La prestazione dei sindaci di s.p.a. è unitaria oppure frazionata per i vari esercizi?

Interessante questione (anche per i profili teorici: l’individuazione della  prestazione dovuta) decisa da Cass. 6027 del 04.03.2021, est. Dolmetta.

Sindaci di spa chiedono l’ammissione al passivo dei loro compensi per gli anni 2014-2017. Il fallimento rigetta, affermando un inadempimento ai loro doveri per tutto il 2014 (presumibilmente perchè inadimplenti non est adimplendum, art. 1460 cc).

Su opposizione dei sindaci, il Tribunale di Vicenza limita il rigetto dell’insinuazione al 2014 (unico esercizio per il quale erano state dedotte le inadempienze), e lo esclude invece per il 2015-2017. Ciò perchè le prestazioni dei sindaci via via erogate, esercizio per esercizio, sono da ritenere reciprocamente autonome.

La tesi è confermata dalla SC, adita dal Fallimento.

la Sc imposta così la questione dedottale: << Segue alle osservazioni appena compiute che il problema posto dal motivo di ricorso viene nella sostanza a focalizzarsi  sul punto se le obbligazioni di controllo – che l’ordinamento vigente pone, ex art. 2403 cod. civ., in capo ai sindaci di società per l’intera durata del loro ufficio – siano passibili di una considerazione solo «globale e unitaria», quanto al riscontro del loro adempimento ovvero inadempimento. Detto altrimenti, è da chiedersi, con diretto e immediato riferimento alla fattispecie che è qui concretamente in esame, se il riscontro di un inadempimento materialmente caduto nell’esercizio 2014 porti con sé (oppure no) una violazione degli obblighi di controllo sindacale per sua propria natura destinata a protrarsi per l’intera durata dell’ufficio commesso ai sindaci, sì che questi ultimi non abbiano diritto a percepire nessun compenso per l’attività loro affidata>>, § 9.

Ed ecco la risposta:

<<Al quesito si deve fornire risposta di segno negativo: l’adempimento della prestazione di controllo, a cui sono tenuti i sindaci, appare in effetti suscettibile di essere considerato partitamente, tempo per tempo. Con la conseguenza che, per la parte ora in esame, il motivo presentato dal ricorrente si manifesta infondato. – Per questo proposito è prima da tutto da rilevare, su un piano generale, che le obbligazioni di carattere continuativo ben possono rimanere – pure nel riflesso della loro dimensione temporale – in parte adempiute e in parte inadempiute. Sul piano del diritto positivo decisiva risulta, al riguardo, la constatazione che la norma dell’art. 1458, comma 1, cod. civ. stabilisce – con riguardo, appunto, allo specifico caso della risoluzione dei «contratti a esecuzione continuativa» – che l’«effetto della risoluzione non si estende alla prestazioni già eseguite». Questo – è anche opportuno per chiarezza esplicitare – tanto nel caso in cui a un primo periodo di adempimento si contrapponga seccamente un successivo periodo di solo inadempimento, quanto in quello in cui le due situazioni vengano intermittenti ad alternarsi. Il che, naturalmente, non significa che non possa assumere rilievo pure la specifica collocazione temporale in cui, nel concreto, viene a porsi il periodo di inadempimento di un’obbligazione continuativa. Ciò, tuttavia, è destinato a poter accadere per un profilo diverso da quello del mero riscontro di un avvenuto inadempimento: come rappresentato, in particolare, dalla valutazione dell’efficacia causale del medesimo e, dunque, pure sulla misura del danno risarcibile (v. già sopra, nel n. 8)>>, §§ 10-11.

Protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore: la vertenza Kiko c. Wjcon in Cassazione

Dopo la sentenza di appello (v. mio post 30.01.2019) , la lite è stata decisa in sede di legittimità nella scorsa primavera da Cass. n. 8433 del 30.04.2020, rel. Iofrida.

Si tratta della tutela chiesta da Kiko (k.) contro Wycon (w.) sull’originale soluzione di arredo dei propri negozi  che sarebbe stata copiata da w..

La sentenza rigetta i motivi di da 1 a 6 di Wycon (soccombente in primo e secondo grado) ma accoglie quelli 8-10 sulla concorrenza parassitaria e l’11° sulla liquidazione del lucro cessante. Rinvia poi ad altra sezione (composizione) di corte di appello milanese anche per le liquidazione delle spese di legittimità.

Non ci sono spunti particolarmente interessanti.

La SC ricorda che l’art. 110 l. aut. <<Questa Corte ha, di recente, affermato il principio secondo cui l’art. 110, non è applicabile quando il committente abbia acquistato i diritti di utilizzazione economica dell’opera per effetto ed in esecuzione di un contratto di prestazione d’opera intellettuale concluso con l’autore (Cass. 24 giugno 2016, n. 13171; conf. in materia di appalto relativo ad un format, Cass. 18633/2017): e ciò perchè, in tal caso, non ha luogo un trasferimento per manifestazione di volontà delle parti contraenti, dal momento che tali diritti sorgono direttamente in capo al committente, quale effetto naturale del rapporto di lavoro autonomo o del contratto di opera professionale, salvo patto contrario.

Peraltro, l’art. 110 L.A., in ordine alla necessità di prova scritta della trasmissione dei diritti di utilizzazione, non opera nelle azioni promosse dal titolare del diritto autorale contro i terzi che abbiano utilizzato illecitamente l’opera (cfr. Cass. 3390/2003: “la norma dell’art. 110 della Legge sul diritto d’Autore (L. 22 aprile 1941, n. 633), nel prevedere che la trasmissione dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno deve essere provata per iscritto, si riferisce all’ipotesi in cui il trasferimento viene invocato dal cessionario nei confronti di chi si vanti titolare del medesimo diritto a lui ceduto; essa pertanto non opera al di fuori del conflitto tra titoli, ovvero tra pretesi titolari del medesimo diritto di sfruttamento, allorchè il trasferimento sia invocato dal cessionario del diritto di utilizzazione nei confronti del terzo che, senza vantare una posizione titolata, abbia violato tale diritto, compiendo atti di sfruttamento del medesimo bene, in tal caso l’acquisto potendo, quale semplice fatto storico, essere provato anche mediante mezzi diversi dal documento”)>>, § 3.

W. aevava poi censurato la mancanza di forma espressiva nel progetto di arredo, § 5.

Il motivoi  perla SC è inammibbile, perchè presuppone la censura sull’apporto creativo. Ma questo è oggetto di valutazione <<destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione >>, § 5.

Soluzione errata: il giudizio sulla creatività è di diritto, consistendo in una (o essendo da equiparare a quello su) clausola generale.

Poi che l’arredo di  interni sia al più tutelabile come design ex arrt .2 n. 10 l. aut. , ma mai come opera dell’architettura, è derrato, dice la SC: ricorrendone i presupposti, infatti, anche quest’ultima tutela  è a disposizione, § 6 (oltre che quella da marchio di forma o diritto connesso ex art. 99 l.aut.)

La SC ha del resto ricordato che per orientamento costante ormai è ammesso il cumulo di tutela tra disegno e modello da un parte e diritto di autore dall’altra, citando giurisorudenz europea.

Lascia il principio di diritto seguente circa la creatività (confermando che si tratta di valutazione in diritto e contraddicendosi con quanto osservato poco prima):  “in tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sè definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purchè si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore“.

Il motivo sette (§ 9) riguarda la parzialità della riproduzione. La SC , ricordati i concetti (dottrinali, non legislativi) di contraffazione, plagio e plagio-contraffazione , così osserva: <<per la sussistenza del plagio, che si riferisce alla sola violazione del diritto morale di paternità (allorchè quindi taluno spaccia per propria un’opera altrui), o della contraffazione, che rappresenta una lesione del diritto di proprietà e comprende tutte le forme di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno effettuate senza autorizzazione dell’autore allo scopo di trarne benefici economici, ovvero ancora del plagio-contraffazione, figura questa che implica la lesione contemporanea del diritto patrimoniale e del diritto morale, occorre la coincidenza degli elementi essenziali costituenti la rappresentazione intellettuale dell’opera imitata con quelli dell’opera in cui sarebbe avvenuta la trasposizione e devono essere presi in considerazione non l’idea ispiratrice o i singoli elementi dell’opera ma l’originale composizione ed organizzazione di tutti gli elementi che contribuiscono alla creazione dell’opera stessa e che costituiscono la forma individuale di rappresentazione del suo autore. Va quindi esclusa la sussistenza del plagio o della contraffazione o del plagio-contraffazione, ove l’idea altrui sia utilizzata in una diversa rappresentazione o vengano organizzati in modo nuovo elementi già appartenenti al patrimonio culturale comune e susciti in chi la osserva diverse sensazioni, essendo necessario quindi verificare se siano state introdotte delle mere varianti secondarie inidonee a dare vita ad una nuova opera percepibile come risultato di scelte espressive individuali distinte dalla prima opera ovvero se, per effetto anche di un’elaborazione tecnica, pur all’interno di un percorso ideale già da altri tracciato, valutato l’insieme degli elementi che caratterizzano l’oggetto, muti la capacità espressiva dell’opera ovvero la capacità di suscitare emotività nel pubblico, attraverso le caratteristiche estetiche dell’opera, e si raggiunga una creatività nuova meritevole di autonoma tutela. Il plagio può aversi in caso di riproduzione totale dell’opera ovvero di elaborazione “non creativa”, cioè con utilizzazione di elementi originali di un’altra opera, o “creativa”, ma senza superamento dell’individualità di rappresentazione dell’opera precedente ispiratrice, con conseguente sostanziale identità di rappresentazione, ma abusiva, ovvero ancora di trasformazione da una in altra forma, letteraria o artistica; particolarmente difficile diventa l’accertamento del plagio, nelle forme di elaborazione, laddove si sia in presenza di opere dell’ingegno fortemente stereotipate, nelle quali è complesso distinguere le parti originali da quelle derivanti da consuetudine legata al genere, essendovi possibilità di frequenti coincidenze creative, ed occorrendo allora valutare se non si tratti di veri e propri elementi volgarizzati e non individualizzanti, non meritevoli di tutela sotto il profilo della Legge d’Autore (Cass. n. Euro 7077/1990).>>

Si badi che, in presenza di un livello non particolarmente elevato di creatività presente nell’opera tutelata, <<varianti pur minime possono essere sufficienti ad escludere la contraffazione>>.

Da ultimo, la SC censurala sentenza per la superficialità nel giudizio essitenza di di concorrenza parassitaria (§ 11 e segg.)

Anche qui c’è un errore sul giudizio di fatto: << la valutazione complessiva delle singole condotte del concorrente e della loro idoneità, sulla base di una considerazione cumulativa, al fine di evidenziare la sussistenza o meno di un disegno unitario volto a sfruttare sistematicamente l’altrui lavoro, implica un tipico apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità>> § 11.3.  Il fatto è solo il fatto storico; il suo inquadramento nei concetti giuridici (dottrinali o legislativi) è giudizio di diritto.

Quanto alle spese, ricorre l’ultima censura. La liqudazione, anche se equitativa, non può essere irrazionale: come invece nel caso de quo in cui il lucro cessante è stato dalla C. di A. stimato pari al decuplo della parcella dello studio d’architettura che aveva elaborato il progetto di arredo.

Responsabilità dell’amministratore di società eterodiretta

Cass. 5795 del 03.03.2021, rel. Mercolini , decide su un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro amminstratore di società eterodiretta per aver violato il (prevgigente) art. 22449cc (divieto di nuove operazioni in presenza di causa di scioglimento, corrispondente all’attuale art. 2486 cc)

La corte di appello aveva rigettato l’impugnazine dell’amministratore, ritenendo irrilevante -sul punto qui di interesse- <<l’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale ed il carattere meramente formale e fittizio dell’am-ministrazione affidata al Casà, osservando che egli aveva colposamente omesso qualsiasi controllo sull’attività del gruppo, consentendo il compi-mento di iniziative di gestione in violazione dei doveri di diligenza e degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del capitale sociale. Ha escluso che la predetta condotta potesse trovare giustificazione in quelle at-tribuite a soggetti diversi, rilevando che egli era perfettamente in grado dì accorgersi delle gravi irregolarità che venivano commesse, ed aggiungendo che non risultava provato che egli si fosse diligentemente attivato e non avesse potuto esercitare la vigilanza a causa del comportamento ostativo di altri soggetti >>.

La SC sostanzialmente conferma.

Col quarto motivo di ricorso , infatti, la ricorrente aveva denunciato  <<l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impu-gnata per aver addebitato al Casà l’omissione di qualsiasi controllo in ordine all’attività del gruppo imprenditoriale, senza tener conto delle differenze esi-stenti tra la relativa disciplina e quella del gruppo di società. Premesso che nella specie proprio l’accertamento dell’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale aveva consentito di estendere la responsabilità a soggetti diversi dalle società di capitali formalmente operanti, sostiene che in tal caso la società capogruppo costituisce lo strumento operativo delle persone fisiche che ne hanno il governo, le quali esercitano anche il control-lo sulle società del gruppo, mediante la gestione diretta delle stesse o l’ado-zione di prescrizioni imperative, con la conseguenza che la fattispecie risulta incompatibile con l’affermazione della responsabilità degli amministratori delle singole società, a meno che gli stessi non siano consapevoli della si-tuazione patrimoniale e finanziaria del gruppo e conniventi con le persone che lo gestiscono. Afferma che nella specie l’appartenenza della società al gruppo d’imprese era comprovato da un contratto di  finanziamento individuato nella procedura fallimentare e dall’ingerenza esercitata nella gestione da Anselmo e Biagio Manganaro, la quale aveva comportato la perdi-ta di qualsiasi autonomia da parte delle singole società, con il conseguente venir meno della responsabilità dei rispettivi amministratori>>, § 4.

In breve, par di capire (ma il motivo è un pò confuso), allegava una sorta di legittima deresponsabilizzazione dell’amminstratore dela società , quando fosse inserita in un gruippo.

La SC palesa l’errore di tale  tesi.

La circostanza che l’amministratore sia rimasto di fatto estraneo alla gestione della società, avendo consentito ad altri di ingerirsi nella conduzione dell’impresa sociale o essendosi limitato ad eseguire decisioni prese in altra sede, dice la SC, <<non è sufficiente ad escludere la sua responsabilità, riconducibile all’inosservanza dei doveri posti a suo carico dalla legge e dall’atto costitutivo, la cui assunzione, collegata all’accettazio-ne dell’incarico, gl’imponeva di vigilare sull’andamento della società e di at-tivarsi diligentemente per impedire il compimento di atti pregiudizievoli.

Tale responsabilità non è esclusa dall’appartenenza della società ad un gruppo d’imprese, la quale, in mancanza di un accordo fra le varie società, diretto a creare una impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore, non esclude la necessità di valutare il comportamento degli amministratori alla stregua dei doveri specificamente posti a loro carico, della cui inosservanza essi sono tenuti pur sempre a rispondere nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 8/05/1991, n. 5123).  In tema di società di capitali, que-sta Corte ha infatti affermato costantemente che il fenomeno del collega-mento societario, anche laddove implichi la gestione di attività economiche coordinate, l’utilizzazione di sedi comuni e la proprietà in capo ad una o più società di parte delle azioni delle altre, pur essendo stato preso in conside-razione dal legislatore, per fini specifici e determinati, quale causa di una configurazione unitaria del gruppo, non è idoneo a determinare l’esistenza di un nuovo soggetto di diritto o di un centro d’imputazione di rapporti di-verso dalle società collegate, le quali conservano la propria distinta persona-lità giuridica (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 18/11/2010, n. 23344; Cass., Sez. lav., 9/ 01/2019, n. 267; 14/11/2005, n. 22927). La riprova è costitui-ta dalla disciplina dettata dalla legge 8 luglio 1999, n. 270, che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi conferisce rilievo alla nozione di gruppo d’imprese, prevedendo la possibilità di estendere la  procedura alle imprese controllanti, controllate o soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla procedura madre: indipenden-temente dalla considerazione che le speciali regole dettate per l’amministra-zione straordinaria sono ritenute non estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi da esse contemplate, trattandosi di norme eccezionali che non auto-rizzano una diversa configurazione del gruppo (cfr. Cass., Sez. I, 14/04/ 1992, n. 4550; 2/07/1990, n. 6769; 8/02/1989, n. 795), occorre infatti ri-levare che proprio in tema di responsabilità l’art. 90 conferma l’operatività dei principi generali, prevedendo, in caso di direzione unitaria delle imprese del gruppo, la responsabilità solidale degli amministratori delle società che hanno abusato del relativo potere, senza però escludere la responsabilità di quelli della società dichiarata insolvente. Nella medesima ottica, l’art. 2497 cod. civ. (introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003, e quindi inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) prevede, in caso di sottoposizione della società a direzione o coordinamento, che la società o l’ente che nell’esercizio di tale potere abbiano agito nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui o in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, ri-spondono direttamente nei confronti dei soci e dei creditori sociali, per il pregiudizio arrecato rispettivamente alla redditività ed al valore della parte-cipazione o alla integrità del patrimonio della società, ma senza escludere, in linea di principio, la responsabilità degli amministratori. Benvero, si è anche precisato che la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, non è incompatibile con l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso, poiché mentre la prima corrisponde ad una situazione di di-ritto nella quale la controllante svolge l’attività di direzione della società controllata nel rispetto della relativa autonomia e delle regole che presiedo-no al suo funzionamento, la seconda dà invece luogo ad una situazione di fatto in cui i poteri di amministrazione sono esercitati direttamente da chi sia privo di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita: tale considerazione, peraltro, se per un verso può giustificare l’affermazione del-la responsabilità concorrente del soggetto cui siano attribuiti poteri di dire-zione, in quanto amministratore di una holding, ove abbia di fatto esercitato  anche poteri di amministratore delle società controllate, disattendendo l’au-tonomia delle stesse e riducendo i relativi amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, non consente per altro verso di escludere la responsabilità di questi ultimi, ove siano venuti meno al diligente adempimento dei loro do-veri nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 13/02/ 2015, n. 2952).>>, § 4.1.

Nulla di nuovo .

Resta dubbio il significato dell’importante limitazione <<in mancanza di un accordo fra le varie società>: la SC deplorevolmente butta lì con noncuranza questo inciso, senza spiegarlo (intendeva forse riferirsi alla teoria e al principio dei vantaggi compensativi ex art. 2497 c.1 cc e art .2634 c. 3 cod. pen.)

Immunità per pubblicazione di dati personali tratti da annuari scolastici donati da terzi?

Un’interessante questione (anche se in fattispecie molto particolare) si è posta presso una corte californiana.

Ancestry.com (A.) pubblica annuari (scolastici) con foto, nomi e indirizzi, donatile da soggetti da lei sollecitati. Una volta ricevutili, li carica sul proprio data base e inoltre li invia in promozione commerciale a possibili interessati , inducendoli ad acquistare una sorta di pacchetto “premium” per l’accesso a maggiori dati. Questi <<donors>> degli annuari firmano una liberatoria ad A. che non ci sono diritti di terzi sugli annuari stessi.

Alcuni cittadini californiani notano i propri dati su tale data base e  si citano A. per queste quattro cauase petendi : <<(1) a violation of their right of publicity under Cal. Civ. Code § 3344, (2) unlawful and unfair business practices, in violation of California’s Unfair Competition Law  UCL), Cal. Bus. & Prof. Code § 17200, (3) intrusion upon seclusion, in violation of California common law, and (4) unjust enrichment resulting from Ancestry’s selling their personal information>>

Inevitgabilmente A. solleva l’immunnità ex §  230 CDA.

Il punto è se A, certamente provider e trattato come editore (primi due requisiti), metta on line  informazioni di terzi oppure proprie (terzo requisito).

Secondo la U. S. DISTRICT COURT NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA, San Francisco Division, 1 marzo 2021,m Case No. 20-cv-08437-LB, Callahan c. Ancestry.com inc. e altri, si tratta di informazione di terzi ,. per cui  va concessa l’immunità.

Dice: <<First, Ancestry obtained the yearbook content from someone else, presumably other yearbook users.13 The plaintiffs assert that this is not enough because Ancestry did not obtain the content from the author of the content. To support this assertion, they cite two cases, “KNB Enterprises and Perfect 10[, where] the defendants copied photographs from rival websites [and] then sold access to the photos for a subscription fee.” Those defendants, the plaintiffs say, “could not have claimed the protection of § 230” “[b]ecause they did not obtain the photographs from the people who created them. . . .” They conclude that similarly, Ancestry cannot claim § 230(c)(1) immunity.14 But KNBEnterprises and Perfect 10 do not address § 230. Perfect 10, Inc. v. Talisman Commc’ns Inc., No. CV 99-10450 RAP MCX, 2000 WL 364813 (C.D. Cal. Mar. 27, 2000); KNB Enters. v.  atthews, 78 Cal. App. 4th 362 (2000). Moreover, no case supports the conclusion that § 230(a)(1) immunity applies only if the website operator obtained the third-party content from the original author. To the contrary, the Act “immunizes an interactive computer service provider that ‘passively displays content that is created entirely by third parties.’” Sikhs for Justice “SFJ”, Inc. v. Facebook, Inc., 144 F. Supp. 3d 1088, 1094 (N.D. Cal. 2015) (quoting Fair Hous. Council v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157, 1162) ), aff’d, 697 F. App’x 526, 526–27 (9th Cir. 2017). 

Second, Ancestry extracts yearbook data (names, photographs, and yearbook date), puts the content on its webpages and in its email solicitations, adds information (such as an estimated birth year and age), and adds interactive buttons (such as a button prompting a user to upgrade to a more expensive subscription). The plaintiffs say that by these actions, Ancestry creates content. To support that contention, they cite Fraley.15 But Fraley involved the transformation of the Facebook user’s content (liking a product) into an advertisement that — without the user’s consent — suggested the user’s endorsement of the product (and resulted in a profit to Facebook by selling the ads). 830 F. Supp. 2d at 791–92, 797. In contrast to the Fraley transformation of personal likes into endorsements, Ancestry did not transform data and instead offered data in a form — a platform with different functionalities — that did not alter the content. Adding an interactive button and providing access on a different platform do not create content. They just add functionality. Kimzey v. Yelp! Inc., 836 F.3d 1263, 1270 (9th Cir. 2016) (Yelp! had § 230 immunity despite adding a star rating to reviews from other websites); Coffee v. Google, LLC, No. 5:20-cv-08437, ECF No. 56 at 13 (Google had § 230 immunity despite adding industry standards and requiring app developers to disclose the odds of winning). Instead of creating content, Ancestry — by taking information and photos from the donated yearbooks and republishing them on its website in an altered format — engaged in “a publisher’s traditional editorial functions [that] [] do not transform an individual into a content provider within the meaning of § 230.” Fraley, 830 F. Supp. 2d at 802 (cleaned up); cf. Roomates.com, 521 F.3d at 1173–74 (website is immune under §230 where it “publishes [] comments as written” that “come[] entirely from subscribers and [are] passively displayed” by the website operator). Ancestry did not contribute “materially” to the content. Roomates.com, 521 F.3d at 1167–68. In sum, Ancestry has immunity under § 230(c)(1).>>.

L’esattezza della tesi, però, non è certa.

DA un lato, è una scelta di A. quella di mettere on line: i donors non esprimono probabilmente alcuna volontà, ma solo autorizzazione, in tale senso. Quindi non c’è passive (ma semmai active) display da parte di A.

Dall’altro, è da vedere se l’aggregazione di dati trasformi o no i dati forniti  (informazione iniziale) in una nuova informazione (dal punto di vista della lesività della privacy altrui), tale da escludere il legame con i donors e da ravvisarlo solo verso A.

(notizia tratta dal blog di Eric Goldman)

Vedo ora che decide in senso opposto District Court of Nevada in Sessa v. Ancestry.com , Sep 16, 2021, caso 2:20-cv-02292-GMN-BNW: <Based on the facts alleged in the Complaint, Ancestry is not immune under Section 230 because it was responsible for posting the information in its database. The Complaint alleges that Ancestry has gathered millions of persons’ personal information through individual records, including many donated yearbooks, which Ancestry has used to build its database. (Compl. ¶¶ 46-50). Accordingly, while the yearbook publishers originated the content that Ancestry used to create its database, and the yearbooks were provided by third parties, Ancestry alone is responsible for posting the material on its website after it receives the records from others. Section 230 immunity therefore does not attach.> (p. 11).

Validità di marchio costituito da lettera “W” e sua confondibilità col successivo marchio in cui la lettera è inserita in marchio complesso

La Starwood Hotels & Resorts Wordlwide, grande catena titolare di strutture alberghiere in tutto il mondo,  è titolare di svariati marchi rappresentanti la lettera dell’alfabeto <W>.

Si accorge che altra azienda usa marchio simile pur se complesso , facendola precedere dalla parola <La Bottega>, in caratere più piccolo e con sovrapposizione merceologica.

Il Trib. di Roma con sent. 203/2021 del 07.01.2021, RG 36301/2016 accerta la validità del marchio attoreo, confemando un orientamento ormai consolidato (c’erano state opinioni opposte in passato): la lettera singola è tutelabile , almeno astrattametne (cioè tipologicamente).  E ciò anche senza particolari specifiche grafiche . Del resto la legge non è equivoca sul punto (art. 7/1 prima parte, cpi).

Anzi, è marchio forte, dice il Trib..

Nello stesso senso ricorda altri precedenti, anche propri (Trib. Roma sez. spec. sent. 9294/2012), cui si può aggiungere Trib. Roma  IX sez. 19.01.2015, G.A.D.I., 2016-XLV, § 6354, p. 171, massime 2 e 4 (sempre concernente il medesimo attore e il medesimo marchio <W>).

Trascura però di osservare che ciò non sottrae il marchio al giudizio sulla sua distintività in concreto.

Anzi è dubbio se si possa parlare di accertamento di validità in proposito, visto che il convenuto non ne ha contestato la validità (probabilmente è però esatto , se lo si ritiene un presupposto logico dei capi di sentenza accertativi della nullità e contraffazione del marchio del convenuto, quindi anche esso coperto da giudicato).

L’attrice aveva chiesto la dichiarazione sia di nullità che di contraffazione, la prima con inibitoria ex art. 21.3 cpi.  Quest’ultima è domanda non fondata , dato che la disposizione parla di nullità che comporti <<illiceità dell’uso>> e cioè ex art. 14/1.a-b (forse anche lettere c.bis segg., ma non la lettera c).

Un’inibitoria specifica poi non aggiunge nulla alla dichiarazione di nullità in termini di doverosità, dato che il divieto è già posto dal cit. art .21/3 cpi: però serve per agganciarla ad un’astreinte.

Nega il danno da lucro cessante (l’attrice aveva chiesto royalties al 10% come prezzo del consenso) dato che anche la condanna ex art. 125/2 cpu presuppone che un qualche danno sia provato. Liquida invece <<in via equitativa un risarcimento del danno emergente correlata all’incidenza negativa della contraffazione sulla unicità e sulla capacità distintiva del marchio ‘W’ contraffatto dalle convenute, che si quantifica in euro 10.000,00 alla data della decisione>> (motivazione un pò vaga).

Da notare che viene negato il rapporto di concorrnzialità (v. § 15). Se ne deduce che la violazione di un marchio altrui è possibile anche da parte di chi tecnicamente (e al momento) non ne è concorrente: cosa non strana, dato che solo il non uso per cinque anni penalizza chi non utilizzi il marchio per i prodotti per cui lo ha registrato.