Sono contrari al buon costume anche i finanziamenti ad impresa già decotta

Cassazione civile sez. I, ord. 19/02/2024 n. 4.376, rel. Amatore:

Premessa generale:

<<Occorre invero ricordare che, secondo la giurisprudenza incontrastata espressa da questa Corte di legittimità, la disciplina unitaria della condictio indebiti trova il suo completamento nella norma di cui all’art. 2035 cod. civ. la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una “condictio ob iniustam causam”, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 cod. civ. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (cfr. anche: Cass. 783/87; 2081/85; Cass. 4414/81, Cass. 1035/77)>>.

E sul punto specifico;

<<Da qui la valutazione di immoralità delle prestazioni eseguite dal ricorrente e la loro irripetibilità, sulla scorta proprio di un consolidato (e qui condiviso) indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità e puntualmente richiamato nel provvedimento del Tribunale.

È stato infatti affermato da questa Corte, in termini sovrapponibili alla fattispecie concreta in esame, che “ai fini dell’applicazione della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto” (così espressamente: Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 05/08/2020; v. anche: Sez. L, Sentenza n. 2014 del 26/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 9441 del 21/04/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5371 del 18/06/1987).   (…)

1.2.8 A ciò va aggiunto che, come risulta documentato nel giudizio di merito, nella fattispecie il finanziamento è stato effettuato in favore di una società già caratterizzata da grave ed irreversibile insolvenza, e non già da uno stato di mero squilibrio finanziario, come richiesto dall’art.2467, comma 2, cod. civ., con la conseguenza che i richiami al predetto dettato normativo da parte del ricorrente risultano completamente fuori fuoco.

1.2.9 Va ulteriormente precisato che nulla vieta – contrariamente a quanto invece opinato dal ricorrente – che un contratto giudicato illecito e, come tale, nullo ai sensi dell’art.1418 cod. civ., possa essere soggetto anche alla sanzione civilistica dell’irripetibilità sancita dall’art.2035 cod. civ., ove si ravvisino – proprio come accertato nella fattispecie in esame – prestazioni dettate da finalità per l’appunto immorali. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che un atto negoziale giudicato in contrasto con una norma imperativa o con l’ordine pubblico possa essere, al contempo, suscettibile di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume, proprio per gli effetti di cui al citato art. 2035 cod. civ., con la conseguenza che “chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume” (Cass. 9441/2010, 25631/2017). Si tratta infatti di indirizzo consolidato (Cass. s.u. 4414/1981, Cass. 5371/1987) che, inquadrando la disciplina unitaria della condictio indebiti, ne precisa il completamento con la norma di cui all’art. 2035 c.c., “la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causam, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente … che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative” (Cass. 5 agosto 2020 n. 16706; Cass. 6 dicembre 2019 n. 31883). Detto altrimenti, “la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume” (v. Cass. 3 aprile 2018 n. 8169; Cass. 27 ottobre 2017 n. 25631), con la conseguenza che detta prestazione non può essere suscettibile di ripetizione, imponendosi l’applicazione dell’art. 2035 cod. civ., secondo il noto brocardo per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis>>.

(notizia da ilcaso.it)

L’accertamento della macnanza delle condiuizoni ab initio per l’assegno di mantenimneto da seperazione fa nascere il credito alla restituzione da indebigto pagamento

Cass. sez. 1 del 14.11.2023 n. 31.635, rel. Pazzi:

<<Le Sezioni Unite di questa Corte, a questo proposito, hanno ritenuto che nel caso in cui si accerti nel corso del giudizio (all’interno della sentenza di primo o secondo grado) l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento dell’assegno di mantenimento separativo, ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica, opera la regola generale della condictio indebiti (cfr. Cass., Sez. U., 32914/2022, dove, al punto 8.3, si precisa che “ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati)…. non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità)”).

Nel caso di specie la stessa Corte d’appello ha registrato (a pag. 7) che il primo giudice aveva rilevato che “la S. non (aveva) fornito prova sufficiente della esistenza dei presupposti richiesti per avere diritto all’assegno in questione”.

Il riconoscimento dell’originaria insussistenza dei presupposti per il versamento del contributo di mantenimento già riconosciuto in sede presidenziale determinava, quindi, la piena ripetibilità delle somme versate a tale titolo, a prescindere dal fatto che la richiedente avesse agito con mala fede o colpa grave>>.

Erogazioni al convivente di fatto tra mutuo , liberalità indiretta e adempimento di obbligazione naturale

Dopo anni di convivenza e aver messo al mondo tre figli con lei, lui le chiede la restituzione di 170.000 euro ca. a titolo di rimborso di presunto mutuo.

Lei contesta che la ragione era invece stata l’indennizzo per una previa permanenza di lui nella casa di lei per anni e il suo dovere di mantimento dei figli.

Il Tribunale di Milano n° 4432/2023 del 29 maggio 2023, RG 16556/2021, g.u. Guantario, rigetta la domanda di lui perchè non provato il titolo azionato.

<<Come noto, “l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo
è tenuto, ex art. 2697, comma 1, c.c., a provare gli elementi
costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche
il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; ed
infatti l’esistenza di un contratto di mutuo non può desumersi dalla
mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo
avvenire per svariate ragioni, non vale, di per sé, a fondare una
richiesta di restituzione allorquando l'”accipiens” – ammessa la
ricezione – non confermi, altresì, il titolo posto dalla controparte
a fondamento della propria pretesa, ma ne contesti, anzi, la
legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il
fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del
convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma, ne
deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso
sostanziale e, come tale, determinare l’inversione dell’onere della
prova (tra le altre Cass.24328/2017)
Ebbene, nel caso di specie la convenuta negava che le somme ricevute
dall’attore le fossero state versate a titolo di prestito, sostenendo
che invece le erano corrisposte dal sig. Ranzani in adempimento di
doveri morali e sociali nei suoi confronti, anche per avere vissuto
per 7 anni nella casa di sua proprietà esclusiva di San Donato Milanese, senza versare alcunché; affermava inoltre che l’attore
aveva così contribuito al mantenimento dei tra figli della coppia e
dunque alle loro esigenze abitative, alimentari e di cura.
A fronte di tale contestazione, pertanto, il sig. Ranzani avrebbe
dovuto provare di avere concordato con la signora Delledonne la
restituzione degli importi versati e che pertanto la stessa avesse
assunto un obbligo in tal senso. Come chiarito dalla sentenza citata,
non incombeva invece su parte convenuta, la prova del diverso titolo
allegato.
Ciò posto, nessun documento veniva prodotto da parte attrice neppure
a dimostrazione di avere richiesto, prima della diffida del febbraio
2021 (doc. 2 di parte attrice) la restituzione di importi versati per
la maggior parte nel 2011 e comunque non oltre il 2014, così da
rendere implausibile che tre le parti fosse stato stipulato un
prestito.
Nemmeno i capitoli articolati, erano idonei a dimostrare che le somme
per cui è causa fossero state concesse a tale titolo. Al contrario lo
stesso attore allegava che, nonostante le raccomandazioni del proprio
legale, decideva di non formalizzare alcun accordo con la signora
Delledonne per riottenere, anche in caso di cessazione delle
convivenza, quanto versatole.
A ciò si aggiunga che, fermo restando quanto sopra detto in punto di
onere della prova, la qualificazione dei versamenti effettuati
dall’attore in favore della convenuta in termini di adempimento di
obbligazioni naturali e di contribuzione al ménage familiare è del
tutto conforme al principio secondo il quale le unioni di fatto,
quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la
famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono
rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di
natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti
dell’altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura
patrimoniale>>.

Non risulta azionata una  domanda restitutoria basata su donazione nulla per carenza di forma.

Resta da precisare che i doveri verso i figli, pur non nati da matrimonio, sono obbligo non naturale ma giuridico (art. 337 ter c.c.).

1) La petizione ereditaria non si applica al credito da conto corrente. 2) Unico legittimato all’azione di restituzione dell’indebito è il percettore diretto, non il terzo cui questi ne abbia trasferito una parte

Interessante (e frequente …) fattispecie concreta decisa da Cass. sez. 2, n° 19.936 del 21.06.2022, rel. Tedesco.

Muoino a breve distanza di tempo i due contitolari, coniugi, di un  conto bancario cointestato.

Il procuratore del secondo deceduto (moglie) ritira il saldo dal conto e ne traferisce metà ad un terzo.

Essendosi però  estinta la procura col decesso, il procuratore non aveva titolo : pertanto il vero erede esperisce azione nei suoi confronti e nei confronti del terzo beneficiario

La SC riforma la corte di appello laddove aveva applicato la petizioone di eredità (art. 534 cc) e nega che questa si applichi al credito da conto corrente.

Inoltre nega che il terzo beneficiario della metà del conto corrente abbia legittimazione passiva: .

Avendo natura di indebito, l’azione di restituzione delle somme illegittimamente prelevate dall’ex procuratore è strettamente personale, per cui solo quest’ultimo è legittimato passivo.    Del resto è proprio questa l’azione data al reale creditore verso il creditore apparente (art. 1189 c. 2 cc)

Principio di diritto: “L’art. 1189 c.c., in tema di pagamento al creditore apparente, è applicabile anche nell’ipotesi di pagamento delle somme depositate in conto corrente, effettuato dalla banca dopo la morte del correntista in favore di un soggetto non legittimato a riceverlo; conseguentemente l’azione accordata all’erede per la restituzione è quella disciplinata dall’art. 2033 c.c., che è esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento e non anc:he nei confronti di colui al quale la somma sia stata trasferita dall’accipens dopo che egli l’abbia indebitamente riscossa dalla banca debitrice

Non è però chiaro come possa dirsi che l’ex procuratore fosse creditore apparente e cioè <legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche>, se la perocura si estingue ex lege in caso di decesso (§ 5 sentenza di Cass.)! Tanto più che il debitore (banca) è un soggetto abituato a trattare questo tipo di vicende giuridiche e operatore professionale qualificato!

Irripetibilità del versato ex art. 2035 cc (contrarietà a buon costume) in sede fallimentare

Cass. 16706  del 5 agosto 2020, rel. Massimo Ferro, si pronuncia sulla irripetibilità del versamento eseguito in contrasto col buon costume in sede di operazioni imprenditoriali

Precisamente il versamento è contrario ad un buon costume non etico-morale generale, ma a quello economico: finanziamemto di impresa eseguito per tenerla in vita quando già sostganzialmente insolvente.

Vediamo i passa salienti della motivazione.

L’insinuante aveva chiesto l’ammissione al passivo per la restituizione di veramenti eseguiti come “anticipi in conto forniture”.

Il Tribunale ne aveva oppsto l’irripetibilità ex art. 2035 , eccependo la simulazione del titolo giuridico allegato: <<l’improprio mantenimento in vita della impresa è stato a sua volta correlato dal tribunale al contributo causale assunto dal citato finanziamento e alla relativa consapevolezza compartecipativa rispetto al ritardo nell’apertura della vicenda concorsuale ovvero all’intensificazione del dissesto … sorretto da una pluralità di indici (tra cui durata del finanziamento, progressività degli assetti negoziali perseguiti, inadempimenti, dissimulazione negoziale, insistenza del ricorso al credito privato piuttosto che a quello bancario, esposizione debitoria già nel bilancio 2009 con “utile ridottissimo” rispetto alle dimensioni d’impresa, perdita poi certificata nel bilancio 2010, assets e attivi privi di connotazioni di liquidità, scarsa competitività); ne è derivato l’accertamento … di una compartecipazione negli stessi fatti di bancarotta semplice tratteggiati alla L. Fall., art. 217, comma 1, n. 4, per i quali occorre aver “aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”>>, § 13.

Non è accolta la qualificazione come “concessione abusiva di credito” con i correlati limiti cui è in tale caso soggetta la legittimazione ad agire della curatela,. Infatti <posto che la illiceità della condotta di finanziamento discende, nella motivata ricostruzione del tribunale, non da siffatta figura bensì dalla coincidenza con la menzionata fattispecie penale di concorso, cui pianamente consegue la nullità civilistica; è invero principio consolidato che “in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell’art. 1418 c.c., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato” (Cass. 18016/2018, 14234/2003), regola applicabile ad ogni fattispecie contrattuale, come nel caso del finanziamento ad impresa in dissesto, che s’inserisca, ritardandolo, nell’iter organizzativo e di progressione delle proprie scelte, già ricadenti come doveri giuridici specifici a carico dell’imprenditore, di richiedere senza indugio il proprio fallimento o comunque di non espandere le dimensioni della propria insolvenza mediante operazioni dilatorie, versando in grave colpa>, § 14.

Nemmeno è pertinente il richiamo agli istituti di supporto ordinario ai deficit di liquidità delle imprese in crisi. Infatti i negozi posti in essere dalla ricorrente non avevano  <assunto con chiarezza originaria … in concorso con la fallita e sulla base dell’accertamento condotto dal giudice di merito, i tratti sostanziali di alcuna delle figure di cui alla L. Fall., art. 182 quater (o della L. Fall., art. 67, comma 3, lett. d)) o di altri negozi connotati da formalizzato progetto di sostegno ad impresa in crisi; se è vero, ed anzi ovvio, che è ben possibile e lecito il finanziamento all’impresa in crisi anche da parte di soggetti diversi da istituti che esercitino professionalmente il credito, nondimeno l’invocazione in questa sede della apparente non speculatività dell’apporto di provvista (non dotato di specifiche garanzie e nemmeno formulato per un’ipotesi di prededuzione) non integra di per sè anche la sua immunità da una concorrente valutazione di illiceità ove inserito in un contesto di ambigua negoziazione iniziale, tardiva qualificazione giuridica e finale innesto in una vicenda di aggravamento riprovevole del dissesto dell’impresa finanziata>, § 15.

La contrarietà ai principi dell’ordine pubblico economico <si palesa inoltre come aggiuntiva ratio nella qualificazione di illiceità dei negozi, sotto il profilo causale, ai sensi degli artt. 1343 e 1418 c.c., e con esplicitazione della fattispecie quale esempio di violazione del buon costume, ai fini della irripetibilità della prestazione resa, come voluto dall’art. 2035 c.c.>, § 16.1.a.      Pare di capire che la SC consideri la nullità ex art. 1343 e quella per contrarietà al buon costume come due distinti motivi di illiceità (v. subito sotto, ove ricordo il § 18).

La SC passa poi ad esaminare direttamente l’applicabilità della soluti retentio disposta dall’art. 2035 cc. <“ai fini dell’applicabilità della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., la nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perchè tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume “ >, § 17.

Arriviamo ora ai passi centrali dell’iter motivatorio:

Secondo la SC, il tribunale <ha giustapposto la ricognizione di contrarietà alla norma imperativa penale, laddove vieta di aggravare (e, quanto al terzo, di concorrere nella relativa condotta) il dissesto dell’imprenditore commerciale, alla illiceità della causa del complesso meccanismo negoziale adottato dalle parti, per contrarietà al buon costume [duplice motivazione sopra ancitipata] ; tale seconda, concorrente, violazione promana dal riconoscimento al contempo del pregiudizio obiettivamente occorso alla massa dei creditori per effetto dell’incremento delle dimensioni della decozione, causato – come unico scopo, ai fini qui ora in rilievo – da condotte consapevolmente compartecipative nel mantenere al di fuori della concorsualità l’imprenditore che già versava in tutti i suoi presupposti oggettivi e che, di lì a pochi mesi, avrebbe intrapreso il percorso concordatizio, per poi fallire, perseguendo inoltre una condotta di articolazione potenzialmente predatoria con lo strumento di un anomalo, perchè acausale e artatamente fungibile, “anticipo di prezzo”, deducibile ed invero dedotto quale corrispettivo di acquisto del (capitale del) soggetto in realtà finanziato o degli assets al medesimo in vario modo riconducibili; si tratta di un complessivo profilo di disvalore, all’altezza dello scrutinio in concreto della iniziativa economica delle parti del rapporto di finanziamento e cessione di attivi, imperniato su una compatibile reattività costituzionale (ex art. 41 Cost., comma 2) laddove le prestazioni di finanziamento dissimulate, a fronte di forniture nè pattuite nè eseguite (alla stregua del netto accertamento del giudice di merito), non si sono esaurite in mera sovvenzione all’imprenditore già insolvente, ma sono state progressivamente dedotte – al di là dell’insuccesso finale – in un programma di rilievo dei relativi assets, così fungendo il credito da mera leva per l’acquisizione del capitale della fallita o di patrimonio immobiliare di società collegata (da pagarsi con lo stesso credito, divenuto “corrispettivo alieno” a tenore del decreto) in danno dei creditori e a detrimento finale della soggettività economica del finanziato, posto che l’espansione dei relativi debiti non esprimeva alcuna utilità sociale; in questo limitato senso può convenirsi, per la peculiarità della fattispecie, che effettivamente nella condotta preordinatamente volta ad alterare altresì la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto, vi sia violazione delle regole giuridiche del buon costume, secondo “i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico”, allorchè la “prestazione” sia stata “eseguita” per uno “scopo” costituente, anche per l’autore che ora ne domandi la restituzione indiretta (id est, l’ammissione al passivo del credito), “offesa al buon costume>>, § 18.

Ne segue allora che <il credito della ricorrente, frutto della sua iniziativa economica, esprime così – per come complessivamente ricostruito dal giudice di merito – una posizione soggettiva che, per essere in astratto costituzionalmente tutelata in misura condizionata all’utilità sociale, finisce con il divenire in concreto cedevole rispetto ad altri valori omogenei parimenti protetti, quali i crediti di terzi e per i quali non solo l’ordinamento giuridico appresta specifici istituti organizzativi del relativo conflitto (i sistemi concorsuali e anche le figure di negoziazione della crisi preconcorsuali), ma indica, ad iniziare dalla previsione penalistica del divieto di aggravamento del dissesto, una convergente riprovazione verso condotte di occultamento o pratiche di egoistica ritrazione d’interesse singolare a fronte di una insolvenza oramai coinvolgente in termini di rischio l’adempimento verso una massa di soggetti creditori; per questa chiave, la “offesa al buon costume” di cui all’art. 2035 c.c., al pari della “contrarietà al buon costume” di cui all’art. 1343 c.c., non esprime solo una proiezione già formalizzata nell’ordinamento giuridico, ma mantiene il ruolo di termine di rinvio della legge permettendo – come osservato in dottrina – che la stessa giurisprudenza enunciativa assicuri l’intermediazione aggiornata delle plurime clausole generali di corretta condotta commerciale e delle relazioni di mercato fra competitori da perseguirsi tra imprenditori e specie nelle relazioni con quelli in crisi; tutte le indicazioni normative, dalla DIRETTIVA (UE) 2019/1023 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza fino al Codice della crisi e dell’insolvenza del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 già operano in tale direzione: la prima, guidando la disciplina domestica innovativa ovvero l’adeguamento di quella esistente verso una precocità della emersione delle difficoltà finanziarie e delle relative informazioni quali contributi al corretto funzionamento del mercato, in diretto rapporto con istituti di vantaggio improntati alla cooperazione trasparente degli attori, la seconda fondandosi sul medesimo obiettivo anticipatorio – anche per la parte già vigente – ove al riformato art. 2086 c.c., impone la rilevazione interna tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale e, più in generale e a regime, indirizzando i debitori all’adozione degli strumenti concorsuali appropriati per ristrutturare i debiti;>, § 19.

Del resto il perimetro applicativo dell’art. 2035 c.c. , dice la SC, <è invero, per un verso, compatibile con una nozione empirica di “prestazione”, nella quale cioè non sussiste vincolo a monte di ricomprendere in essa o di escludervi uno o più contratti, sol bastando che essi – ove conclusi – si siano tradotti, come avvenuto nella specie, in attribuzioni patrimoniali; per altro verso, è sufficiente che il perseguimento di uno scopo, anche per il solvens, costituisca offesa al buon costume, ciò pregiudicando il titolo della prestazione così da renderlo nullo, ipotesi che può realizzarsi in presenza di un presupposto contrattuale (ove stipulato) che sia in contrasto con i boni mores sotto il profilo causale o dell’oggetto o anche solo del motivo comune, ove l’unico a determinare i contraenti alla stipulazione; il fondamento attuale dell’effetto dell’irripetibilità è stato così condivisibilmente individuato anche in dottrina (sulla scorta della Relazione al codice civile) sia nell’esigenza di escludere dalla tutela giudiziaria conseguente all’esercizio dell’azione ex indebito colui che, per goderne, dovrebbe allegare il fatto della propria immoralità, sia nella configurazione di una misura sanzionatoria a carico dell’autore della prestazione eseguita per uno scopo turpe, in quanto soggetto che l’ordinamento reputa indegno di ricevere protezione giuridica;>, § 20.

E’ quindi giusto quanto osserva il Tribunale, ricorda la SC: <in questo senso le pur stringate osservazioni finali del decreto impugnato colgono nel segno ove, riferendosi ad una “sanzione” (civile), danno conto di un soggetto che ha condotto un comportamento disdicevole alla luce del sentire comune, così valorizzando – come detto – le clausole generali volte ad imporre, a chi si immette nel traffico giuridico e nelle reti interimprenditoriali in particolare, prestazioni conformate secondo buona fede, secondo criteri non moralistici, si può aggiungere, ma di concorrente condivisa opportunità e utilità sociale nelle relazioni ordinate di mercato, che non sopportano la permanenza artificiale in esso di concorrenti decotti, la cui insolvenza sia resa occulta ovvero ingiustificatamente ritardata nella sua emersione e strumentalizzata per operazioni in danno dei creditori; in questo ambito, la regola non assume una finalità educativa, ma pur sempre si riferisce a rapporti giuridici e non a soggetti in sè intesi, permettendo allora che il diritto – cui essa tuttora appartiene – neghi le sue tutele a negozi giuridici compiuti in violazione di principi, come detto, immanenti nei contesti in cui vengono conclusi, come nel caso il principio del corretto e leale svolgimento della competizione economica>, § 21

La soluti retentio ex art. 2035 c.c. attua perciò una <espressione sanzionatoria o punitiva, quale mera conseguenza di cui, per converso, la controparte (accipiens) beneficia … solo di riflesso e su un piano fattuale>, § 22.