Onere della prova della negligenza professionale dell’avvocato

Cass. sez. III, Ord. 05/06/2024, n. 15719, rel. Tatangelo, in un caso di asserita negligenza in una difesa penale:

<<1.1 Si premette che la sentenza impugnata è, in diritto, conforme al consolidato indirizzo di questa Corte (che il ricorso non offre ragioni idonee ad indurre a rimeditare), secondo il quale “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25112 del 24/10/2017, Rv. 646451-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8516 del 06/05/2020, Rv. 657777-01)>>.

Ragionamento applicato così al caso specifico:

<<1.2 Nella specie, l’attore e ricorrente A.A. imputa all’avvocato B.B., che lo ha difeso esclusivamente nel primo grado del giudizio penale, a titolo di negligenza professionale, di non avergli consigliato di comparire al processo per rendere le proprie dichiarazioni e fornire la propria versione dei fatti, nonché il mancato tempestivo deposito della lista dei testi e la mancata partecipazione personale all’udienza di discussione, in cui il difensore nominato si sarebbe fatto sostituire da una collega priva delle informazioni e degli strumenti necessari per poter approntare un’adeguata difesa: tali omissioni avrebbero determinato la sua condanna a sette anni di reclusione, sia a causa della mancata prospettazione di una versione dei fatti alternativa a quella indicata dalla vittima, ritenuta pienamente credibile, sia a causa della mancata escussione dei testi a difesa.

È, peraltro, pacifico che, a seguito del giudizio di appello, al quale l’imputato aveva avuto modo di partecipare (assistito da diverso difensore) ed all’esito del quale era stata confermata la condanna emessa in primo grado, la Corte di Cassazione penale ha annullato tale condanna e disposto la rinnovazione del dibattimento, che ha avuto quindi luogo, in sede di rinvio, anche con l’escussione dei testi della difesa. All’esito del giudizio di rinvio, l’attore è stato invero nuovamente condannato, sia pure ad una pena leggermente inferiore (sei anni e mezzo di reclusione, anziché sette).

1.3 Secondo la corte territoriale, la negligenza professionale del legale non può dirsi aver determinato il danno dedotto dall’attore, essendo mancata la prova che, se anche la prestazione professionale, nell’ambito del giudizio penale di primo grado, fosse stata regolarmente adempiuta dal convenuto, l’esito finale del relativo processo sarebbe stato più favorevole all’attore imputato, in base ad una valutazione prognostica fondata sul canone c.d. del “più probabile che non”.

In particolare, premesso che l’attore non aveva prodotto i verbali delle deposizioni dei testi escussi nel giudizio penale di rinvio, ha osservato – sulla base della sentenza emessa all’esito di tale ultimo giudizio – che erano state confermate le valutazioni, già operate dal giudice di primo grado, di piena credibilità della persona offesa dal reato, della sussistenza di molteplici elementi esterni di riscontro alle dichiarazioni di quest’ultima, nonché della mancata offerta di versioni alternative da parte dell’imputato, rimasto del tutto “silente” anche nel primo giudizio di appello penale, quando non era più difeso dal legale convenuto, ed erano state, di converso, ritenute inattendibili, benché non palesemente dolose, le testimonianze a difesa dell’imputato, in quanto “contrastanti tra loro” e prospettanti “un comportamento dell’imputato difficilmente plausibile”.

La corte territoriale ha precisato, altresì, che, benché fosse stato dato atto della difficoltà, da parte dei testimoni, di ricordare esattamente fatti avvenuti cinque anni prima, anche ad ammettere la versione sostenuta dallo stesso imputato e che i testi avrebbero dovuto confermare, secondo la quale egli la sera dei fatti si trovava in altro luogo, a casa di amici, ciò non avrebbe potuto costituire un alibi decisivo, perché la circostanza non era incompatibile con la possibilità che lo stesso avesse successivamente raggiunto il luogo dove si era consumato il delitto.

1.4 In definitiva, la corte d’appello, ha ritenuto non sussistere sufficiente prova che l’esito del processo penale sarebbe stato diverso, anche se il difensore dell’attore avesse svolto la sua prestazione in modo diligente (e fossero stati, quindi, sentiti in primo grado i testi in favore di quest’ultimo ed egli fosse comparso all’udienza, unitamente allo stesso difensore, che si era invece fatto sostituire).

Tale accertamento di fatto è sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

1.5 Tanto premesso, in primo luogo le censure di violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., con le quali si deduce “inadeguata valutazione della negligenza professionale e della colpa grave del difensore con riferimento al mandato ricevuto” sono palesemente inammissibili, in quanto la corte d’appello non ha affatto escluso la condotta inadempiente del convenuto sotto tale profilo: al contrario, ha ammesso l’inadempimento dell’avvocato B.B. alle obbligazioni derivanti dal rapporto professionale instaurato con l’attore, rigettando la domanda risarcitoria di quest’ultimo esclusivamente per l’insufficiente prova del nesso di causa tra l’inadempimento ed il danno dedotto come conseguenza dello stesso.

1.6 Le ulteriori censure, con le quali si contesta l’insufficienza della motivazione in ordine alla mancanza di adeguata prova del nesso causale tra la condotta colposa del professionista ed il danno dedotto, si risolvono, nella sostanza, in una inammissibile contestazione di un accertamento di fatto, fondato sulla prudente valutazione delle prove e sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come già visto, nonché nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle stesse prove, il che non è consentito nel giudizio di legittimità.

1.7 Per completezza di esposizione, può aggiungersi che risultano del tutto inconferenti, anzi appaiono addirittura per certi versi contraddittorie, anche le argomentazioni contenute nel motivo di ricorso in esame, con riguardo alla strategia processuale adottata dal professionista convenuto e, in particolare, quelle relative alla mancata opzione per eventuali riti alternativi, che avrebbero potuto comportare una riduzione di pena: come del resto sottolineato dalla corte d’appello, oltre a trattarsi di una questione sollevata inammissibilmente dall’attore per la prima volta nel giudizio di secondo grado, le censure, sul punto, risultano del tutto incompatibili, sul piano logico, con la prospettazione difensiva dello stesso attore, fondata sulla dedotta possibilità di dimostrare la propria totale estraneità ai fatti che gli erano imputati, sulla base delle testimonianze a conferma del dedotto alibi, il che evidentemente non avrebbe potuto avvenire in caso di scelta di uno dei richiamati riti alternativi.

1.8 Altrettanto è a dirsi in relazione alle questioni sulla dedotta “perdita di chance”: sul punto è sufficiente osservare che, come rilevato dalla corte d’appello, l’imputato ha, comunque, avuto la possibilità, nel corso del giudizio penale, sia di essere sentito in dibattimento e di fornire la propria versione dei fatti, sia di far escutere i testi a discarico, a sostegno del proprio alibi.

È stato però escluso in radice – in base ad un accertamento di fatto non contestabile nella presente sede, come già visto – che, se anche ciò fosse avvenuto tempestivamente, nel corso del giudizio di primo grado, vi sarebbe stata una ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito del processo penale (anche solo con riguardo alla commisurazione della pena finale)>>.

Sulla responsabilità professionale dell’avvocato

Cass. sez. 3 del 14.11.2022 n° 33.442, rel. Condello P.A.P. sull’oggetto.

Si trattava di omessa notifica della opposizione a decreto oingijsntivo, dimenticata dal legale, che però eccepiva la presenza di clauslla arbitrale.

Non ci sono affermazioni nuove ma una piana applicaizone delle regole generali in tema di inadempimento.

<< 6.1. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra le tante, Cass., sez. 3, 14/10/2019, n. 25778), il professionista non può garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, per cui il danno derivante da eventuali sue omissioni, in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito.

Ciò comporta che il cliente non può limitarsi a dimostrare la condotta asseritamente colpevole, dovendo dare la prova che, in assenza di quella condotta, si sarebbe probabilmente verificato un esito diverso e favorevole della lite (Cass., sez. 3, 10/11/2016, n. 22882; Cass., sez. 3, 16/05/2017, n. 12038). La responsabilità del prestatore d’opera intellettuale nei confronti del proprio cliente presuppone, quindi, la prova del danno e del nesso causale tra il fatto omesso, conseguente alla negligente condotta del professionista, ed il pregiudizio del cliente.

In particolare, nel caso di attività dell’avvocato, l’affermazione di responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita. Sul punto, va, quindi, ribadito che “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa” (Cass. sez. 3, 24/10/2017, n. 25112; Cass., sez. 3, 20/11/2020, n. 26516; Cass., sez. 2, 12/03/2021, n. 7064)>>.

Ne segue che <<La responsabilità dell’avvocato non può, quindi, affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove il professionista avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, dovendosi altrimenti ritenere che tale responsabilità difetti.>>

Applicando quanto sopra al caso concreto:

<< 6.2. La sentenza impugnata non ha affatto disatteso tali principi, avendo affermato che l’avvocato non contestava l’omissione addebitata (consistente nella mancata tempestiva notifica dell’opposizione a decreto ingiuntivo), ma che, “sulla scorta delle produzioni agli atti” e stante l’inammissibilità delle prove orali dedotte dal cliente, in quanto inidonee a provare l’assunto difensivo, “non poteva dirsi provato il buon diritto del Condominio”.

Il Tribunale ha, quindi ritenuto, all’esito dell’esame del materiale probatorio offerto dal Condominio, che non fosse “possibile fare una valutazione prognostica circa il probabile esito dell’azione giudiziale non intrapresa”, in tal modo escludendo che il Condominio potesse ragionevolmente attendere il risultato positivo dalla controversia giudiziale che il professionista avrebbe dovuto incardinare. Così motivando, il giudice del merito ha escluso che l’avvocato avesse a sua disposizione il materiale probatorio necessario per far ascrivere all’impresa appaltatrice la responsabilità dei vizi denunciati dal Condominio, concludendo che non era stata raggiunta la prova che l’esito favorevole della controversia, nell’ipotesi di condotta adempiente dell’avvocato, risultasse “più probabile che non”.

6.3. Con le doglianze in esame il ricorrente contesta, in realtà, la valutazione delle prove operate dal Tribunale, ma in tal modo introduce inammissibili questioni di merito, considerato che mentre l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, risulta, per converso, del tutto consolidato il principio per cui l’accertamento che senza la condotta omissiva contestata l’esito favorevole della lite auspicato dal cliente sarebbe stato conseguito costituisce indagine riservata al giudice di merito, come tale non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata e scevra da vizi logici e giuridici (Cass., sez. 2, 27/03/2006, n. 6967; Cass., sez. 3, 14/12/2010, n. 25234).>>

Responsabilità professionale dell’avvocato

Il Tribunale di Vicenza con sent. 05.02.2021 n. 302/2021, RG n. 1993/2018, decide con interessante sentenza una lite tra clienti e avvocato (notizia e link alla sentenza da  www.ilcaso.it ).

L’addebito (a parte altri meno interessanti) era  quello di aver lasciato decorrere il termine lungo per l’appello dopo una setneza sfavorevole: la quale aveva rigettato la domanda di nullità di un mutuo fondiario, perchè utilizzato a fini di solo interesse della banca e quindi in violazione della normativa del TUB.

Il T. prima ricorda la disciplina e giurisprudenza in tema di inadempimento e responsabilità professionale: spt. <<per quanto concerne il profilo dell’accertamento della causalità ai fini dell’affermazione della responsabilità professionale del difensore, la Suprema Corte ha chiarito a più riprese che in materia vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, destinata a trovare applicazione in luogo del più stringente principio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio” che regola, invece, la responsabilità penale>>, p. 9.

Quindi per il T. <<l’errore professionale in cui è incorso l’avv. …. per non avere tempestivamente comunicato agli attori l’avvenuto deposito della sentenza del Tribunale di Vicenza n. 163/2017 (doc. 3 fascicolo attoreo) emerge indiscutibilmente dagli atti di causa>>.

Tuttavia, nonostante l’acclarata inadempienza del difensore, nessun risarcimento <<può essere riconosciuto in capo a PALMIERI ANTONIO e MURARO CARMELA, difettando la dimostrazione dell’effettiva esistenza di un danno eziologicamente ricollegabile all’errore professionale in cui è incorso l’avv. MAI.
Ed, infatti, come si è in precedenza evidenziato, ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’avvocato non basta che il cliente fornisca la prova del negligente adempimento dell’incarico conferito, occorrendo, altresì, la dimostrazione che, senza l’inadempimento, il risultato sarebbe stato almeno con elevata probabilità conseguito.     Nel caso di specie gli attori hanno trascurato di fornire gli elementi alla cui stregua condurre quel giudizio controfattuale che solo consentirebbe di accertare, in chiave prospettica, la relazione causale tra l’inadempimento e la perdita di un risultato probabile, e non meramente sperato>>.

In pratica, non hanno dimostrato che la sentenza avrebbe avuto buone possibilità di essere riformata , ad es .per l’esistenza di autorevoli voci contrarie alla tesi da essa seguita.

Ottimo caso di scuola sulla distinzione tra inadempimento e responsabilità.

La cosa più interessante è che il T., per la stessa ragione, riconosce all’avvocato convenuto il diritto al compenso, da lui chiesto in riconvenzionale: se il cliente non  prova un danno, il mero inadempimento non lo esonera dal pagamento del compenso.

Per sottrarsi al pagamento del compenso, si sarebbe potuto esplorare la via della risoluzione del contratto (poteva già considerarsi cessato il rapporto?) o della eccezione di inadempimento. Ma in sentenza non ve ne è menzione, per cui gli attori probabilmente non le avevano invocate.