Sul rapporto tra risoluzione contrattuale per inadempimento e risarcimento del danno: anche senza chiedere la prima, il secondo comprende l’interesse contrattuale positivo

Interessante motivazione in Cass. sez. III del 29/12/2023  n. 36.497, rel. Gorgoni, la quale, in un’azione di danno promossa dal paziente/cliente verso l’odontoiatra per inadempimento professionale, coglie un palese errore della corte di appello.

Premessa generale:

<<va innanzitutto considerato che la giurisprudenza di questa Corte ha in occasioni affermato che la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacché l’art. 1453 c.c., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento dell’azione di risoluzione del contratto (Cass. 23/07/2002, n. 10741; Cass. 10/06/1998, n. 5774; Cass. 14/01/1998, n. 272);

la causa di risarcimento danni per inadempimento contrattuale non e’, infatti, accessoria rispetto alla causa di risoluzione del medesimo contratto per inadempimento, perché la decisione dell’una non presuppone, per correlazione logico-giuridica, la decisione dell’altra, né vi è subordinazione, essendo invece autonome tra loro (Cass. 25/07/2023, n. 22277; Cass. 23/05/2023, n. 14172; Cass. 19/04/2023, n. 10429; Cass., 31/03/2021, n. 8993; Cass. 12/06/2020, n. 11348);

tantomeno può dirsi che la domanda di risoluzione sia implicitamente compresa in quella risarcitoria (Cass. 10/07/2018, n. 18086);

vero e’, però, che il presupposto di entrambe è l’accertamento dell’inadempimento, pur incidendo lo stesso diversamente, dovendo essere di non scarsa importanza per accogliere la domanda di risoluzione e fungendo soltanto da parametro di valutazione per la domanda risarcitoria (Cass. 14/12/2000, n. 15779);

i tre rimedi – la risoluzione per inadempimento, la domanda di adempimento, il risarcimento del danno – hanno in comune gli stessi fatti costitutivi – l’obbligazione e l’inadempimento – benché consentano a chi se ne avvalga di conseguire utilità diverse (Cass. 12/10/2000, n. 13598; Cass. 11/05/2005, n. 9926; Cass. 09/09/2008, n. 22883);>>.

Nello specifico:

<<6.1) è evidente, dunque, che la Corte d’appello ha enunciato una regola di giudizio sbagliata, allorché ha affermato che, avendo la consulenza tecnica d’ufficio accertato solo la sussistenza di un inadempimento contrattuale, ciò avrebbe consentito quale unica conseguenza “la risoluzione del contratto e la restituzione dei corrispettivi versati, purché ovviamente detta domanda fosse stata proposta in giudizio e fosse stata dimostrata la gravità dell’inadempimento. Poiché però parte attrice ha agito solo per l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della convenuta nella causazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, Dental Care Advance Varedo Odontoiatria S.r.L. non può essere condannata alla restituzione di quanto già versato per inefficacia delle terapie attuate”;

6.2) per stabilire quali utilità l’odierna ricorrente potesse trarre dall’azione esperita occorre tener conto di due dati: è vero che, secondo l’orientamento prevalente di dottrina e giurisprudenza, in caso di risoluzione del contratto, le prestazioni eseguite risultano prive di causa e quindi devono essere restituite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (Cass. 30/11/2022, n. 35280), ma lo è altrettanto che l’inadempimento come fatto illecito può provocare concrete perdite di utilità da riattribuire al contraente fedele tendenzialmente nella loro integralità (Cass. 04/08/2000, n. 10263; Cass. 15/11/2013, n. 25775);

l’art. 1223 c.c., individua il danno nella perdita subita e nel mancato guadagno e “riflette una prospettiva differenzialista”, alla stregua della quale, il danno è “l’effettiva diminuzione del patrimonio, diminuzione data dalla differenza tra il valore attuale del patrimonio del creditore-danneggiato ed il valore che presenterebbe” se l’obbligazione fosse stata tempestivamente ed esattamente adempiuta” (o il fatto illecito non fosse stato realizzato): Cass. 20/10/2021, n. 29251; Cass. 18/07/1989, n. 3352;

va da sé, poi, che il patrimonio che costituisce la grandezza che deve essere reintegrata con l’obbligazione risarcitoria è l’insieme di beni, di valori, di utilità tra loro collegati mediante un criterio funzionale (Cass. 05/07/2002, n. 9740); per cui anche la teoria differenziale dianzi evocata va applicata considerando la diminuzione di utilità subita dal danneggiato proiettata sull’id quod interest e non già (e non più) sull’aestimatio rei;

dato l’inadempimento della società Dental Care, la Corte territoriale avrebbe dovuto stabilire se e quale danno alla persona e quale eventuale diminuzione patrimoniale detto inadempimento avesse comportato a fronte di quella destinata concretizzarsi in assenza dell’inadempimento; accertamento che invece è mancato, perché, come anticipato, il giudice a quo ha escluso che l’inadempimento consentisse alla odierna ricorrente di avvalersi della tutela risarcitoria;

una volta accertato l’inadempimento, la Corte d’appello avrebbe dovuto domandarsi se ne fossero derivati danni (risarcibili); va infatti precisato che il giudice a quo non ha assunto una statuizione reiettiva della domanda risarcitoria in ragione del fatto che non fosse stato soddisfatto, da parte della odierna ricorrente, l’onere di provare il nesso causale tra l’inadempimento e il danno né dell’esito dell’accertamento negativo della sussistenza di un qualsivoglia danno cagionato dall’intervento (cfr., a tal proposito, Cass. 11/11/2019, n. 28991); peraltro, un intervento che in ipotesi non abbia cagionato un peggioramento della condizione patologica della paziente, ma che non abbia prodotto alcun risultato di tipo terapeutico non per questo non ha prodotto alcun danno; può non aver prodotto un danno alla salute, ma non significa che non abbia determinato alcun altro danno risarcibile: cfr. Cass. 19/05/2017,. 12597; Cass. 13/04/2007, n. 8826 che hanno ritenuto un intervento rivelatosi inutile determinativo di “conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.);

il giudice a quo si è limitato, invece, a sostenere che la prospettazione di lesioni, integranti il danno alla persona, causate dalla convenuta, non attenesse in alcun modo all’inadempimento contrattuale (p. 8) e che “le considerazioni svolte dal consulente tecnico di ufficio circa l’inadempienza contrattuale per inefficacia delle cure effettuate non attengono conseguentemente all’oggetto del giudizio de quo, alla luce delle domande proposte da parte attrice” (p. 9);

l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello non è intellegibile, posto che dopo aver affermato erroneamente che l’inadempimento contrattuale può giustificare, a certe condizioni, solo la domanda risolutoria che l’appellata non aveva formulato, ha aggiunto che il Ctu aveva accertato un inadempimento contrattuale, esorbitante dall’oggetto del contratto, ha sostenuto che non è stato accertato alcun danno alla salute della paziente inteso quale peggioramento dello stato anteriore (p. 9), ma non è chiaro né come sia giunta a tale conclusione, né come essa si concili con l’aver ritenuto che la prospettazione di lesioni integranti il danno alla persona non atteneva all’inadempimento contrattuale; resta, dunque, anche il dubbio che non abbia preso in considerazione la domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno alla persona per la stessa ragione per cui ha ritenuto che nessun obbligo risarcitorio potesse essere posto a carico della parte inadempiente, cioè sol perché non era stata domandata la risoluzione del contratto e non per effetto dell’applicazione dei principi che regolano il risarcimento del danno alla salute per inadempimento di una prestazione professionale (cfr. Cass. n. 28991/2019, cit. e successiva giurisprudenza conforme);

in sostanza, la decisione reiettiva non si è basata sull’assenza di un danno provocato dall’inadempimento, ma sul convincimento che l’azione risarcitoria presupponesse la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento; il che evidentemente è sbagliato ed ha prodotto come conseguenza che il professionista debitore della prestazione è stato posto in una situazione di indifferenza tra adempiere e non adempiere [giusto, conseguenza assurda !!],  quale conseguenza della svalutazione della valenza giuridica dell’obbligazione nata con il contratto, la quale “reca in pari data un comando primario rivolto al suo adempimento ma anche il rimedio, ove il comando non venga osservato”;

6.3) che non debba confondersi il venir meno della causa delle prestazioni eseguite, quale effetto della caducazione del titolo, con il contenuto dell’obbligazione risarcitoria è vero; nondimeno, se il contraente fedele, senza chiedere la risoluzione del contratto, quindi ferma l’efficacia dello stesso, agisca per ottenere il risarcimento del danno, sarà necessario intendersi su ciò che costituisce l’oggetto del suo credito risarcitorio;

quest’ultimo dovrà intendersi esteso a tutto il suo interesse contrattuale positivo, cioè il contraente non inadempiente dovrà essere messo non nella situazione in cui si sarebbe trovato ove non avesse concluso il contratto (interesse contrattuale negativo), bensì nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato ove avesse ricevuto la prestazione dovutagli (interesse contrattuale positivo), pur dovendosi sottolineare che: a) “interesse positivo” e “interesse negativo” non sono espressioni cui corrisponde un diverso significato tecnico-concettuale, ma solo formule descrittive del contenuto economico della pretesa risarcitoria; n) “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato)”: Cass. n. 28991/2019, cit.;

6.4) autorevole dottrina ritiene che “strettamente parente” di detto interesse, “che può definirsi di affidamento, è l’interesse ad ottenere la reintegrazione dello stato quo ante (prima del contratto), ove questo stato abbia subito mutazioni, a seguito ad es. della esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente”, giacché anche chi “esegue anticipatamente la propria prestazione confida nella regolare esecuzione del contratto, così come colui che va incontro a spese per esso”, fermo restando che “la tutela dell’interesse alla restitutio in integrum non si basa più propriamente sulla perdita subita ma sul beneficio conseguito dall’accipiens, onde i due rimedi rimangono concettualmente distinti”;

6.4.1) nei sistemi come il nostro che ammettono la convivenza del risarcimento con la risoluzione del contratto, è da tenere in conto che il contraente, domandando la risoluzione, intende liberarsi dalla propria obbligazione, ma non intende invece rinunciare alla perdita subita a seguito del mancato conseguimento della prestazione corrispettiva, perciò esigerà di essere compensato di tale perdita, calcolando naturalmente il risparmio ottenuto per non aver dovuto sacrificare la propria prestazione; il danno che si accompagna alla richiesta di risoluzione si distingue dunque dal danno da affidamento, perché si rapporta più direttamente, come si è detto, all’interesse al contratto: interesse che la richiesta di risoluzione evidentemente non cancella o cancella solo parzialmente, secondo che si agisca chiedendo la risoluzione totale o parziale del contratto;

il che consente di affermare che la risoluzione per inadempimento è omogenea alla tutela risarcitoria, in quanto anch’essa costituisce reazione alla inattuazione dello scambio, pur essendo il danno risarcibile, in un caso, quello positivo, cioè quello derivante dalla lesione dell’interesse alla esecuzione del contratto, nell’altro, quello da lesione dell’interesse negativo (che si somma, eventualmente, alla obbligazione restitutoria);

6.5) allora, ferma la distinzione tra azione restitutoria e azione risarcitoria (anche sul piano processuale, nel senso che devono essere oggetto di domande separate), in considerazione del fatto che giocano su terreni non coincidenti (la caducazione del titolo, in un caso, la permanenza del vincolo, nell’altro) e che la restituzione è l’effetto del venir meno del titolo contrattuale e quindi della causa che aveva giustificato lo spostamento patrimoniale (peraltro, la restituzione coinvolge anche la parte fedele, tenuta, a sua volta, a restituire quanto eventualmente ricevuto, benché nessuna inadempienza possa esserle ascritta), non è escluso che la parte che domandi il risarcimento del danno, senza chiedere la risoluzione del contratto, possa in concreto ottenere risultati contenutisticamente analoghi a quelli che otterrebbe con la domanda restitutoria (cfr. infra);

alla base della tesi opposta vi è il convincimento, non condivisibile, che la risoluzione in qualche modo purghi l’inadempimento, non considerando, invece, che la liberazione dal vincolo e dall’obbligo di eseguire le prestazioni ancora non eseguite non ha effetto sanante; allora è vero che quando la parte con il suo inadempimento causa la risoluzione essa rende inutili (rectius: sine causa) le spese sostenute in esecuzione del contratto risolto, ma allo stesso risultato si giunge anche se le spese fatte per ottenere la prestazione che non si è ricevuta o che non è esatta sono oggetto di una richiesta di risarcimento dell’interesse contrattuale positivo; nel senso che “il riferimento alle spese sostenute invano costituisce un indice con il quale stimare l’interesse del creditore ad ottenere la prestazione attesa, idoneo a consentire al giudice una quantificazione del risarcimento, quando altri strumenti non siano utilizzabili”; nel senso che il valore della prestazione non eseguita o non esattamente eseguita è determinabile facendo riferimento al costo della stessa;

7) per concludere:

– deve essere confermata la differenza tra azione restitutoria ed azione risarcitoria;

– deve essere dato seguito al principio, più volte enunciato da questa Corte, secondo cui, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Cass. 24/03/2014, n. 6886; Cass. 06/12/2017, n. 29218; Cass. 25/07/2023, n. 22254; Cass. 07/11/2023, n. 31026);

detto principio poggia sull’assunto che la parte non inadempiente non abbia chiesto la risoluzione del contratto, perché aveva interesse alla manutenzione dello stesso; il che, di conseguenza, non mette in discussione il credito del professionista per il compenso relativo all’attività espletata, della quale la parte adempiente intende comunque avvalersi, sia pure sollecitando il ristoro del pregiudizio subito per l’inesatto adempimento;

– “l’inadempimento” – insegna autorevole dottrina – “può presentarsi con mille volti diversi” e “nella situazione aperta dall’inadempimento, possono atteggiarsi in modi quanto mai differenziati le posizioni e gli interessi delle parti, e specialmente della parte che subisce l’inadempimento”;

deve ritenersi che, quando però il creditore non abbia più interesse alla prestazione e/o la prestazione non sia più possibile, subentra l’obbligo risarcitorio, cioè l’adempimento è sostituito dall’obbligazione risarcitoria, la cui caratteristica precipua risiede nel carattere succedaneo della prestazione mancata o inesattamente attuata; adempimento e risarcimento condividono la comune finalità di attuazione del contratto, sia pure in forme diverse; in altri termini l’art. 1453 c.c., quando individua i rimedi spettanti al contraente fedele – adempimento invito debitore e/o risoluzione – indicando l’adempimento implica che in esso si comprenda il risarcimento e che, spettando alla parte che ha subito l’inadempimento, l’integrale risarcimento del danno per aver fatto affidamento sulla corretta esecuzione della prestazione (secondo il principio dell’id quod interest), detto danno, dovendo reintegrare il patrimonio del leso mediante l’attribuzione di un equivalente pecuniario, deve comprendere anche le eventuali spese per procurarsi aliunde la prestazione ineseguita e che il compenso pagato inutilmente al professionista al fine di ottenerla possa costituire un parametro di valutazione di cui il giudice debba tener conto al fine di liquidare il danno nella sua integralità;

8) sulla scorta di tanto, devono accogliersi i motivi dal secondo al quinto, va dichiarato assorbito il primo motivo, la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti;

8.1) il giudice del rinvio, la Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, dovrà accertare se e quali conseguenze immediate e dirette abbia cagionato l’inadempimento della prestazione del professionista, sia sotto il profilo del danno alla persona, sia sotto il profilo del danno patrimoniale, sulla scorta del rilievo dell’id quod interest, cioè considerando che il contraente non inadempiente, attraverso il riconoscimento del danno, dovrà essere posto nella stessa condizione nella quale si sarebbe trovato ove la prestazione dovutagli fosse stata esattamente eseguita>>.

Content moderation, hate speech e risoluzione del contratto di social network per inadempimento dell’utente

Trib. Roma.,  sez. dir. della persona e immig. civile, n° 17909/2022 del 5 dicembre 2022, RG 10810/2020, giud. monocr. Albano Silvia, decide nel merito la nota lite tra Casapoound e Facebook (ora Meta Platforms ireland ltd.: poi “FB), già oggetto di decisione cautelare alla fine del 2019.

Non ci sono ragionamenti particolarmente interessanti in diritto, ma un fattualmente importante accertamento di <organizzazione di odio> a carico di Casapound, secondo gli Standard di condotta di FB.

Purtroppo la lunga e fitta sentenza non è divisa in brevi paragrafi, per cui le lettura è poco agevole.

Il § 2 dà conto del quadro normativo e di applicazioni giurisprudenziali, anche estere.

Riporto il § 2.5 Conclusioni :

<<Dal complesso quadro di fonti normative sopra delineato, alcune delle quali aventi valore di fonti sovraordinate (come le norme costituzionali, o quelle sovranazionali in base all’art 117 della Costituzione), emerge con chiarezza che tra i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, nel bilanciamento con altri diritti fondamentali della persona, assume un particolare rilievo il rispetto della dignità umana ed il divieto di ogni discriminazione, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona.
La libertà di manifestazione del pensiero non include, pertanto, discorsi ostili e discriminatori (vietati a vari livelli dall’ordinamento interno e sovranazionale).
Gli obblighi imposti dal diritto sovranazionale impongono di esercitare un controllo; obbligo imposto agli stati ed anche, entro certi limiti (come si è visto), ai social network come Facebook, che ha sottoscritto l’apposito Codice di condotta.
Nel caso di specie, peraltro, non si tratta di una generalizzata compressione per via giudiziaria della libertà di espressione di singoli individui o gruppi, ma della possibilità di accedere ad uno specifico social network (che è anche un social media, strumento attraverso il quale i produttori di contenuti sono in grado di raggiungere il grande pubblico), gestito da privati, al fine di consentire la diffusione di informazioni concernenti l’attività di una determinata formazione politica.>>

Segue poi l’applicazione al caso de quo (cioè alle clausole contrattuali tra klutente e FB: sono riportate le clausole pertinenti).

Di interesse è che nessuna clausola prevede un obbligo di preavviso per disattivazione pagine o profilo, p. 25. In ogni caso nessun danno è stato provato dalla perdita per tale ragine dei documenti già ivi caricati (p. 40).

Pertanto, alla luce della normativa e della giurisprudenza nazionale e sovranazionale opra illustrata, <<può ritenersi che un’organizzazione che si richiama al fascismo, ne usa i simboli e gli slogan, può essere designata organizzazione d’odio in base alle regole contrattuali di Facebook sopra illustrate, in quanto oggettivamente favorisce la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico>>, § 4.

E poi: <<Nel caso di specie, al contrario, non si tratta di accertare la rilevanza penale della condotta, ma la legittimità della sua diffusione attraverso il social network, in quanto la pubblicazione di simbologia fascista è vietata dalle condizioni contrattuali di Facebook e autorizza, pertanto, la rimozione di post la riproducono.
Si è visto più sopra che le regole più stringenti in ordine alle legittimità dei contenuti divulgabili in rete sono determinati anche dall’effetto moltiplicatore di internet, idoneo ad attribuire un’attitudine lesiva a condotte che altrimenti potrebbero non averne, da qui le iniziative volte a responsabilizzare i gestori dei social network onde vietare la diffusione di simboli o discorsi d’odio in rete anche attraverso le condizioni contrattuali che ogni utente deve sottoscrivere al momento dell’iscrizione.

Facebook non solo poteva risolvere il contratto grazie alle clausole contrattuali accettate al momento della sua conclusione, ma aveva il dovere legale di rimuovere i contenuti, una volta venutone a conoscenza, rischiando altrimenti di incorrere in responsabilità (si veda la sentenza della CGUE sopra citata e la direttiva CE in materia), dovere imposto anche dal codice di condotta sottoscritto con la Commissione Europea>>, p. 31.

Viene esteso il giudizio alla pagina personale dell’ammninistratore di Casapound Italia.

Elenco di fatti, supportanti il giudizio di esattezza della qualificazione come  <organizzazione di odio> decisa da FB,  sta a a pp. 36/7.

Quindi FB legittimamente ha risolto il contratto.

Sono poi riprodotti i principali documenti provanti tale conclusione (con riproduzione grafica e a colori; i link invece non sono più attivi)

Conclusione finale al § 5 , p. 39: a<<l’art. 3.2 delle condizioni contrattuali prevede espressamente che nel caso in cui “l’utente abbia violato chiaramente, seriamente o reiteratamente le proprie condizioni o normative, fra cui in particolare gli Standard della community, Facebook potrebbe sospendere o disabilitare in modo permanente l’accesso dell’utente al suo account.”
E’ stato provato che le parti attrici hanno pubblicato contenuti in violazione delle clausole contrattuali che vietano il supporto ad organizzazioni d’odio (Davide Di Stefano attraverso il proprio profilo anche quale amministratore della pagina di CasaPound Italia), la pubblicazione di hate speech basati sulla razza o etnia (art 13 Standard della Comunità) e simboli che rappresentano/elogiano un’organizzazione che incita all’odio (come tutta la simbologia fascista o l’elogio ai combattenti della X Mas o della Repubblica di Salò- art 2 degli Standard) o che incitano alla violenza (art 1 degli Standard).
I contenuti, che inizialmente erano stati rimossi e poi a fronte della reiterata violazione hanno comportato la disattivazione degli account delle parti attrici sono illeciti da numerosi punti di vista.
Non solo violano le condizioni contrattuali, ma sono illeciti in base a tutto il complesso sistema normativo di cui si è detto all’inizio, con la vasta giurisprudenza nazionale e sovranazionale citata.>>

Gravità dell’inadempimento nella risoluzione del contratto di locazione

Cass. 07.12.2020 n. 27955, rel. Gorgoni, si pronuncia sul tema in oggetto, dando alcuni insegnamenti (parrebbe trattarsi di locazione commerciale, venendo richiamato l’art. 41 l. 392/78).

 1) il fatto che l’art. 41 cit. non richiami l’art. 5 L. 392/78 sui parametri per determinare la gravità dell’inadempmento del cobnduttore,  e che dunque imponga l’applicazione dell’art. 1455 cc, non esclude che la prima norma un qualche rilievo possa averlo in sede interpretativo-determinativa del grave inadampimento ai sensi della seconda norma

2) quanto al profilo soggetivo/oggettivo del giudizio di gravità, la SC osserva:  <<Il fatto che, con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore non abbia predeterminato ex lege i caratteri dell’inadempimento solutoriamente rilevante, impone di tener conto che la gravità dell’inadempimento sotto il profilo oggettivo –per la cui determinazione il giudice può ben avvalersi orientativamente dei parametri valevoli per sciogliere il contratto di locazione ad uso abitativo: la tipizzazione normativa contribuisce a dare concretezza ed oggettività alla valutazione del giudice che, altrimenti, in un ambito nel quale il suo potere discrezionale appare singolarmente ampio e la dialettica tra regole e principi si rivela particolarmente complessa, rischierebbe di restare pericolosamente priva di coordinamento con le direttive del sistema– non è sufficiente, occorrendo parametrarla all’interesse del contraente deluso, e che il fatto che quest’ultimo abbia agito per chiedere la risoluzione del contratto per l’altrui inadempimento o l’aver diffidato l’inadempiente non basterebbero; diversamente si otterrebbe il risultato di rimettere la risoluzione alla scelta dell’adempiente (per Cass. 13/02/1990, n. 1046, “l’interesse dell’altro contraente (…) non deve essere tanto inteso in senso subiettivo, in relazione alla stima che il creditore avrebbe potuto fare del proprio interesse violato, quanto in senso obiettivo in relazione all’attitudine dell’inadempimento a turbare l’equilibrio contrattuale ed a reagire sulla causa del contratto e sul comune interesse>>;

Poi si legge <<Il punto di rottura del rapporto che giustifica la cancellazione del vincolo è dato dall’incrocio tra il grave inadempimento e l’intollerabile prosecuzione del rapporto>>: non chiarissimo il signficato, anche perchè il primo dei due concetti è subito dopo spiegato, mentre il secondo è solo enunciato ma senza spiegazione.

Il primo dunque (grave inadempimento) va sì applicato in base alle circostanze del caso [così come rappresentate alla controparte in trattatia o come documentate nel contratto], ma con parametro oggettivo (ciò che sarebbe “grave” per l’uomo medio: in quella stessa condizione, aggiungerei).

Nulla invece dice sulla intollerabilità della prosecuzione del rapporto.

Poi precisa che:

i) non è necessaria la previa intimazione in mora,

ii) la regola della cristallizzazione delle posizioni delle parti non è applicabile ai rapporti di durata,

iii) va valutata anche la condotta successiva ala proposizione della domanda,  <<giacchè in tal caso, come in tutti quelli di contratto di durata in cui la parte che abbia domandato la risoluzione non è posta in condizione di sospendere a sua volta l’adempimento della propria obbligazione, non è neppure ipotizzabile, diversamente dalle ipotesi ricadenti nell’ambito di applicazione della regola generale posta dall’art. 1453 c.c. (secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento comporta la cristallizzazione, fino alla pronunzia giudiziale definitiva, delle posizioni delle parti contraenti, nel senso che, come è vietato al convenuto di eseguire la sua prestazione, così non è consentito all’attore di pretenderla), il venir meno dell’interesse del locatore all’adempimento da parte del conduttore inadempiente, il quale, senza che il locatore possa impedirlo, continua nel godimento della cosa locata consegnatagli dal locatore ed è tenuto, ai sensi dell’art. 1591 c.c., a dare al locatore il corrispettivo convenuto (salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno) fino alla riconsegna>>