Sulla diffamazione tramite opera cinematografica (fatti affermati vs. fatti solo suggeriti)

La Cassazione (sez. I civ., 19.06.2019 n. 16.506, rel. Tricomi)  decide su una domanda di risarcimento danni per diffamazione, asseritamente prodotti da un film sulla vita di Giovanni Falcone perchè lesivo dell’onore o della reputazione.

La domanda risarcitoria era stata avanzata dal magistrato Vincenzo Geraci nei confronti dei titolari del diritto d’autore.  Geraci aveva a suo tempo collaborato con Falcone, anche se poi non votò a suo favore nella delibera del CSM per l’assegnazione della carica di capo del pool antimafia, istituto dal magistrato Chinnici (prendo dai fatti storici ricordati da M. De Chiara, in nota alla sentenza, Foro it., 2019, 12, 3978, § 2).

La lunga sentenza viene qui riferita solo relativamente al profilo della conciliazione fra diritto di cronaca/di critica, da una parte, e diritto all’onore/alla reputazione, dall’altra (§ 4.2).

La Corte dapprima ribadisce che il diritto all’onore e alla reputazione cede quando viene esercitato il diritto di cronaca oppure quello di critica, entrambi gemmati dalla libertà di espressione. Illustra quindi i limiti posti all’esercizio dell’uno  e dell’altro, che non coincidono: sono meno stringenti infatti quelli posti al diritto di critica (§ 4.2.3)

La parte più interessante è quando applica questa disciplina alla fattispecie sub iudice: la quale non è collocabile in modo netto in alcuna delle due cit. categorie concettuali.

La Corte osserva infatti: <<Questa distinzione, tuttavia, tende ad essere superata, laddove l’opera artistica riguardi vicende di cronaca ancora in evoluzione, utilizzi i nomi propri delle persone coinvolte e adotti un taglio al contempo sia narrativo che giornalistico o documentaristico, come nel caso in esame, dovendosi dare allora prevalenza agli aspetti di tipo informativo/documentaristico, rispetto a quelli di tipo artistico/creativo, venendo in rilievo la pretesa di raffigurare in un’unità temporale sia pur ridotta, una vicenda che è conosciuta e di cui le cronache hanno parlato, anche con dovizia di dettagli, di modo da applicare i criteri di valutazione della verità putativa più confacenti al caso di specie >> (§ 4.2.4, primo per.).

Non è esatto allora intepretare questo passo nel senso che <<la corte premette che nell’opera in esame l’intento cronachistico è prevalente>> (così De Chiara , cit., § 4). La Corte, invece, dice che, quando ricorrono sia l’intento cronachistico che quello critico, si deve fare prevalere il primo (condivisibilmente, direi, dato che -in presenza di duplice anima dell’opera dell’ingegno- va applicata la disciplina di quella più lesiva).

Ne segue allora che in tale caso <<la valutazione della sussistenza dell’esimente della verità putativa deve attenersi ai più stringenti criteri richiesti al pari dell’esercizio del diritto di cronaca, distinguendo tra fatti oggettivamente accertati e le opinioni raccolte, sia pure da fonti attendibili, senza limitare il giudizio di liceità sull’esplicazione del diritto di critica attuato mediante la realizzazione dell’opera cinematografica ad una valutazione degli elementi formali ed estrinseci, ma estendendolo anche ad un esame dell’uso di espedienti stilistici, che possono trasmettere agli spettatori, anche al di là di una formale — ed apparente — correttezza espositiva, connotazioni negative sulle persone e sul ruolo rivestito da loro in una più ampia vicenda; per cui, in definitiva, ogni accostamento di notizie vere può considerarsi lecito se non produce un ulteriore significato che le trascenda e che abbia autonoma attitudine lesiva, considerata nel complesso della narrazione filmica e delle interrelazioni causali rappresentate in audio e video o implicitamente suggerite>> ( § 4.2.4 secondo per.).

Sintetizzerei allora così due insegnamenti traibili dal riportato (e un pò contorto) passo, relativamente alla c.d “verità putativa”:

1) in un caso (come quello sub iudice), che non è puro esercizio nè del diritto di critica né di quello di cronaca, bisogna attenersi ai limiti più rigorosi cioè a quelli posti al diritto di cronaca;

2) detti limiti riguardano non solo i fatti apertamente introdotti nella narrazione, ma anche quelli suggeriti, insinuati o evocati solo per implicito.

Sulla disciplina della “verità putativa”, va letta la recente Cass. 29.10.2019 n. 27.592, redatta con la sua consueta chiarezza dal giudice Rossetti, relativa ad una diffusione via web di notizie diffamanti a carico di un imprenditore operante nel settore della ristorazione (anche tramite servizi di buoni pasto a pubbliche amministrazioni). Riporto la sintesi finale: <<In conclusione, per la consolidata giurisprudenza di questa Corte il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente sol perché l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste solo se l’autore riferisca donde abbia appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti>> (§ 2.5.3).