La fideiussione passa in capo alla società conferitaria ex art. 2558 cc

Il Trib. aveva deciso che la fideiussione non era circolata ex art. 2558 cc (da conferimento societario) perchè non era un contratto ma negozio unilaterale.

Riforma in appello perchè non era inquadrabile tra i contratti esclusi dal medesimo articolo.

Ricorso di legittimità respinto da Cass. sez. 3 ord. 15.01.2024 n. 1453, rel. Moscarini:

<<la Corte di merito ha correttamente ritenuto che il conferimento dell’impresa individuale [noi: azienda, non impresa!!!] in una società di capitali dà luogo ad un fenomeno traslativo che soggiace alla disciplina dell’art. 2558 c.c., con conseguente subentro ope legis della società di capitali in tutti i rapporti attivi e passivi dell’impresa ceduta; a tale stregua, anche alla luce della pronuncia Cass., n. 5495 del 2001, cui questo Collegio intende dare continuità, e che ha ad oggetto fattispecie del tutto sovrapponibile a quella in esame, va ribadito che la fideiussione è un contratto d’impresa essendo diretta a garantire gli obblighi derivanti dai rapporti commerciali tra la società garantita e l’impresa cui è subentrata la società, avendo quest’ultima certamente interesse ad avvalersi della garanzia fideiussoria a fronte dell’inadempimento della società garantita; la Corte d’Appello ha altresì precisato che, “posto il conferimento omnicomprensivo della ditta individuale nella società appellante  e quindi l’insussistenza di alcun patto derogatorio inerente alla fideiussione, l’opponente non ha mai dedotto la natura personale del contratto, integrante se del caso la seconda ipotesi eccettuativa dell’art. 2558 c.c., limitandosi a chiederne l’accertamento dell’avvenuta estinzione per essere stata la fideiussione prestata solo nei confrontidella ditta individuale.    Né il Gulino ha mai sostenuto la natura personale del contratto né ha mai esercitato il recesso dal contratto di fideiussione successivamente al conferimento della ditta garantita nella società per azioni mantenendo inalterati i rapporti commerciali con la Strano SpA per ben dieci anni senza mai manifestare la volontà di recedere; le richiamate rationes decidendi non sono idoneamente censurate in quanto la ricorrente si limita a basare la propria tesi difensiva sulla non applicabilità dell’art. 2558 c.c. alla fideiussioneperché contratto con obbligazioni a carico del solo proponente; é vero che l’art. 2558 c.c. deroga al 1406 c.c. che riguarda i contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite ma, in quanto norma derogatoria ad un principio generale, essa è di stretta interpretazionee quindi non contemplando un’espressa limitazione ai contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite, ma prevedendo quali uniche eccezioni i contratti intuitu personae e i contratti in relazione ai quali il terzo contraente non abbia esercitato il recesso entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, non si può escludere che la fideiussione sia tra i contratti d’impresa in riferimento ai quali opera la successione prevista dall’art. 2558 c.c. in ragione della mera struttura della fideiussione, quale contratto con obbligazioni a carico del solo proponente>>.

Pronuncia sciatta per più motivi: i) confonde impresa con azienda; ii) non esamina il caso di fideiussione sorta da negozio unilaterale, invece che da contratto con obbligazioni a carico del proponente; iii) comunque non va ad esaminare la fideiussine sub iudice; iv) non comanda (come avrebbe dovuto), limitandosi invece ad avanzare ipotesi (<non si può escludere che…>); v) non dà conto del dettato normativo che parla solo di <contratti>, tra i quali nonn rientra il negozio unilaterale (v. sopra sub ii); vi) ragiona in modo oscuro sull’art. 1263 cc (“accessori del credito”).

Il fideiussore che ha pagato un debito dell’alienante d’azienda può agire in surroga anche verso l’acquirente della stessa ex art. 2560 c. 2 c.c.

Interessanti precisazioni in Cass. sez.  I 05/07/2023 n.19.041, rel. Nazzicone sul non sempre cristallinamente chiaro concetto di surroga:

<<3. – Con il terzo motivo, si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2467 c.c. e art. 2560 c.c., comma 2, perché il cessionario di azienda, secondo tale ultima disposizione, assume una posizione di garanzia aggiuntiva, a fini di rafforzamento della tutela per i creditori, ma la cessione d’azienda non opera una modificazione del lato passivo del rapporto: pertanto, il fideiussore, che abbia pagato un debito aziendale sorto in capo al soggetto alienante, non ha diritto di regresso o di surroga se non contro questi, mentre il suo pagamento avrà, nei confronti del cessionario dell’azienda, semplicemente l’effetto di liberarlo da quell’obbligo di garanzia, ma non gli darà diritto di ripetere quanto versato.

Il motivo è infondato.

Dispone l’art. 2560 c.c., circa i “Debiti relativi all’azienda ceduta”, che l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, anteriori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito (comma 1); risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori (comma 2).

Pertanto, deve trattarsi di debiti che siano “inerenti all’esercizio dell’azienda”, pure nel caso di cui al comma 2, che prevede l’escutibilità dell’acquirente. Ma, se tale requisito è soddisfatto, il debito passa proprio in capo all’acquirente, principale obbligato; la liberazione dell’alienante, invece, non avviene e ciò per disposto di legge, a maggiore garanzia dei creditori.

Nel caso di fideiussione, rilasciata da un terzo a favore del creditore del soggetto che l’azienda abbia, in seguito, alienato, certamente non si trasmette sul piano soggettivo il negozio fideiussorio, dalla giurisprudenza di questa Corte ricostruito come negozio (di regola) intercorrente tra fideiussore e creditore, cui il debitore sul piano della conclusione del negozio resta, invece, estraneo (Cass. 30 giugno 2014, n. 14772, in motiv.). Pertanto, nel caso di cessione d’azienda, è certo che non subisce mutamenti soggettivi il negozio fideiussorio, ex art. 2558 c.c..

Occorre invece, nel caso di specie, stabilire se risponda – in quanto “debito inerente all’esercizio dell’azienda” e sempreché “risult(i) dai libri contabili obbligatori” – l’acquirente dell’azienda, in virtù del disposto dell’art. 2560 c.c., comma 2, per il debito esistente non direttamente verso il creditore originario (nella specie, la banca in forza di contratto di conto corrente bancario), ma derivante dall’esercizio dell’azione di surrogazione ex art. 1949 c.c. da parte del fideiussore, che quel debito abbia pagato.

Con riguardo alla surrogazione, questa Corte (cfr. Cass. 30 giugno 2014, n. 14772, in motiv.) ha già osservato che essa realizza una variazione soggettiva del rapporto obbligatorio, in quanto l’adempimento del terzo non estingue l’obbligazione in senso oggettivo, ma piuttosto tacita la pretesa del creditore, senza liberare il debitore.

Si opera, quindi, una variazione dal lato attivo del rapporto obbligatorio e si mira ad agevolare la soddisfazione del soggetto attivo del rapporto stesso, consentendo a colui che paga di succedere nello stesso diritto di cui era titolare l’accipiens.

Nella specie, mentre i ricorrenti riferiscono di un’azione proposta nel ricorso monitorio dal fideiussore ai sensi di entrambe le disposizioni degli artt. 1949 e 1950 c.c., la sentenza in questa sede impugnata afferma senz’altro che il fideiussore si è surrogato ex art. 1203 c.c. nei diritti del creditore (la banca) (v. p. 3 della sentenza): onde si tratta dello stesso diritto di questa, esercitato dal fideiussore in via surrogatoria, a fronte del medesimo debito inerente l’azienda, di cui risponde proprio il cessionario, a norma dell’art. 2560, comma 2, c.c.

Una volta eseguito il pagamento, spetta al fideiussore, dunque, il diritto di surrogazione, ai sensi dell’art. 1203 c.c. e della disposizione speciale dell’art. 1949 c.c.: diritto in cui egli subentra in luogo del creditore.

Pertanto, come la banca creditrice avrebbe potuto agire per il pagamento del dovuto sia verso la diretta cliente, alienante l’azienda, sia verso la cessionaria di questa, del pari la posizione giuridica attiva, in virtù del subentro per effetto dell’azione di surrogazione ad opera del fideiussore che abbia pagato, è esercitabile da lui nei confronti di entrambe le parti, a tutela della medesima posizione creditoria. La soluzione raggiunta dalla sentenza impugnata, e’, in definitiva, corretta>>.

Nullità della fideiussione riproducente clausole ABI concorrenzialmente illecite

Le sezioni unite hanno appianato la questione della nullità delle fideiussioni riproducenti clausole, predisposte da ABI, violanti della disciplina antitruist.

Si tratta di Cass. s.un. 30.12.2021 n. 41.994, rel. Valitutti.

La sez. sempl. ha rimesso alle ss.uu. come questioni di particolare importanza: <<1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell’intesa a monte – dichiarata nulla dall’organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità delle clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno; 2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all’azione di nullità, sotto il profilo della tipologia del vizio e della legittimazione a farlo valere; 3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione; 4) se l’indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l’esclusione di un mutamento dell’assetto d’interessi derivante dal contratto.>>

Che ricorra nullità, non dovrebbe essere in discuissione, anche se alcuni aa. lo hanno sostenuto. L’efficacia della disciplina verrebbe meno se dipendesse solo dal rimedio del risarcimento del danno: serve tutela reale (che una parte fosse o meno parte della iniziael intesa vietata)

Così le SU: <<2.13. Va rilevato, invero, che la tesi secondo cui al consumatore sarebbe consentita la sola azione risarcitoria non convince, sia perché contraria a pressoché tutti i precedenti di questa Corte successivi alle Sezioni Unite n. 2207/2005, sia – e soprattutto – per ragioni inerenti alle specifiche finalità della normativa antitrust. Tuttavia, tale affermazione si riferisce – è bene ribadirlo – alla tesi più radicale, che esclude del tutto la tutela reale, ammettendo in via esclusiva quella risarcitoria, non potendo revocarsi in dubbio che come, nella specie, ha correttamente ritenuto la Corte d’appello tale forma di tutela è certamente ammissibile – come ha affermato la giurisprudenza unanime sul punto – ma non in via esclusiva, sebbene in uno all’azione di nullità.

2.13.1. Deve – per vero – osservarsi, al riguardo, che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto. Ed invero come rilevato da autorevole dottrina – l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno – come nella specie – recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno.

2.13.2. Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust.>>

Meno semplice è sciogliere il dubbio su parzialità/ totalità della nullità.

Le SU propendono per la prima alternativa: <<2.15.1. Va osservato – al riguardo – che la regola dell’art. 1419 c.c., comma 1 – ignota al codice del 1865, come pure al code civil, provenendo dall’esperienza tedesca – insieme agli analoghi principi rinvenibili negli artt. 1420 e 1424 c.c., enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell’ordinamento per la “conservazione”, in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale. Da ciò si fa derivare il carattere eccezionale dell’estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all’intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto.

2.15.2. La giurisprudenza ha osservato – in proposito – che la nullità della singola clausola contrattuale – o di alcune soltanto delle clausole del negozio – comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio “utile per inutile non vitiatur”, la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dalle stesse perseguito (Cass., 10/11/2014, n. 23950). La nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende, pertanto, all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità (Cass., 05/02/2016, n. 2314).

Agli effetti dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c., vige, infatti, la regola secondo cui la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina negoziale, se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto accertato dal giudice. Per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce eccezione che deve essere provata dalla parte interessata (Cass. 21/05/2007, n. 11673).

2.15.3. E tuttavia, tale ultima evenienza è di ben difficile riscontro nel caso in esame. Ed invero, avuto riguardo alla posizione del garante, la riproduzione nelle fideiussioni delle clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI ha certamente prodotto l’effetto di rendere la disciplina più gravosa per il medesimo, imponendogli maggiori obblighi senza riconoscergli alcun corrispondente diritto; sicché la loro eliminazione ne alleggerirebbe la posizione. D’altro canto, però, il fideiussore (nel caso di specie socio della società debitrice principale) – salvo la rigorosa allegazione e prova del contrario – avrebbe in ogni caso prestato la garanzia, anche senza le clausole predette, essendo una persona legata al debitore principale e, quindi, portatrice di un interesse economico al finanziamento bancario. Osserva – al riguardo – il provvedimento n. 55/2005 che il fideiussore è normalmente cointeressato, in qualità di socio d’affari o di parente del debitore, alla concessione del finanziamento a favore di quest’ultimo e, quindi, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia.

Al contempo, è del tutto evidente che anche l’imprenditore bancario ha interesse al mantenimento della garanzia, anche espunte le suddette clausole a lui favorevoli, attesa che l’alternativa sarebbe quella dell’assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti [questo è il punto decisivo e sarebbe stato necessario approfondirlo:  è da vedere se il giudizio sia sempre corretto, potendo la banca anche astrattamente rifiutarsi di erogare il finanziamento senza le clausole sub iudice, scenario non considerato dalle S.U:. Comunque valutazione da fare in modo oggettivo, id est secondo l’operatore bancario medio e non secondo l’approccio idiosincatrico di quello specifico in lite, che potrebbe avere avuto una volontà opposta]

2.15.4. La nullità dell’intesa a monte determina, dunque, la “nullità derivata” del contratto di fideiussione a valle, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema ABI, dichiarati nulli dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 (nn. 2, 6 e 8) che, peraltro, ha espressamente fatto salve le altre clausole.>>

Circa l’estensione a valle e pure a negozi tra soggetti che non erano parti della iniziale intesa vietata, così motiva: << 2.16. Occorre muovere – in tale prospettiva – dal rilievo che la disciplina dettata dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a), ha per oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito – come si è detto – dall’art. 41 Cost., nonché, in ambito comunitario, dal Trattato di Maastricht del 1992 e – attualmente – dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (artt. 3 e 101). Ai sensi di tale normativa antitrust, qualsiasi fattispecie distorsiva della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, anche – come nel caso di specie mediante una combinazione di atti di natura diversa, costituisce comportamento rilevante ai fini del riscontro della violazione della normativa in parola. In altri termini, il legislatore sia comunitario che nazionale – quest’ultimo adeguatosi al primo, in forza del disposto dell’art. 117 Cost., comma 1 – ha inteso impedire un “risultato economico”, ossia l’alterazione del libero gioco della concorrenza, a favore di tutti i soggetti del mercato ed in qualsiasi forma l’intesa anticoncorrenziale venga posta in essere.

2.16.1. Per tale ragione, i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust – in quanto costituenti “lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti” (Cass. Sez. U., n. 2207/2005) – partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi. Il legislatore nazionale ed Europeo – infatti – intendendo sanzionare con la nullità un “risultato economico”, ossia il fatto stesso della distorsione della concorrenza, ha dato rilievo – anche a comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”.

In tale prospettiva, si rende perciò rilevante qualsiasi forma di condotta di mercato, anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, ed anche laddove il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue – come ha rilevato da tempo la giurisprudenza di questa Corte – che, allorché la L. n. 287 del 1990, art. 2, stabilisce la nullità’ delle “intese”, “non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza” (Cass., n. 827/1999).

Il che equivale a dire che anche la combinazione di più atti, sia pure di natura diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un “collegamento funzionale” – non certo un “collegamento negoziale”, come opina parte della dottrina, attesa la vista possibilità che l'”intesa” a monte possa essere posta in essere, come nella specie, anche mediante atti che non rivestono siffatta natura – tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed Eurounitaria antitrust. In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti “funzionale” a produrre un effetto anticoncorrenziale.

2.16.2. La funzionalità in parola si riscontra con evidenza quando il contratto a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo dell'”intesa” a monte, dichiarata nulla dall’autorità amministrativa di vigilanza, ossia quando l’atto negoziale sia di per sé stesso un mezzo per violare la normativa antitrust, ovvero quando riproduca – come nel caso concreto – solo una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa anticoncorrenziale. Non è certo la deroga isolata – nei singoli contratti tra una banca ed un cliente – all’archetipo codicistico della fideiussione, ed in particolare agli artt. 1939,1941 e 1957 c.c., a poter, invero, determinare problemi di sorta, come è ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in termini di effetto anticoncorrenziale.

E’, invece, il predetto “nesso funzionale” tra l'”intesa” a monte ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che – in violazione dell’art. 1322 c.c. – riproduca quello del primo, dichiarato nullo dall’autorità di vigilanza, a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dall’ordinamento. In siffatta ipotesi, la nullità dell’atto a monte è – per vero – veicolata nell’atto a valle per effetto della riproduzione in esso del contenuto del primo atto.

2.16.3. E ciò è tanto più evidente quando – come nella specie le menzionate deroghe all’archetipo codicistico vengano reiteratamente proposte in più contratti, così determinando un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili sul mercato. La serialità della riproduzione dello schema adottato a monte – nel caso concreto dall’ABI – viene, difatti, a connotare negativamente la condotta degli istituti di credito, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.

2.16.4. Sotto tale profilo, è del tutto palese che la previsione di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 3, laddove stabilisce che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”, costituisce una chiara applicazione del diritto Eurounitario, il quale come statuito dalla citata giurisprudenza Europea – afferma che la nullità (sancita, dapprima dall’art. 85, n. 2 del Trattato di Roma, dipoi dall’art. 81 del Trattato CE, infine dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) è assoluta, e che l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e “non può essere opposto ai terzi”. Si tratta, invero, proprio di quella nullità “ad ogni effetto” che sancisce la norma nazionale succitata, e che si riverbera sui contratti stipulati a valle dell’intesa vietata anche con soggetti terzi, estranei all’atto a monte, ma ai quali tale atto non è comunque opponibile.>>

Sulla parzialità , invece, così ragiona: <<2.18. E tuttavia, nei casi – come quello oggetto del presente giudizio – in cui dello schema dichiarato nullo dalla Banca d’Italia, vengano riprodotte solo le tre clausole succitate, il menzionato “principio di conservazione” degli atti negoziali, costituente nell’ordinamento la “regola”, impone di considerare nulli i contratti di fideiussione a valle solo limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito a monte, poiché adottato in violazione della normativa – nazionale ed Eurounitaria – antitrust, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle partì, nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi divisato – della parte del contratto colpita da nullità.

2.18.1. Va, per contro, esclusa – per diversi ordini di ragioni – la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili della inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) -, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust di cui alla L. n. 287 del 1990 e dall’art. 101 del Trattato succitato ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione.

E’ di tutta evidenza, infatti, che – stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza – i contratti a valle sono integralmente nulli – come rilevato da autorevole dottrina – esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle. Quest’ultimo e’, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell’intesa a monte dichiarate nulle dall’organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere – in concreto – una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece – come nel caso concreto ha affermato il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005 pienamente valide.

2.18.2. Le clausole del contratto di fideiussione a valle che riproducano quelle nulle dell’intesa a monte (nn. 2, 6 e 8) vengono, invero, a recepire – nel contenuto del negozio – le determinazioni di un’associazione di imprese, l’ABI, che – in quanto costituiscono elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate – possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti, falsando – il tal guisa – il gioco della libera concorrenza. Ed è per questo che, esclusivamente sotto tale profilo, la Banca d’Italia ha osservato che “la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI”, e, di conseguenza, ha dichiarato la nullità dei soli articoli nn. 2, 6 e 8 dell’intesa a monte. Per converso, tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità, come ha stabilito la Banca d’Italia nel citato provvedimento, nel quale ha espressamente fatte salve tutte le altre clausole dell’intesa ABI.

2.18.3. La conclusione cui è pervenuto, nel caso di specie, l’organo di vigilanza, è – del resto – pienamente conforme a quanto la Corte di Giustizia ha da tempo affermato in materia. Fin da tempi non recenti, infatti, la Corte ha stabilito che la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente (Corte Giustizia, 30/06/1966, C- 56/65, LTM; Corte Giustizia, 01/09/2008, C- 279/06, CEPSA).

Di conseguenza, alla nullità parziale dell’accordo o della deliberazione a monte corrisponde – per le ragioni suesposte – la nullità parziale del contratto di fideiussione a valle che ne riproduca le previsioni colpite da tale forma di invalidità, e limitatamente alle clausole riproduttive di dette previsioni, salvo che la parte affetta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto “senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”, secondo quanto prevede – in piena conformità con le affermazioni della giurisprudenza Europea, riferite alla normativa comunitaria – il diritto nazionale (art. 1419 c.c., comma 1). E sempre che di tale essenzialità la parte interessata all’estensione della nullità fornisca adeguata dimostrazione. Evenienza, questa, di ben difficile riscontro nel caso di specie, per le ragioni in precedenza esposte.>>

Compensazione delle spese di lite  per novità e controvertibilità delle questioni.

Le fideiussioni omnibus nulle perchè frutto di intesa anticoncorrenziale

Trib. Milano 6 sez. civ., RG 17737/2018, sent. 8610/2021 del 22.10.2021, rel. F. Ferrari, afferma quanto in oggetto, proseguendo in un orientamento ormai “nutrito”.

Precisamente:

<< Al di là, infatti, delle minime differenze puramente sintattiche, significativo è il fatto che la fideiussione in esame ricalchi con assoluta fedeltà l’ordine delle clausole dello schema di riferimento.

La sostanziale corrispondenza dell’intero testo contrattuale con il modulo A.B.I., giustifica una solida presunzione che la garanzia predisposta dall’istituto di credito e sottoposta alla sottoscrizione da parte dell’opponente fosse stata modellata recependo in chiave monolitica lo schema di categoria, in quanto concordato nell’interesse del sistema bancario, con esclusione di possibili differenti pattuizioni ad opera delle parti.

In sostanza, quindi, la piena coincidenza della garanzia con il modello proposto dalla associazione di categoria degli istituti di credito, senza che fosse dato spazio ad alcuna forma di personalizzazione, costituisce l’indizio più solido di una volontà del predisponente di uniformare la disciplina contrattuale delle fideiussioni omnibus nei termini più vantaggiosi per il sistema creditizio, escludendo qualsiasi differente disciplina sul mercato del credito, ossia proprio l’intento distorsivo della concorrenza che la Banca d’Italia ha riscontrato e sanzionato con riferimento alle tre clausole ritenute apportatrici di ingiustificati aprioristici vantaggi per le banche, a detrimento del regolare funzionamento del marcato.

Sotto il profilo propriamente temporale, inoltre, va osservato come le clausole incriminate fossero state già inserite nello schema contrattuale proposto dall’A.B.I. nel 1987 e che le stesse erano state riproposte immutate nel 2003, per poi essere vagliate e sanzionate dalla Banca d’Italia.Ed à proprio in ragione di tale “conferma” dello schema contrattuale che si comprende e si spiega quanto osservato nel 2005 dalla Banca d’Italia, là dove ha affermato che “secondo l’Autorità, l’istruttoria ha consentito di rilevare come il contenuto dello schema sia sostanzialmente riprodotto nei  contratti delle banche interpellate; l’ampia diffusione delle clausole oggetto di verifica non può essere ascritta a un fenomeno “spontaneo” del mercato, ma piuttosto agli effetti di un’intesa esistente tra le banche sul tema della contrattualistica”.    Avendo, infatti, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, investita dalla Banca d’Italia di un parere sullo schema contrattuale proposto e inviatole dall’A.B.I., riscontrato come le tre clausole ritenute illecite fossero sostanzialmente riprodotte nei contratti di garanzia predisposti dalle banche (parlando a tal fine di una ampia diffusione delle clausole non ascrivibile a un fenomeno “spontaneo”) e non potendo, ovviamente, effettuare tale verifica empirica in ragione della proposta sottoposta al vaglio della Banca d’Italia, non essendo ancora stata diffusa tra gli istituti di credito; ne consegue l’implicito riconoscimento della portata lesiva della concorrenza già dello schema contrattuale proposto dall’AB.I. nel 1987, limitatamente alle tre clausole poi reinserite in termini analoghi nello schema successivo poi sanzionato dalla Banca d’Italia.

Se così è, ne discende che tutte le considerazioni condotte e le presunzioni sopra richiamate non possono che essere estese alle fideiussioni antecedenti al 2005, nella parte in cui riproducevano le clausole contestate, così come vadano perpetrate per le fideiussioni rilasciate successivamente al 2005, là dove risultino adesive all’illecita intesa anticoncorrenziale, secondo quanto desumibile dalla sostanziale corrispondenza dell’intero testo contrattuale con lo schema a suo tempo esaminato dalla Banca d’Italia>>.

Circa l’estensione della nullità: <<Detto ciò, ritiene il Tribunale preferibile aderire all’orientamento che circoscrive la nullità alle sole clausole riconosciute come espressione dell’illecito accordo lesivo della concorrenza, senza che tale vizio si estenda all’intera garanzia, non rispondendo tale contagio al principio di conservazione degli atti, nei limiti in cui gli stessi siano rispondenti alla lecita volontà delle parti.>>

Il comando finale dunque è di solo accertamento di nullità delle clausole sub iudice, oltre che di condanna alle spese processuali

Nullità di fideiussione perchè in esecuzione di intesa vietata dalla legge antitrust

App. Milano 13.12.2021, n° 3580/2021, RG 857/2020, affronta il tema (in attesa delle Sezioni Unite, avendo Cass. ord. 30.04.2021 n. 11.486 rimesso al Primo Presidente allo scopo).

1) la nullità poer violazione di norma imperativa (divieto di intese restritive della concorenza, nella forma di contratti c.d. a valle , esecutivi dell’intesa vietata) è rilevabile di ufficio (con le conseguenze processuali).

2) la nullità non è integrale ma segue la disciplina dell’art. 1419 cc in tema di nulità parziale (è il punto più importante): << Una preziosa indicazione in tal senso, come è stato osservato a margine della rimessione dellaquestione alle Sezioni Unite, ci viene dallo stesso provvedimento della Banca d’Italia, in funzione diAutorità garante, che ha valutato lo schema ABI e che ha considerato illecite soltanto le tre clausole dicui sopra, confermando la piena validità, per il resto, del modello.  Secondo il provvedimento dell’Autorità garante, le tre clausole considerate anticoncorrenziali non risultavano funzionali e necessarie (quindi essenziali) per consentire l’accesso al credito bancario,mirando esclusivamente a scaricare in modo ingiustificato sul fidejussore le conseguenza negativederivanti dall’inosservanza di obblighi di diligenza della banca, ovvero dalla invalidità o dallainefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa.Peraltro, che la essenzialità delle clausole in commento non sia fondatamente predicabile, emergeall’evidenza dal fatto che:- da un lato, avuto riguardo alla posizione dei garanti, la riproduzione nelle fidejussioni delleclausole 2,6 e 8 dello schema ABI ha avuto l’effetto di rendere la disciplina contrattuale per essipiù gravosa, sicchè la loro eliminazione ne alleggerirebbe la posizione, con indubbi vantaggi aloro favore; né può fondatamente ritenersi – salvo la rigorosa allegazione e prova del contrario -che i fidejussori non avrebbero prestato la garanzia senza le clausole predette e cioè acondizioni economiche per loro decisamente più favorevoli.- dall’altro lato, avuto riguardo alla posizione dell’istituto bancario, l’alternativa sarebbe stataquella dell’assenza completa di fidejussione: il che depone, semmai, nel senso che la banca nonavrebbe, prima ancora, concesso il fido o il finanziamento, in assenza di garanzie a tutela delproprio credito, ma non certo che avrebbe rinunciato alla garanzia se le condizioni fossero statepiù vantaggiose per i garanti>>, p. 17.

3) sulla decadenza ex art. 1957 cc: << Secondo un orientamento giurisprudenziale già condiviso da questa Corte, ad evitare la decadenza exart. 1957 c.c., sarebbe sufficiente la previsione di una clausola “a prima richiesta”, atteso che,diversamente opinando, vi sarebbe una insanabile contraddizione tra le due clausole contrattuali, nonpotendosi considerare “a prima richiesta” l’adempimento subordinato all’esercizio di un’azionegiudiziale.La S.C. ha avuto, però, modo di prendere posizione sul punto, osservando che la presenza di unaclausola c.d. a prima richiesta, in concorrenza con la previsione di cui all’art. 1957 c.c. (la cuireviviscenza è la naturale conseguenza della nullità del patto di deroga), determinerebbe non giàl’elusione del termine semestrale per agire nei confronti del debitore, ma solo il venir menodell’obbligo di esperire un’azione giudiziale in quel termine, essendo sufficiente, per evitare ladecadenza, anche una mera iniziativa stragiudiziale: “L’eventuale rinvio pattizio alla previsione dellaclausola di decadenza di cui all’art. 1957 comma 1 c.c. deve intendersi riferito esclusivamente altermine semestrale indicato dalla predetta disposizione; peraltro, deve ritenersi sufficiente ad evitarela decadenza la semplice proposizione di una richiesta stragiudiziale di pagamento, non essendonecessario che il termine sia osservato mediante la proposizione di una domanda giudiziale” (Cass. n.22346/2017).L’argomento è stato, poi, ulteriormente sviluppato in una recente sentenza (Cass. n. 5598/2020) che hastatuito come, ferma restando la “compatibilità” delle due previsioni sopra citate (id. est. clausola “aprima richiesta” e art. 1957 c.c.) “spetta al giudice di merito accertare la volontà in concretomanifestata dalle parti con la sua stipulazione”.>>, p. 18

(testo della sentenza fornito dall’avv. prof. Paolo Mondini su Linkedin)