Marcare un profumo col nome di vitigno veneto non comporta inganno nel pubblico e quindi non ne produce la decadenza

Trib. Venezia sez. spec. impr. 14-02.2023 n. 823 , RG 5951/2021, Glerage c. Montagner, rel. Tosi, sul marchio Glera per profumi:

<<I profumi in commercio solitamente portano nomi di pura fantasia, eventualmente solo evocativi di luoghi, sentimenti, sostanze (“Sicily”, “Opium”, “Poison”, fra i molti noti) ma sui quali il pubblico non fa riposare alcuna aspettativa relativamente all’intrinseco del prodotto. L’uso del nome di un’uva nota (almeno nel Veneto) per la produzione del Prosecco, i vari richiami di confezione e lancio pubblicitario alla vite, l’affermazione che il profumo sia un “tributo al Veneto” e ed anche il richiamo pubblicitario (nella stessa intervista alla Montagner) alla “piramide olfattiva del Glera vitigno” non sono nulla di più che una suggestione commerciale, idonea forse ad attrarre il pubblico, ma non ad ingannarlo.
In effetti l’apposizione del nome Glera ad un profumo non fa sorgere nel pubblico, in ragione delle normali aspettative che circondano questo tipo di prodotto, inganno o equivoco sulla natura del prodotto (che continua ad apparire evidentemente come un profumo) né sulla sua provenienza geografica (irrilevante per i profumi) e neppure a creare inganno riguardo alla qualità del prodotto.
Il nome del profumo Glera non basta infatti a creare aspettative sul tipo di sentori dello stesso (si pensi ad “Opium” che non desta aspettative di aromi dell’oppio) tanto più che non può certo dirsi patrimonio generale la conoscenza degli specifici sentori dell’uva Glera.
L’accenno della intervista alla lunga elaborazione del prodotto, all’opera di maestri profumieri, alla distanza del prodotto dai profumi commerciali, anche se eventualmente non vero, concreta informazione autonoma e indipendente dall’uso del segno Glera>>.

Un interessante caso di marchio decettivo

Trib. UE 29.11.2023, T-107/23, Myforest Foods c. EUIPO, conferma la ingnnevolezza del marchio denominativo MYBACON per sostituti della carne (cl. 29: ‘Fungi-based meat substitutes; meat substitutes; prepared meals consisting primarily of meat substitutes including fungi-based meat substitutes’)

Ce ne notizia Marcel Pemsel in IPKat.

Giustamente il T. ritiene irrilevante l’argomento per cui il pubblico, che sceglie questi cibi, è attento oltre la media e non si fa ingannare.

Infatti sono acquisti fatti di solito  in fretta e senza leggere i dettagli in etichetta; e comunque possono essere fatti anche da chi di solito non acquista cibi del genere, rientrando allora nel publico rilevante

Pemsel ricorda il nesso con la disciplina delle pratiche commerciali scorrette per ingannevolezza (da noi: art. 21 ss cod. cons.): concetto che non si discosta da quello della disciplina dei marchi de qua (art. 14.1.b cod. cons.).

Marcel coglie una differenza però , relativa ai materiali su cui ancorare il giudizio (le informazioni in etichetta non contano per i marchi, contano per la disciplina consumeristica).     Forse esatto, alla luce dell’ampiezza del concetto di “pratica commerciale” (da noi: art. 18.1.d) del cod. cons.). Solo che anche un  marchio in sè non ingannevole può diventare tale con l’uso (art. 21.2 c.p.i.): quindi la differenza potrebbe svanire.