in relazione al regime di esenzione , tema centrale è quello della individuazione dei criteri interpretativi in base ai quali valutare quando il servizio di hosting possa definirsi “passivo” [sottol. aggiunto] e quando invece il provider perde il carattere di neutralità è opera forme di intervento volte a sfruttare i contenuti dei singoli materiali caricati dagli utenti e memorizzati sui propri server”. In quest’ultimo caso il provider qualifica  la propria posizione come “attiva” e ne segue la non applicabilità dell’esenzione da responsabilità ex articolo 16 del decreto legislativo 70 (e ex art. 14 dir. UE 31/2000) .  Si dovrà allora valutare la sua condotta secondo le comuni regole di responsabilità civile ex articolo 2043 cc (p. 12). Secondo il tribunale, la Corte di Giustizia ha detto che non viene meno l’esonero per la presenza di “indici di attività meccanica e non manipolativa nel trattamento dei dati, mentre la responsabilità per servizi di hosting sorge ogni qualvolta c’è un attività di gestione, di qualsiasi natura, anche se limitata alla ottimizzazione o promozione delle informazioni di tali contenuti” richiamandone alcune note sentenze (p. 12/3). Cioè secondo il diritto UE , continua il Collegio romano, per “godere dell’esonero da responsabilità , è necessario che il provider sia un “prestatore intermediario” che si limiti ad una fornitura neutra del servizio mediante trattamento puramente tecnico, automatico e passivo dei dati forniti dai suoi clienti, senza svolgere un ruolo attivo atto a conferirgli conoscenza o un controllo dei medesimi dati, e quindi a condizione che non abbia dato un minimo contributo all’editing  del materiale memorizzato lesivo di diritti tutelati” (p. 12/13, richiamando  le pronunce UE nei casi Google c. Louis Vuitton e L’Oreal).
    1. Pur tuttavia -ricorda però il Tribunale- l’hosting attivo non può essere assoggettato ad un obbligo generalizzato di sorveglianza e controllo preventivo, come ricorda la Corte di Giustizia in alcune sentenze (Scarlet Extended e Sabam c. Netlog) (p. 13/14)
  5. Sull’orientamento dei giudici italiani  – Due sono gli orientamenti in Italia. Uno minoritario, per cui il punto di discrimine tra fornitore neutrale (“passivo”) e fornitore non neutrale (“attivo”) deve essere indidviduato  “nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati”  : quindi qualora  vengono attuate delle mere operazioni, volte alla migliore fruibilità della piattaforma e dei contenuti in essa versati, attraverso indicizzazioni o suggerimenti , le predette clausole di esenzione possono operare (almeno così intuisco,  essendo qui il testo coperto e non leggibile). Secondo invece l’altro orientamento, maggioritario e che il tribunale dichiara di seguire, il provider perde il carattere passivo quando i servizi offerti vanno oltre la predisposizione del solo processo tecnico ed egli “interviene nella organizzazione e selezione del materiale trasmesso, finendo per acquisire una diversa natura di prestatore di servizi -”quella di hosting attivo” – non completamente passivo e neutro rispetto alla organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti, dalle quali trae anche sostegno finanziario in ragione dello sfruttamento pubblicitario connesso alla presentazione organizzata di tali contenuti. (…) Non appare infatti condivisibile quella giurisprudenza che limita il ruolo attivo dell’hosting provider al solo caso in cui il gestore operi sul contenuto sostanziale del video caricato sulla piattaforma” (p. 14-15)
  6. Prima conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo – Tenuto conto delle caratteristiche del servizio offerto da Vimeo, “deve affermarsi che Vimeo non si è limitata ad attivare il processo tecnico che consente l’accesso alla piattaforma di comunciazione su cui sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi,. al solo fine di rendere più efficiente la trasmissione, ma ha svolto una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento di contenuti immessi in rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri, arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità, dotato di una sua precisa e specifica autonomia” (p. 17; anche qui problemi di leggibilità del testo, come già sopra)
  7. Sulla necessità o meno di conoscenza diretta del contenuto illecito – Altro punto interessante. Il tribunale, rigetta l’eccezione di Vimeo e dice che “non è necessaria una conoscenza personale diretta del contenuto illecito ma è sufficiente che i mezzi tecnologici utilizzati siano comunque idonei a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. (…) Pertanto anche se il prestatore di servizi si avvale di un software per indicizzare organizzare catalogare associare ad altri o alla pubblicità i video caricati dagli utenti, egli viene comunque a svolgere un ruolo attivo di ingerenza nei contenuti memorizzati, tale da permettergli di conoscere o controllare e di fornire un importante contributo all’editing del materiale memorizzato” (p. 18)
  8. Seconda conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo: non può essere ritenuto hosting provider passivo, ma piuttosto attivo. Ne segue che non può giovarsi delle esimente prevista dalla legislazione e risponde secondo le regole comuni ex articolo 2043. Ciò detto, bisogna però dimostrare che fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza dell’illecito  commesso dall’utente (p. 18)
  9. Sulla idoneità della diffida stragiudiziale e delle ulteriori segnalazioni inviate dal titolare a Vimeo –  Altro punto assai rilevante nella pratica è quello del tasso di analiticità della diffida nell’indicare le opere illecitamente riprodotte, perchè possa venir meno l’invocabilità dell’esimente – Sostanzialmente il dubbio interpretativo è riconducibile ad un’alternativa, ricorda il Tribunale:  se sia sufficiente indicare quantomeno i titoli dei programmi televisivi, su cui il titolare vanti diritti di sfruttamento; oppure se serva anche indicare gli indirizzi specifici compendiati in singole URL per ciascuna riproduzione illecita. Il Tribunale , precisato che non è certo sufficiente la generica indicazione di <<tutti i programmi di una certa emittente televisiva>>, segue l’opinione più restrittiva per il provider e più favorevole al titolare dei diritti:  stima cioè sufficiente che quest’ultimo indichi i titoli dei programmi televisivi, senza l’URL (p. 19-21).
  10. Sulla diligenza che ci si poteva aspettare da Vimeo, una volta informata delle riproduzioni illecite – Qui il tribunale si appoggia alla CTU secondo cui esistevano già all’epoca dei fatti delle tecniche per  controllare sia preventivamente (ex-ante), sia successivamente (ex post) i contenuti da pubblicare o già pubblicati e alle cui risultanze subordinare la stessa pubblicazione o permanenza on-line del contenuto audiovisivo considerato (c.d. watermarking e videofingerprinting: p. 22/4, ove esposizione della  ctu in proposito). Pertanto sarebbe stato ragionevole attendersi da Vimeo un comportamento diligente per sollecitare questa attività di verifica e controllo a seguito della segnalazione da parte di RTI. Invece Vimeo si è limitata a rimuovere i contenuti per le quali RTI ha individuato gli URL , senza ulteriori sforzi.
    1. Inoltre Vimeo non ha allegato nè provato quale pregiudizio avrebbe subito la propria attività di hosting provider qualora avesse adottato le tecnologie disponibili riferite dal CTU per la necessaria attività di verifica e controllo ex post. (p. 24) . In effetti quest’ultimo elemento avrebbe potuto contrastare la conclusione del giudice: una elevata onerosità di questi filtri, allegata e provata, avrebbe infatti forse portato ad un esito diverso circa le misure che per diligenza Vimeo avrebbe potuto e quindi dovuto adottare.
  11. In conclusione, c’è stata una cooperazione colposa mediante omissione nella violazione dei diritti di cui agli articoli 78 e 79 legge sul diritto d’autore, che porta al dovere di risarcire il danno patrimoniale aquiliano (non è stato chiesto il danno non patrimoniale, possibile anche per gli enti, secondo una recente tendenza).
  12. Sul risarcimento del danno patrimoniale – RTI ha portato documentazione contrattuale sulle licenze concordati con altre piattaforme  o emittenti televisive e su queste il tribunale si è appoggiato per la liquidazione del danno. Ha escluso la utilizzabilità di un contratto tra RTI e Rai , ma ha invece sorprendentemetne affermato di potere utilizzare gli importi concordati con altra emittente in sede transattiva di una precedente lite: ha dichiarato che “deve escludersi che i prezzi stabiliti a seguito di un accordo transattivo siano meno congrui rispetto a quelli che si formano in una libera contrattazione commerciale” (p. 30). La sorpresa sta nel fatto che in sede transattiva, visto che ciascuna parte cede qualcosa (art. 1965 cc: “reciproche concessioni”), è probabile che il titolare accetti un corrispettivo inferiore a quello che avrebbe accettato in una contrattazione ex ante .
  13. Sul parametro per determinare la royalty ipotetica – E’ stato individuato nel corrispettivo medio a minuto di durata dei video in contestazione per un tempo di permanenza di un anno, stimato in euro 563,00, moltiplicato per i 2.109 video abusivamente pubblicati. L’importo complessivo ha superato i 10 milioni di euro, poi equitativamente abbassati ad euro 8.500.000,00 (p. 31-33).
  14. il tribunale ha escluso invece sia la concorrenza sleale, per carenza del rapporto di concorrenza, sia la violazione di marchi registrati, non essendoci stato uso degli stessi (non essendosene appropriata), “non assumendo rilievo, quale uso del marchio,  la circostanza che i contenuti audiovisivi in contestazione riportassero i loghi dei canali di cui è titolare RTI” (p. 34). Anche quest’ultima affermazione è di un certo interesse.
  15. Ha accolto la domanda di inibitoria e di rimozione , facendole assistere da penali.

Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon / 2: l’appello (con un cenno a inibitoria e alla proteggibilità come marchio)

Dando seguito al post sulla sentenza di primo grado, vediamo ora il ragionamento condotto dalla sentenza d’appello (Appello Milano sent. n. 1543/2018 del 26.03.2018, RG 3945/2015) per respingere l’impugnazione e confermare la decisione di primo grado praticamente per intero (l’unica differenza sta nel maggior termine concesso a Wjcon per darvi esecuzione, come dirò sotto).

Ecco i punti principali.

  1. Sull’eccezione di carenza in Kiko  di legittimazione attiva – secondo Wjcon il contratto per la progettazione dell’arredo non avrebbe fatto acquisire a Kiko  il diritto d’autore relativo. La Corte d’Appello rigetta la doglianza sotto due profili: i) dicendo che invece è nella logica economica di questo contratto che il diritto d’autore venga acquisito dal committente; ii) valorizzando alcune dichiarazioni, sostanzialmente ricognitive della titolarità di Kiko, pare, rilasciate dallo studio di architettura e/o dall’architetto personalmente (primo motivo di impugnazione).
  2. Sulla censura, secondo cui un’eventuale tutela avrebbe dovuto essere semmai concessa come opera di design (art. 2 n. 10 l. aut.; pur negandola per mancanza dei requisiti di legge) e non come opera dell’architettura ex art. 2 n. 5 – Secondo la Corte invece, poichè il concept-store è progettato come insieme complessivo del punto vendita, è più appropriata la tutela come opera dell’architettura. Il concetto di interior design si addice maggiormente (in base alle esperienze e alla giurisprudenza) ai singoli elementi che compongono l’arredamento dell’Interno (secondo motivo di impugnazione).
  3. Sull’eccezione secondo cui Kiko avrebbe modificato il progetto del concept store per negozi  successivi – Trattasi di circostanza irrilevante che non fa venir meno il diritto alla protezione del concept store anteriori (terza censura)
  4. Circa la presenza di alcune differenze tra l’arredo dei negozi di wycon e quello dei negozi Kiko  – La Corte ricorda che decisivo è l’aspetto complessivo: <<dato che la tutela autorale riconosciuta dal Tribunale riguarda la combinazione degli elementi sopra descritti, limitate differenze nella forma del singoli elementi che compongono l’arredamento di interno non sono rilevanti, se e nella misura in cui l’effetto di insieme, quale si coglie dalle foto in atti, sia il medesimo, vale a dire nella stragrande maggioranza dei punti di vendita Wycon ritratti nelle fotografie prodotte dall’attrice>> (sempre terza censura).
  5. Sulla presunta mancanza di originalità del progetto architettonico in quanto già noto nel settore per essere stato anticipato da terzi concorrenti  – Come già il Tribunale, anche la Corte d’Appello respinge la doglianza, rilevando la mancanza di prova e [addirittura] di allegazione dell’anteriorità degli arredamenti/allestimenti di detti terzi rispetto a quelli di Kiko (ancora terza censura).  Di ciò gli operatori faranno bene a tenere adeguato conto.
  6. Sulla concorrenza parassitaria – Anche qui viene confermato il giudizio del tribunale circa la sistematicità dell’imitazione e comunque la rilevanza dell’aspetto complessivo, anzichè dei singoli dettagli: <<a imitazione degli elementi come sopra considerati da parte di Wycon è talmente sistematica anche agli occhi di un osservatore superficiale della cospicua documentazione e delle fotografie prodotte dalle parti, da rendere assolutamente di giustizia l’affermazione al di là di ogni ragionevole dubbio che Wycon ha sfruttato le ricerche, l’attività produttiva e promozionale ed il lavoro di Kiko. Del resto anche qui vale la considerazione che lo agganciamento parassitario riguarda il complesso dell’attività commerciale dell’appellata e che, quindi, essa non è esclusa da singole e parziali differenze degli elementi considerati, i quali peraltro sono molto di frequente anche essi uguali o comunque pedissequamente imitati>> (quarta  censura).
  7. Sul mancato utilizzo del criterio risarcitorio degli utili persi  – Correttamente non è stato utilizzato, secondo la Corte d’Appello: <<il Tribunale ha giustamente escluso che il criterio della possibile determinazione degli utili persi da Kiko a causa del predetto fatto illecito potesse essere in qualche modo utilizzato e questo argomento logico giuridico va interamente condiviso, poiché, in sostanza, la Kiko vende prodotti cosmetici e non fa invece offerta di progetti di arredamento e quindi nessun senso avrebbe concepire nella specie il danno come correlato agli utili ipoteticamente perduti dall’attrice>>.  (Quinta censura)
  8. Circa la doglianza sul  fatto che in realtà Kiko non ha subito alcun danno né come lucro cessante né come danno emergente a seguito della riproduzione  non autorizzata del concept store – La Corte replica osservando che il lucro cessante esiste ed è rappresentato proprio dalla somma, che Kiko  avrebbe percepito da wycon se quest’ultima avesse acquistato dalla attrice il diritto di utilizzare l’idea progettuale (“giusto prezzo del consenso”)  (sempre quinta censura
    1. Sul punto rinvio ad un mio precedente ampio studio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietàindustriale (con un cenno al diritto di autore), Contratto e impresa, 2010, 1149 ss, leggibile in academia.edu.
  9. Sulla quantificazione del danno – La Corte d’Appello rileva (come già osservato nel mio post precedente) che in causa non si era accertato quanti negozi Wycon avesse clonato ne è accertabile quanto avrebbe dovuto corrispondere a controparte per l’allestimento di ogni punto vendita: per questo, dice,  è stato “prudentemente liquidato”  nel multiplo di 10 del costo progettuale (sempre quinta censura).
    1. Più che “prudentemente liquidato”, però, sarebbe stato più esatto dire “equitativamente determinato”,  visto che così si esprime l’articolo 1226 c.c., richiamato dall’articolo 2056 c..c (il cui comma 2, poi, aggiunge che <<il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso>>)
  10. Sull’inibitoria – L’appellante lamentava che erroneamente ed ingiustamente il tribunale avesse emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo” perché aveva agito in buona fede. La corte respinge la doglianza (tranne quello che si dirà al punto seguente), osservando:  – da un lato, che <<l’inibitoria è il provvedimento tipico, che consegue all’accertamento di una contraffazione di opera di ingegno. Esso è espressamente previsto dall’art. 156 LDA>>; – dall’altro, che Wjcon non può essere ritenuto in buona fede (sesta  doglianza).  Due osservazioni:
    1. Il punto è importante, ma la posizione del  collegio è poco comprensibile, dal momento che la risposta avrebbe potuto essere più radicale: l’elemento soggettivo non è richiesto per concedere l’inibitoria. Questa infatti è un rimedio reale e non personale, secondo la tradizionale partizione, che riflette la distizione tra illiceità mera e dannosità (potendoci essere l’una senza l’altra): per opinione diffusa, quindi, non richiede l’elemento soggettivo (dolo/colpa) nel trasgressore  nè la prova di un danno. In tale senso v. Libertini-Genovese, sub art. 2599, in Comm. del cod. civ. dir. da Gabrielli,  Artt. 2575-2642: Delle soc., dell’az., della concorr., a cura di Santosuosso, Utet, 2014, p. 626; Musso, sub art. 2577, Comm. cod. civ. Scialoja Branca, Art. 2575-2583, Zanichelli, 2008, § 19, p. 273; Spolidoro, Le misure di protezione nel diritto industriale, Giuffrè, 1982, p. 161 ss.. Tra i processualisti v. Nardo., Profili sistematici dell’azione civile inibitoria, ESI, 2017, 87 ss e 101 ss; Rapisarda, Profili civili della tutela civile inibitoria, Cedam, 1987, 88 ss.
    2. inoltre non è vero che il Tribunale  aveva emesso inibitoria “della apertura di nuovi negozi con arredamento di interni copiato da quello dei quo”. L’inibitoria riguardava il protrarsi dell’illecito e quindi, visto che questo consisteva nell’arredo già installato, obbligava a rimuoverlo: aveva cioè contenuto positivo/commissivo, non negativo/omissivo. Ciò risulta in modo sufficientemente chiaro dalla pronuncia di primo grado (dispositivo: “accertata la tutelabilità del progetto di arredamento d’interni applicato ai negozi di cosmetici della catena di KIKO s.r.l. ai sensi dell’art. 2, n. 5 L.A.  (…) nonché la contraffazione posta in essere dalla convenuta WJCON s.r.l. di tale progetto (…), ne inibisce a parte convenuta l’ulteriore utilizzazione nei negozi facenti parte della sua catena commerciale, fissando a titolo di penale la somma ..”) e in modo ancor più chiaro da quella di appello.
  11. La Corte d’Appello aumenta da 60 a 150 giorni il termine per dare esecuzione al gravoso provvedimento di inibitoria, con contenuto però positivo (rimozione degli arredi in violazione: v. punto precedente)
  12. E’ confermato il rigetto delle domande di concorrenza sleale confusoria e per appropriazione di pregi, avanzate da Kiko.
  13. La corte , infine, ha ritenuto di compensare per un quarto le spese legali d’appello a favore di wycon e di condannarla però a rifondere a Kiko i residui tre quarti

Circa la protezione dell’arredo interno del negozio , ricordo che in passato è stata tentata anche tramite l’istituto del marchio di forma. L’ha ammessa la sentenza della Corte di Giustizia UE 10.07.2014, C‑421/13, nel caso Apple c.Deutsches Patent- und Markenamt, purchè ricorra la distintività; l’ha invece respinta l’EUIPO proprio a Kiko (decisione 29.03.2016 della 1° Commissione di ricorso, proc. R 1135/2015-1), anche se non in linea di principio, bensì per carenza  di distintività nel caso specifico.

Sulla protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore (art. 2 n. 5, l. aut.): la vertenza Kiko c. Wjcon

Interessante vertenza milanese in tema di protezione col diritto di autore dei progetti di architettura di interni, riferita a negozi . Riferisco qui della sentenza di primo grado e in un prossimo post di quella d’appello, che ha respinto l’impugnazione di Wjcon, confermando il provvedimento del Tribunale quasi interamente .

Era successo, secondo le allegazioni di Kiko srl (attore), che il concept dei propri negozi fosse stato copiato dai negozi di Wycon srl (convenuto). Inoltre sarebbe stata posta in essere attività di concorrenza sleale, poiché erano stati copiati anche altri profili della comunicazione di impresa  (abbigliamento delle commesse, packaging dei prodotti , format dei siti web etc).

Nella sentenza di primo grado (Trib. Milano n. 11416/2015 – RG 80647/2013, pubblicata il 13.10.2015), questi sono alcuni dei punti più interessanti.

  1. il Tribunale non ha dato rilevanza al disconoscimento, da parte di Wjcon, di fotografie e riproduzioni grafiche prodotte da Kiko: ciò perchè il generico disconoscimento di  “conformità e provenienza” delle stesse non ha precisato quali riproduzioni grafiche risulterebbero non conformi alla realtà e non ha prodotto elementi a contrasto utili a potere in concreto individuare e evidenziare tali presunte difformità. Infatti la contestazione di difformità, pur non potendo essere governata dagli articoli 214 215 cpc, concernenti la scrittura privata, deve comunque essere “chiara, circostanziata ed esplicita”: in mancanza è generica e per questo irrilevante (§ 2).
  2. Secondo il collegio, “non sembra contestabile la possibilità di riconoscere la tutela ex articolo 2 n.5 legge d’autore a detto progetto di arredamento di interni” (di Kiko). La tutelabilità infatti di tali progetti è possibile quando la progettazione sia il risultato non imposto dal problema tecnico funzionale, che l’autore vuole risolvere:  in tale contesto “il carattere creativo, requisito necessario per la tutela, può essere valutato in base alla scelta, coordinamento e organizzazione degli elementi dell’opera, in rapporto al risultato complessivo conseguito. (…) La presenza in detto progetto degli elementi di creatività necessari per assicurare ad esso la tutela autorale, appare connessa alla combinazione e conformazione complessiva di tutti detti elementi in relazione tra loro” (§ 3).
  3. L’esistenza di uno specifico studio ed elaborazione progettuale [commissionato a terzi, nel caso specifico] costituisce una favorevole presunzione in tal senso (§ 3).
  4. La documentazione di Wycon, per provare che il progetto di Kiko non è originale perchè già utilizzata dai concorrenti nel settore, è irrilevante, in quanto non assistita da alcun elemento, che possa contribuire a fornire una effettiva datazione dell’epoca, in cui i singoli allestimenti ivi rappresentati sono stati effettivamente presentati sul mercato (§ 4).
  5. Gli altri aspetti di concorrenza sleale confusoria o per appropriazione di pregi (abbigliamento delle commesse, aspetto dei sacchetti e dei contenitori portaprodotti, aspetto dei prodotti medesimi, aspetti della comunicazione commerciale on-line, eccetera), invece, non sono stati ritenuti censurabili, in quanto iniziative da un lato consuete nel settore e dall’altro comportanti un rischio poco apprezzabile di confusione (§ 5) .
  6. Il tribunale ha invece affermato (ed è interessante, essendo poche le sentenze di accoglimento di questa domanda) l’esistenza di concorrenza parassitaria. Ha infatti  ravvisato una <<ripresa pressoché pedissequa di ulteriori elementi -di per se privi di attitudine confusoria- che hanno dato luogo ad un comportamento di pedissequa imitazione del complesso delle attività commerciali e promozionali poste in essere nel tempo da parte attrice di tale complessive entità e rilevanza da porre in essere quello sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui in tempi sostanzialmente coincidenti o comunque immediatamente successivi all’adozione da parte dell’attrice delle sue specifiche iniziative>> (§6)
  7. il risarcimento del danno non è stato  parametrato sugli utili del contraffattore (visto che <<difficilmente potrebbe essere individuato tra gli utili conseguiti dal contraffattore nell’ambito di una attività di impresa più complessiva ed articolata, risultando di fatto del tutto arbitraria ogni possibilità di assegnare direttamente sul piano causale una parte di tali utili all’illecito accertato>>), bensì con una iniziativa equitativa parametrata al costo sostenuto per il progetto d’arredo. In particolare la condanna è fondata su un <<criterio di natura equitativa che tragga fondamento sostanziale dalle somme che parte convenuta ha di fatto risparmiato sfruttando il progetto sviluppato da KIKO e commisurando tali importi Alla entità delle riproduzioni eseguite nei numerosi negozi di wycon sparsi sul territorio nazionale>>.  Pertanto avendo Kiko speso € 70.000,00 per il progetto del Concept presso uno studio esterno, <<tale importo appare di sicuro riferimento come base di per determinare il lucro cessante a cui kiko ha diritto, sulla base del quale cioè commisurare il prezzo che wjcon avrebbe dovuto sostenere per sfruttare lecitamente l’opera tutelata e che deve essere opportunamente aumentato in relazione al numero di negozi ai quali essa ha applicato detto concept. Stima equo dunque il collegio liquidare per tale voce di danno in via equitativa la complessiva somma di 700.000,00>>.
    1. Non è però chiarito come si sia passati da € 70.000,00 ad una somma pari al decuplo: in base a criterio puramente equitativo, par di capire, non essendoci alcun riferimento nè al numero di negozi di Wjcon interessati dai fatti di causa nè a canoni ipotetici di mercato per un licensing del genere.
  8. ll Tribunale, emettendo l’inibitoria assistita da penale [si badi: comportante la rimozione degli arredi dei propri negozi!], ha concesso il termine di 60 giorni dalla notifica prima di far scattare la penale medesima.