Onere della prova della responsabilità dei sindaci azionata in via di eccezione da aprte della curatela

Non chiarissimo insegnamento in Cass. sez. I, ord. 24/01/2024  n. 2.343, rel. Terrusi:

<<I.- Ora nella giurisprudenza di questa Corte è invalsa la sottolineatura che nell’ipotesi dell’eccezione formulata per motivare l’esclusione di un credito professionale dal passivo di un fallimento non è dato al curatore prospettare l’eccezione solo sommariamente, senza indicare i fatti di inadempimento da imputare al creditore escluso (v. Cass. Sez. 6-1 n. 24794-18).

La ragione è che per i componenti del collegio sindacale di una società l’eccezione di inadempimento finisce col riprodurre la distinzione basica dell’art. 2407 cod. civ. tra responsabilità esclusiva e responsabilità concorrente dei sindaci con quella degli amministratori, per omessa vigilanza sui comportamenti di questi. E in questa seconda ipotesi implica doversi declinare l’ambito dei fatti alla luce del necessariamente variegato apporto che i sindaci, col proprio contegno di volta in volta integrante l’inosservanza dei doveri primari di cui all’art. 2403 cod. civ., possano aver dato nelle altrettante variegate situazioni gestorie caratterizzanti gli inadempimenti degli amministratori.

Poiché l’allegazione di un comportamento specifico e negligente, secondo quanto espresso appunto dalla proposizione di un’eccezione effettiva e non sommaria di inadempimento, si manifesta come fatto modificativo del diritto al compenso del creditore, non sarebbe coerente ipotizzarne l’esito senza che sull’eccipiente gravi anche la prova di quei fatti storici, attinenti alla gestione ovvero al concreto assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, sui quali si innesta la deviazione della condotta di vigilanza esigibile dal sindaco; quella condotta, cioè, che il sindaco, che poi agisce in sede concorsuale per l’adempimento del proprio credito stante il pregresso inadempimento del corrispettivo, avrebbe dovuto tenere – e non ha tenuto – in relazione al suo mandato. Solo, dunque, per essa appare sufficiente, nella ripartizione dell’onere della prova, che il creditore della prestazione di vigilanza (nella fattispecie, e per la società, il curatore fallimentare) possa anche limitarsi a eccepire, nei segnalati termini di specificità, l’inesatto adempimento, allegato come difetto di vigilanza rispetto a fatti specifici invece non solo descritti ma anche provati>>.

Sembra che la specificità dell’eccezione, così descritta, riguardi non solo  l’allegazione ma anche la prova delle negligenze amministrative, rimaste prime di reazione sindacale.

Cessione di quota sociale e vizi nel bene appartanente alla società

Aperture (non nuove) alla rilevanza dei vizi nei beni appartanenti alla società, di cui è venduta una quota (del 51%), in  Cass. Sez. II, Ord., 18/07/2024, n. 19.833, rel. Picaro:

<<Osserva la Corte che un proprio primo indirizzo, prevalente (Cass. n.5053/2024; Cass.n. 21590/2019; Cass. n. 7183/2019; Cass. n.16963/2014;Cass. n. 17948/2012; Cass. n. 16031/2007; Cass. n.26690/2006), afferma che la cessione delle azioni, o delle quote, di una società di capitali, ha come oggetto immediato la partecipazione sociale, e solo quale oggetto mediato, la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale e, di conseguenza, alla consistenza economica della partecipazione possono giustificare la sua risoluzione o la riduzione del prezzo pattuito solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali.

Tale interpretazione si fonda sull’individuazione dell’oggetto del negozio di modificazione della partecipazione sociale. Un bene, la partecipazione sociale, che attribuisce al titolare diritti amministrativi e diritti patrimoniali da esercitare nella società per effetto dell’acquisizione della qualità di socio. Un bene, la partecipazione sociale, che non si limita, quindi, ad attribuire al socio diritti patrimoniali parametrati al valore del patrimonio della società, ma che, in relazione a ciascun tipo societario prescelto, attribuisce anche diritti amministrativi, che consentono al socio di partecipare alla vita della società, esercitando tutte le facoltà concesse dalla legge e dallo statuto, rispetto alle quali l’aspettativa di redditività connessa all’esercizio dei diritti patrimoniali costituisce non più che un aspetto del complessivo status di socio. L’assetto patrimoniale del valore della partecipazione, in quanto corrispondente all’esercizio dei diritti patrimoniali spettanti al socio, è solo una parte dell’utilità che l’acquirente della partecipazione riceve per effetto del suo acquisto.

Lo status di socio attribuisce, quindi, diritti più ampi e ulteriori rispetto a quelli legati al concorso alla distribuzione degli utili, ipotesi nella quale potrebbe sussistere un interesse ad attribuire sempre e comunque rilevanza all’effettivo valore dei beni che costituiscono il patrimonio della società, in dipendenza di vizi che ne diminuiscano il valore, con conseguente ammissibilità delle azioni contrattuali a difesa dell’effettivo valore del bene mediato, in assenza di specifiche garanzie.

La sentenza impugnata ha richiamato l’orientamento minoritario di questa Corte (Cass. ord. 12.9.2019 n. 22790; Cass. 9.9.2004 n. 18181), secondo cui le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all’esercizio dell’attività sociale.

Tale orientamento, che comunque non è in contrasto con quello prevalente, evidenzia che comunque le azioni esperibili a tutela dell’effettivo valore della partecipazione discendono da un’applicazione del generale canone di buona fede, e sono limitate alle ipotesi in cui la differenza tra l’effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incida sulla solidità economica e sulla produttività della società, e quindi sul valore delle azioni o delle quote, che sono l’oggetto immediato della cessione, potendo per tale via integrare una mancanza delle qualità essenziali della cosa, ovvero essere indizio del fatto che i beni confluiti nel patrimonio siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell’acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti (vedi in tal senso Cass. n. 3370/2004 richiamata nella sentenza impugnata e Cass. n.2843/1996).

La decisione impugnata, in linea con tale ultima giurisprudenza, non si è limitata a fare derivare la mancanza di qualità ex art. 1497 cod. civ. dall’esistenza sull’immobile adibito a palestra, l’unico ricompreso nel patrimonio della società cedenda, dei vincoli di destinazione non dichiarati (secondo le prove testimoniali valutate) connessi ai contributi ed alle agevolazioni finanziarie concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, in quanto alle pagine 19, 20 e 21 ha correttamente considerato le specifiche ripercussioni da cio derivate, secondo la CTU espletata, sul valore della stessa quota societaria cedenda (diminuzione di valore del 25%), ossia dell’oggetto immediato della cessione, ha evidenziato che nel preliminare di cessione delle quote era stato fatto all’art. 3 uno specifico riferimento alla determinazione del prezzo in Euro1.600.000,00 in considerazione della situazione contabile dell’unico immobile, di circa 1250 mq su due livelli e di tutte le attrezzature, avente primaria importanza per le parti, ed ha ritenuto che pertanto la TIB avesse legittimamente fatto affidamento, secondo i canoni della buona fede, in tale valutazione, risultata frustrata dall’omessa dichiarazione dei soci della SFC Srl, in fase precontrattuale, circa il vincolo di destinazione e circa i limiti soggettivi di trasferibilità della stessa quota, che derivavano dalla celata fruizione delle contribuzioni e dei finanziamenti agevolati regionali.

La sentenza impugnata, inoltre, ha evidenziato che i soci della SFC Srl nel preliminare avevano dichiarato che le quote della società non solo erano nella loro esclusiva proprietà, circostanza veritiera, ma anche nella loro “libera disponibilità”, fornendo quindi sul punto una garanzia specifica alla TIB, che viceversa, solo dopo la firma del preliminare, in base alla documentazione in seguito consegnatale, ha potuto scoprire che la quota societaria, a seguito dei contributi a titolo gratuito e dei finanziamenti agevolati fruiti dalla SFC Srl, non poteva esserle trasferita senza la preventiva comunicazione ed autorizzazione della Regione Sardegna, e senza il rispetto dei requisiti soggettivi della normativa regionale sui beneficiari (partecipazione come soci di almeno tre soggetti, di cui almeno il 60% di età compresa tra 18 e 35 anni non compiuti, iscritti nelle liste di collocamento), la cui violazione avrebbe comportato la decadenza immediata dai benefici a suo tempo concessi alla cedente, con conseguente obbligo di restituzione in un’unica soluzione dell’intero importo fruito, ben superiore alle rate di mutuo altrimenti da restituire delle quali era stata edotta. La sentenza impugnata ha poi escluso, a pagina 16, che la circostanza che la TIB avesse la mera possibilità di nominare un altro soggetto come acquirente della quota, potesse rendere ininfluente la circostanza che il cessionario definitivo della quota societaria dovesse presentare i suddetti requisiti soggettivi, essendo stato fissato un termine di appena 25 giorni dal preliminare per la cessione definitiva, nel quale evidentemente sarebbe stato pressoché impossibile, per l’ignara TIB, soddisfare i requisiti soggettivi necessari ad evitare la decadenza dalle agevolazioni concesse alla SFC Srl dalla Regione Sardegna, e comunque non è invocabile l’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., in quanto la circostanza in questione è stata già considerata, anche se sinteticamente, dalla Corte d’Appello>>.

La delibera della SRL sul compenso amministratori è viziata da conflitto di interessi?

Cass. sez. I, 23/04/2024, ord. n. 10.889, rel. Catallozzi:

<<- con particolare riferimento al primo requisito si osserva che il conflitto di interessi, da accertarsi non in termini astratti e ipotetici, ma con riferimento alla singola delibera, sussiste quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale – quindi un interesse che non è in alcun modo riconducibile al contratto di società – e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili a tale contratto e, quindi, che sono comuni ai soci (cfr. Cass. 13 marzo 2023, n. 7279; Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387)

– la situazione di conflitto di interessi tra socio e società presuppone, dunque, che il primo si trovi nella condizione di essere portatore, con riferimento a una specifica delibera, di un duplice e contrapposto interesse – da un lato il proprio interesse di socio [NO: di persona non socia: come socio può perseguire solo l’interesse sotteso al contratto sociale] e dall’altro l’interesse della società – e che questa duplicità di interessi sia tale per cui il socio non possa realizzare l’uno se non sacrificando l’altro;

– pertanto, la circostanza che una siffatta delibera consenta al socio il conseguimento (anche) di un suo personale interesse non comporta, di per sé, un pregiudizio all’interesse sociale (cfr. Cass. 21 marzo 2000, n. 3312);

– in applicazione di tale principio è stato affermato che la deliberazione determinativa del compenso dell’amministratore non può considerarsi invalida per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l’interesse sociale (così, Cass. 3 dicembre 2008, n. 28748);

– ne consegue che, con riferimento al caso in esame, la mera circostanza che il socio privato, per il tramite dell’amministratore della società, abbia votato la delibera avente a oggetto la determinazione del compenso dell’amministratore medesimo non è idonea a dare luogo a una situazione di conflitto di interesse, rilevante ai fini che qui interessano, non avendo la Corte territoriale accertato – né la parte ricorrente dedotto di aver allegato – la presenza di elementi significativi di una incompatibilità dell’interesse sociale con l’interesse individuale perseguito;

– al contrario, il giudice di appello, nell’argomentare l’insussistenza della denunciata situazione di conflitto di interesse, ha valorizzato il fatto che con la impugnata delibera di approvazione del compenso degli amministratori l’assemblea ha disposto la riduzione dello stesso – da Euro 58.800,00 a Euro 41.040,00 – per il periodo decorrente dal 1° aprile 2015 al 31 dicembre dello stesso anno, in ragione delle difficoltà economiche della società;

– si osserva, inoltre, che non risulta decisiva la dedotta ripetuta sollecitazione rivolta dal socio privato al socio pubblico ad alienare la propria quota, ritenuta dal ricorrente strumentale a determinare un deprezzamento del valore della quota medesima e un suo più conveniente acquisto della stessa, atteso che la Corte di appello ha accertato che il socio privato si è limitato a chiedere al socio pubblico di procedere alla indizione di una gara a evidenza pubblica per la cessione di tale quota, in conformità con gli obblighi di legge, e che, dunque, la riferita finalità di deprimere il valore della quota per poi acquistarla a trattativa diretta non era ipotizzabile, stante l’incertezza dell’esito di una procedura a evidenza pubblica;

– con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2477 e 2479-ter, secondo comma, cod. civ. e degli artt. 2,3 e 4D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, per avere la sentenza impugnata ritenuto insussistente il danno alla società e il conflitto di interessi del socio privato in relazione alla mancata nomina dell’organo di controllo;>>

Vale tacita rinuncia ai crediti, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, estinguere la società tramite cancellazione dal registro imprese in pendenza di lite (con impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.)?

Cass. sez. I ord interl. 13 giugno 2024 n. 16.477, rel. Terrusi, rinvia la questione alle sezioni unite per contrasto giurisprudenziale (e per la particolare importanza della questione stssa):

<< VIII. – In definitiva può osservarsi che, dopo le sentenze delle Sezioni Unite all’inizio citate, si è perpetuato un contrasto in seno alla Corte, vertente in particolare sulla possibilità di configurare la tacita rinuncia ad alcuni dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, ove questa venga cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite, con conseguente estinzione e impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. civ.

Secondo l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6070 del 2013, condiviso da altre immediatamente susseguenti anche non massimate, andrebbe constata in casi del genere una presunzione pressoché assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione.

Cosa peraltro determinativa di non secondarie criticità: (a) per l’irrazionalità della configurazione che pone a elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, in contrasto col principio contabile generale per cui ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.); (b) per l’automatica riconduzione della formalità pubblicitaria (la cancellazione dal registro delle imprese) alla fattispecie della rinuncia, pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore; (c) per l’oggettiva difficolta di sostenere l’assunto sul piano degli effetti pratici, giacché mantenendosi l’automatismo ne deriverebbe una perdita potenziale in pregiudizio degli stessi creditori, in ragione della impossibilità di far conto della posta attiva in esito a una scelta abdicativa a loro estranea.

In ragione di tanto le due decisioni citate, della Prima sezione (Cass. Sez. 1 n. 9464-20) e della Prima sottosezione delle Sesta (Cass. Sez. 6-1 n. 30075-20), hanno ritenuto di poter trovare un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente (di fatto) ogni automatismo: la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata.

Di contro, l’arresto della Terza sezione ha posto nuovamente al centro del problema l’automatismo discendente dalla distinzione operata dalle Sezioni Unite del 2013, ridimensionandone il profilo – certo – ma sull’opposto versante della ripartizione dell’onere della prova: la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato>>.

La cancellazione della società dal registro imprese “causa pendente” non equivale a rinunzia del credito azionato

Cass. sez. I, 14/06/2024 n. 16.607, rel. Fidanzia:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto che, alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6070/2013, dovrebbe presumersi che la società correntista, con la cancellazione dal registro delle Imprese, abbia inteso rinunciare al credito vantato nei confronti della banca, con conseguente intrasmissibilità del medesimo ai soci.

Questo Collegio non condivide una tale impostazione giuridica.

Va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 9464/2020 (conf. Cass. n. 28439/2020), proprio in un’analoga fattispecie in cui era stata proposta una domanda di ripetizione di indebito bancario, ha enunciato il principio – cui questo Collegio intende dare continuità – secondo cui l’estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina anche l’estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest’ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare.

La predetta pronuncia, nel suo articolato (e pienamente condivisibile) percorso argomentativo, dopo essersi diffusamente soffermata sull’istituto della remissione di debito, a norma dell’art. 1236 cod. civ., evidenziandone i caratteri della univocità e concludenza, da valutare con particolare rigore e cautela, ha osservato che tali requisiti devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, e ciò al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati, con la conseguenza che, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria, deve essere esclusa la volontà di remissione del debito.

Né ad una diversa conclusione si può pervenire per effetto delle decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070 – 6072 del 2013), le quali avevano, piuttosto, evidenziato che la remissione del debito per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese fosse una delle varie evenienze solo “possibili”. Pertanto, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente – pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sulla base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c. – che la cancellazione sia domandata ed eseguita.

La predetta sentenza n. 9464/2020 ha, infine, evidenziato che “..All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai sensi dell’art. 300 c.p.c. ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stessa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo. Il relativo accertamento, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità; ma costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa”.

Orbene, anche questo Collegio è concorde nell’escludere che la mera cancellazione di una società dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua evidente equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne la remissione del credito fatto valere in giudizio, la quale deve essere, invece, allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione dichiarazione ad uno specifico creditore (Cass. n. 30075/2020).

Ne consegue che, in difetto di altri indici univoci sulla volontà remissoria – nel caso di specie, non accertati dalla sentenza impugnata, né comunque evidenziati dalla banca ricorrente – può ragionevolmente ritenersi che sia avvenuta, per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, un trasferimento dei diritti di quest’ultima ai soci>>.

Affermazione ineccepibile, anche se tutto sommato scontata.

Estensione del fallimento al socio apparente di S.A.S.

Cass sez. I, ord. 29/04/2024  n. 11.342, rel. Dongiacomo:

<<3.2. La corte d’appello, infatti, ha ritenuto che il fallimento della Nastrificio Finat Sas di Ca.Br. e Ca.Da., dichiarato con sentenza del 3-5-2018, era stato tempestivamente e correttamente esteso, con la reclamata sentenza del 9-9-2021, a Ca.Br., per un verso affermando che il mantenimento del nome e del cognome nella denominazione della “Nastrificio Finat Sas di Ca.Br. e Ca.Da.” si configura, a fronte del chiaro dettato normativo di cui all’art. 2314 c.c., come un elemento di esteriorizzazione ai terzi del vincolo societario e di affectio societatis, senza che assumano rilievo le ragioni della scelta, e, per altro verso, escludendo che il termine di un anno previsto dall’art. 147, comma 2°, L.Fall. potesse decorrere dal momento in cui, in data 12-12-2012, lo stesso aveva cessato di essere il socio accomandatario della società poi fallita.

3.3. La decisione, così assunta, è senz’altro conforme alle norme che regolano la fattispecie accertata in fatto dal giudice di merito: se non altro perché, come questa Corte ha ripetutamente affermato, nelle società di persone, l’assoggettabilità al fallimento del socio apparente in conseguenza del fallimento della società non richiede la dimostrazione della stipulazione e dell’operatività di un patto sociale, essendo a tal fine sufficiente la prova di un comportamento tale da integrare l’esteriorizzazione del rapporto, ancorché inesistente nei rapporti interni, a tutela dei terzi che su quella apparenza abbiano fatto affidamento (Cass. n. 8168 del 1996), come, appunto, nel caso in cui il terzo, pur non essendo più socio, abbia nondimeno acconsentito il mantenimento del proprio nome nella ragione sociale.

3.4. L’art. 2314, comma 2°, c.c., a norma del quale “l’accomandante, il quale consenta che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali”, è, infatti, volta a tutelare l’affidamento dei terzi creditori nella responsabilità illimitata di chi, quale socio accomandante ovvero, come nella specie, di socio accomandatario cessato per morte, recesso o (può aggiungersi) cessione della quota (art. 2292, comma 2°, richiamato dall’art. 2314 c.c. in materia di società in accomandita semplice), abbia, tuttavia, consentito (come, nel caso in esame, è rimasto incontestato) di presentarsi ai terzi, pur non essendolo (più), alla stessa stregua di un socio illimitatamente responsabile (art. 2291, comma 1°, e 2314, comma 1°, c.c.) e cioè, nella società in accomandita semplice, di un socio (attualmente) accomandatario (cfr. Cass. n. 30882 del 2018, in motiv.).

3.5. L’inserimento del nominativo del socio accomandante nella ragione sociale (art. 2314, comma 2°, c.c.), al pari dell’inserimento nella ragione sociale del nome del socio accomandatario cessato (artt. 2314, comma 1°, e 2292, comma 2°, c.c.), ne comporta, invero e per previsione normativa, la responsabilità illimitata per le obbligazioni della società esclusivamente in ragione del contenuto oggettivo della ragione sociale e della oggettiva confusione conseguentemente ingenerata sul ruolo da lui (ancora) svolto nella società; deve, per contro, restare estranea a tale valutazione ogni considerazione relativa ad elementi estrinseci all’aspetto formale della ragione sociale come, ad esempio, il comportamento dell’accomandante o del socio accomandatario cessato, i quali, in effetti, rispondono personalmente (anche per ripercussione automatica del fallimento della società: art. 147, comma 1°, L.Fall.) dei debiti contratti dalla società nel periodo di tempo in cui il loro nome è compreso nella ragione sociale a prescindere dal fatto che i terzi sapessero o ignorassero che si trattava di un socio accomandante o di un socio accomandatario non più tale>>.

Che poi aggiunge utili precisazioni sul decorso del termine annuale ex art. 147 l. fall., qui opmesse

Sulla (non) duistinzione tra violazioni come socio e violazioni come amminisraore nelle società di persone

Cass.  sez. I, Ord. 10/06/2024 n. 16.043, rel. Fraulini:

<<La sentenza impugnata non è conforme alla costante e condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 4404 del 02/07/1988; Sez. 1, Sentenza n. 2736 del 9/3/1995; più di recente, Sez. 1, Ordinanza n. 26059 del 05/09/2022), secondo cui nelle società di persone, e ancor più nella societàsemplice che ne costituisce l’archetipo di base, il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o illiceità commesse dal solo amministratore determinino non solo la relativa revoca dalla carica, ma anche l’esclusione del socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela della finalità e degli interessi dell’ente.
Invero, nelle società di persone non opera la struttura organicistica, propria delle società di capitali, in cui l’ente agisce per il tramite di organi diversi e distinti dai soci, con compiti e responsabilità altrettanto diversificati.
Il carattere distintivo dei due tipi societari – oltre che la diversa dinamica della responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali – è, infatti, anche la circostanza che nella società di persone la proprietà, la gestione e il controllo sono indistintamente affidati a tutti i soci, laddove nelle società di capitali le tre funzioni sono, o possono essere a seconda del tipo sociale, distinte tra loro.
Da tanto deriva, sempre a livello sistematico che, mentre nelle società di capitali la violazione dei doveri da parte dei diversi organi è affidata a ipotesi diverse e giuridicamente distinte tra loro, nelle società di persone (con la sola esclusione della Sas per la caratteristica tipologica inerente all’esistenza di due categorie distinte di soci) la violazione dei doveri del socio può essere dedotta da comportamenti che minino l’affectio societatis sia in relazione ad atti di disposizione uti socius che da atti posti in essere nell’esercizio di funzioni gestorie o di controllo, parimenti rinvenibili in automatico nel patrimonio giuridico di tutti i soci.
Ciò è tanto più vero nella società semplice, come quella per cui è causa, ove la legge riconosce a tutti i soci, per la semplice constatazione dell’assunzione di tale qualità, il diritto di amministrare, distinguendosi solo le modalità (disgiuntiva o, congiuntiva) con cui tale attività può essere realizzata.
Peraltro, la circostanza che alcuni soci, pur avendone diritto, si astengano dall’amministrare, affidando la gestione agli altri (eventualità che si è verificata nel caso di specie, ove è pacifico che E.E. abbia amministrato la società per dieci anni) è espressamente contemplata dall’art. 2261 cod. civ. che, in tale evenienza, ribadisce che anche i soci non amministratori mantengono il diritto di ricevere da chi amministra tutte le informazioni inerenti allo svolgimento degli affari sociali, ivi compreso, ove tale esclusiva gestione duri più di un anno, il rendiconto analitico della gestione>>.

Regola esatta solo se il contraatto non distingue i ruoli; errata nel caso contrario.

Responsabiità degli amministratori non esecutivi e di quelli indipendenti

Cass. sez. II, sent. 05/06/2024  n.15.685, rel. Scarpa, in tema di opposizione a sanzioni Consob:

<<In primo luogo, a tutti i componenti del consiglio di amministrazione è attribuibile la predisposizione dei prospetti, approvati nelle riunioni del 29/9/2014 e del 31/12/2014. È pur vero che, all’esito delle stesse, fu delegato al presidente del consiglio di amministrazione e al direttore generale il compito di completare il documento in oggetto e/o di modificarlo e/o di integrarlo secondo necessità e/o opportunità. È anche vero, tuttavia, che, con il conferimento della delega, gli altri consiglieri non avrebbero potuto ritenersi esautorati da ogni doveroso intervento, restando a loro carico, quanto meno, il compito di vigilare e di informarsi sull’operato degli organi e funzionari delegati, al fine di assicurarsi che fosse dagli stessi portato a termine il compito affidato in maniera puntuale e corretta (in tal senso, cfr. Cass. Sez. 2, n. 2737/2013; Sez. 1, n. 17799/2014; Sez. 2, n. 18683/2014; Sez. 2 n. 5606/2019)>>.

Poi:

<< Quanto poi all’elemento soggettivo, la Corte d’appello ha fatto legittimo ricorso alla presunzione iuris tantum in ragione delle cariche societarie rivestite dai ricorrenti, le cui singole posizioni sono state analizzate nelle pagine 28 e segg. della sentenza impugnata, ed in assenza di dimostrazione della estraneità dei medesimi ai fatti o all’impossibilità di evitarli tramite un diligente espletamento dei compiti connessi alle rispettive cariche.

Invero, doveri di particolare pregnanza sorgono in capo al consiglio di amministrazione di una società bancaria, doveri che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi (fra le tante, Cass. n. 24851, n. 24081 e n. 16323 del 2019).

Le attività oggetto di causa avrebbero dovuto indurre gli amministratori, pure non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo. Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), [ok, solo che non dice quali siano stati i segnali percepibili ulteriori rispetto alle informazioni ex 2381 cc] e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto, il quale afferma la responsabilità, allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima od all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione, la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno.

Non costituisce dato di per sé decisivo nemmeno la circostanza, posta a fondamento di alcune censure, attinente alla qualità di “consiglieri indipendenti” rivestita in seno all’organo amministrativo. Anche, infatti, gli amministratori indipendenti sono comunque “amministratori”, dotati di tutte le prerogative e gravati dei doveri tipici di questo ufficio, muniti di una competenza generale sul governo della società, parimenti incaricati di funzioni di management, di direzione e anche di controllo interno, sicché la loro “indipendenza” non li rende per ciò solo estranei alle dinamiche gestionali. Anzi, gli amministratori indipendenti cumulano le tipiche attribuzioni gestorie stricto sensu alle precipue competenze di monitoraggio dell’attività degli esecutivi, al punto che il loro ruolo attivo essenziale attiene proprio alla verifica dell’operato degli altri amministratori e dei manager, per evitare che vengano commessi abusi da parte di chi esercita il potere all’interno della società ed assicurare che la medesima società persegua nello svolgimento della propria attività i principi di trasparenza e correttezza. Resta quindi confermata pure per gli “amministratori indipendenti” l’interpretazione giurisprudenziale in forza della quale “a fronte di una vicenda di assoluta rilevanza per la gestione della società” – quale un’offerta al pubblico finalizzata ad un aumento di capitale – sussiste “in capo all’intera compagine amministrativa il dovere di attivarsi, e perciò la connessa rilevanza della loro condotta omissiva nella causazione dell’illecito” (Cass. n. 18846 del 2018)>>.

Responsabilità penale dell’amministratore senza delega per fatti di bancarotta

Inusualmente riferisco di una sentenza penale per la sua importanza anche civilistica.

Si tratta di Cass. pen. sez. 5 n. 20153 del 12-04.2024 (data ud.), rel. Borrelli:

<< 4. Se il punto cruciale del ragionamento del Collegio della cautela e del ricorso del pubblico ministero è, dunque, la consapevolezza di Mo.Ca. circa il mendacio e se tale consapevolezza passa attraverso la verifica di quella dell’esistenza delle distrazioni taciute o dissimulate nei bilanci, allora un altro doveroso passaggio preliminare è quello di ricostruire, sia pur brevemente, gli approdi di questa Corte sul tema del versante soggettivo della responsabilità dell’amministratore senza delega, tale potendo ritenersi Mo.Ca. ancorché munito di delega per alcune attività, delega, tuttavia, non concernente l’ambito interessato dalle distrazioni.

A tale riguardo, può affermarsi che la giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e da cui non intende discostarsi – salvo qualche incertezza in tempi più risalenti, negli ultimi anni si è attestata su un’esegesi particolarmente rigorosa quanto alla responsabilità dell’amministratore senza delega e, in particolare, ai criteri in base ai quali ritenerlo consapevole e, quindi, responsabile di attività predatorie ai danni della società amministrata, commesse dall’amministratore munito di delega. Quello che oggi si richiede per ritenere dimostrato il dolo della distrazione in capo all’amministratore senza delega è che questi abbia “effettiva conoscenza” di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano semplicemente “conoscibili”[a differenza dal civile in cui basta l’indempimento, irrilevante essendo l’elemento soggettivo. Semmai  il prob. quando ricorra inadempimento, in presenza di questo o quel segnala di allarme]

In questo senso va innanzitutto ricordato il recente approdo di Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Benassi, Rv. 284175, secondo cui “in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega”. La pronunzia, in particolare, ha preso in esame la figura dell’amministratore senza delega alla luce della riforma del diritto societario, evidenziando come questi non abbia più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, ma, ai sensi dell’art. 2381, comma 6, cod. civ., un dovere di agire informato e di chiedere ragguagli al consiglio di amministrazione, dovere che si attualizza laddove vi sia la conoscenza o di fatti nocivi per la società oppure di indicatori di anomalie che riconducano ad attività nocive.

Tale pronunzia si pone sulla scia di altre decisioni che, per quanto di specifico interesse in questa sede, hanno sottolineato come la responsabilità dell’amministratore senza delega non possa prescindere dall’effettiva conoscenza dei fatti depauperativi o di segnali di allarme – inequivocabili – che ad essi riconducano e che siano stati volontariamente ignorati, scongiurando, così il rischio di un addebito del reato a titolo di colpa (per inettitudine, incapacità o imprudente fiducia nell’agire dell’organo delegato) o, addirittura, di responsabilità oggettiva da posizione (Sez. 1, n. 14783 del 09/03/2018, Lubrina e altri, Rv. 272614; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino e altri, Rv. 253765; Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E. Rv. 273925; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi e altri, Rv. 261938; Sez. 5 n. 21581 del 28/04/2009, Mare, Rv. 243889; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939, concernente proprio la bancarotta impropria da reato societario; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765)

Nella sentenza Tanzi, in particolare, oltre ad essere stato delineato il concetto di “segnale di allarme” – con la puntualizzazione che esso deve essere “conosciuto” e non meramente “conoscibile” e che deve essere eloquente della situazione critica sottesa – si è anche rimarcato il limite dello scrutinio di legittimità sulle valutazioni del Giudice di merito circa la responsabilità dell’amministratore senza delega in rapporto, appunto, alla conoscenza degli indicatori suddetti e al loro grado di significatività e di intellegibilità. “E’ dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o criteri di valutazione professionale, del pericolo dell’evento” – così la pronunzia in discorso – “che può desumersi la prova della ricorrenza della rappresentazione dell’evento da parte di chi è tenuto – per la posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento – ad uno specifico devoir d’alerte (che include in sé anche l’obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l’accadimento dannoso). La sentenza richiamata ha anche precisato che “questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione – in rapporto ai sintomo allarmante – deve esplicarsi in concreto, volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da adeguata giustificazione” >>.

La business judgment rule non copre le violazioni pubblicistiche (e quelle privatistiche?)

Cass. sez. I, ord. 25/03/2024 n. 8.069, rel. Nazzicone:

<<Merita appena di rimarcare, quanto ai confini della business judgement rule, che questa certamente non copre gli illeciti, tributari o no: trattandosi di regola non più invocabile in presenza di una valutazione di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (cfr. Cass. 6 febbraio 2023, n. 3552; Cass. 19 gennaio 2023, n. 1678; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37440; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718; Cass. 22 ottobre 2020, n. 23171; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), e, dunque, tantomeno in presenza di inequivoche violazioni di legge.

Certamente va confermato che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (per tutte, quanto al vecchio testo dell’art. 2392: Cass. n. 3652 del 1997, n. 3409 del 2013, n. 1783 del 2015).

Ma non è questo il caso nella vicenda concreta, in cui la corte d’appello ha ritenuto il ricorrente responsabile non per l’esito negativo dell’attività gestoria in sé considerata, ma per l’omesso versamento dell’i.v.a.: ciò vuol dire che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato è stato svolto non in rapporto alle scelte gestorie in quanto tali, ma all’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive che (non solo normalmente, ma) finanche in base alla regola di condotta già perpetrata in passato dall’organo amministrativo si sarebbero dovute osservare ex ante. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità dell’amministratore si ricollega alla violazione di doveri specifici, previsti dalla legge>>.

La SC pare riferirsi a violazioni pubblicistiche (nel caso sub iudice, tributarie) anche se usa termini lati. E l’inadempimento contrattuale, se conveniente, è censurabile o è coperto da b.j.r.? E’ censurabile, direi, non avendo dignità giuridica la tesi dell’inadempimeno efficiente (anche se il discorso è un poco complicato  dovendosi vedere le reali differenze pratiche tra il seguire o rigettare la tesi esposta).

Nella prima parte la Sc ribadisce noti arresti in tema di deterniazione del danno risarcibile a carico dell’amministratore.