La perdita di chance è situazione giuridica diversa dal danno alla salute per mancata guarigione

Cass. Sez. III, Ord. 31/01/2024, n. 2.892, rel. Rubino:

<<Il ricorrente critica la sentenza impugnata là dove ha affermato di non poter prendere in esame la richiesta di risarcimento del danno per perdita di chance, formulata soltanto in appello in via subordinata dall’appellato a fronte di una affermazione, contenuta nella CTU, secondo la quale mancava la prova del nesso causale tra l’operato dei medici e i postumi permanenti, mentre esso sarebbe stato in ipotesi configurabile in relazione a una perdita di possibilità di guarigione.

Sostiene altresì il ricorrente quello che rileva, ai fini della risarcibilità, è la descrizione ed allegazione dei fatti in cui si è concretizzato il danno e non la sua qualificazione giuridica, e sostiene di aver indicato tutti i fatti idonei al risarcimento del danno quanto meno sotto il profilo della perdita di chance, e cioè il comportamento negligente della struttura privata e che il giudice d’appello, sulla base di quei fatti, avrebbe dovuto risarcire il danno che riteneva si fosse effettivamente verificato, che comunque era un danno non patrimoniale ampiamente riconducibile alla domanda formulata. Aggiunge il ricorrente che la domanda risarcitoria era stata accolta pienamente in primo grado per cui egli non aveva alcun onere, in appello, di riformulare eventuali domande subordinate, come ritenuto erroneamente dai giudici d’appello, perché l’appellato vittorioso non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le cause petendi non esaminate dal giudice di primo grado né quella di riproporre le ragioni pretermesse, essendo sufficiente che ad esse la parte non rinunci. Quindi, sostiene che sul capo del danno non patrimoniale riconosciuto con la sentenza di primo grado si è formato ormai il giudicato interno perché non è stato oggetto di autonoma impugnazione da parte dell’appellante principale né da quello incidentale, quanto meno in riferimento alla perdita di chance.

10. – Il motivo è infondato.

Il ricorrente sostiene che la perdita di chance non è una nozione autonoma, distinta dal danno non patrimoniale per lesione del diritto alla salute e che quindi essa non necessita, ai fini della sua considerazione, di un’autonoma domanda. Sostiene di aver chiesto il risarcimento del danno biologico subito a tutto tondo, in tutte le sue sfaccettature e quindi di aver chiesto anche, ove si ritenesse che solo questo era dovuto, il risarcimento del danno da perdita di chance.

E tuttavia, l’affermazione è errata perché non coglie l’autonomia concettuale del danno da perdita di chance rispetto al danno biologico da lesione del diritto alla salute, più volte affermata da questa Corte.

Deve, in proposito, essere riaffermato il principio di diritto secondo cui il risarcimento del danno da perdita di chance non coincide con il risarcimento del danno biologico, né costituisce una semplice parte di esso, perché non ha ad oggetto né la limitazione funzionale dovuta all’errato intervento medico – a cui consegue un danno permanente alla salute – né la perdita del risultato sperato di una guarigione, ma consiste, per converso, nella perdita della possibilità di realizzare quel risultato – possibilità che, nella specie, si sarebbe potuto astrattamente ipotizzare lesa dalla negligente, passiva o superficiale condotta dei sanitari della prima struttura privata.

In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, questa Corte ha infatti puntualizzato che la “chance” non è una mera aspettativa di fatto, bensì la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato o un certo bene, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale; ne consegue che la domanda risarcitoria del danno per la perdita di “chance” è, per l’oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell’impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica (in questo senso Cass. n. 25886 del 2022, che in applicazione del principio ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto nuova e, dunque, inammissibile la domanda risarcitoria per perdita di “chance” avanzata per la prima volta in appello; v. anche Cass. nn. 24050 e 26851 del 2023)>>.

Differenza difficilmente coglibile: andava meglio argomentata.

Danno (infarto) da superlavoro, violazione dell’art. 2087 cc da aprte del datotre del lavoro e onere della prova

Molo interessanti precisazioni da Cass. sez. lav. 28.02.2023 n. 6008, rel. Zuliani, sull’oggetto.

Fatto: <<P.P., dirigente medico di primo livello in ortopedia e traumatologia, dipendente della ASL (Omissis), convenne in giudizio l’azienda datrice di lavoro per chiederne la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all’infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell’organico che l’aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro.>>

Buono l’inizio della sentenza di appello:

<<4.1. La sentenza impugnata parte dalla corretta premessa che la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e che, di conseguenza, “incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo” (pag. 3 della sentenza impugnata, ove si riporta testualmente, per condividerla, la massima ricavata da Cass. n. 4840-2006).

Altrettanto corretta è l’affermazione – anch’essa tratta da un precedente di legittimità (Cass. n. 8855-2013) – secondo cui “la disposizione di cui all’art. 2087 c.c. si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti con l’adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell’ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica, giustificandosi l’interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (Cost., art. 32), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro” (ivi)>>.

Non però il prosieguo:

<<4.2. Sennonché, a tali corrette premesse il giudice a quo non ha dato seguito là dove, per respingere la domanda (e l’appello), ha affermato che “l’appellante non ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che siano in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore” e che “non risulta neanche dedotta dall’appellante la specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza” (pag. 4 della sentenza impugnata).

In realtà, ciò che il ricorrente ha allegato – e che anche la corte d’appello risulta avere dato per pacifico – è di essere stato sottoposto per molti anni a un superlavoro, ovverosia a turni ed orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità>>

Ecco la valutazione della SC: <<“il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”;

“oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche” (Cass. n. 34968-2022).

La corte d’appello ha dunque errato nel pretendere dall’attore (e appellante) l’indicazione di “ben determinate norme di sicurezza”, essendo idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro l’allegazione (e la prova) dello svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo. >>

ci pare esatto che l’allegazione dei fatti fosse sufficiente per costituiere inadempmentio (v. rosso)

Errato è poi l’inserimento del tema della mancanza di autonomia della ASL nella decisione di assumere altro personale medico nell’ambito della motivazione sul mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova gravanti sull’attore. Si tratta, infatti, di circostanza  << che potrebbe eventualmente rilevare quale “diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”, ovverosia di un aspetto che ricade nell’ambito dell’onere della prova liberatoria gravante sul datore di lavoro convenuto, una volta che il lavoratore abbia provato la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e il nesso causale tra quest’ultima e l’evento dannoso.

In tale ottica, ovverosia nell’ambito dell’accertamento sull’allegazione del datore di lavoro di avere fatto “tutto il possibile per evitare il danno”, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare i limiti all’autonomia dell’ASL nella decisione di assumere altro personale medico, unitamente a tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, ivi compreso il ruolo dirigenziale del ricorrente all’interno dell’ASL; fermo restando che il prudente apprezzamento delle prove disponibili non è di per sé sindacabile in questa sede di legittimità>>.