Il concetto di ordine pubblico nel diritto dei marchi europeo: si pronuncia l’avvocato generale

Sono state depositate la scorsa estate le Conclusioni dell’avvocato generale Bobek  nella causa C 240/18 P, Constantin Film Produktion GmBH contro EUIPO.

La Constantin Film Produktion  (di seguito: la ricorrente) domandava la registrazione del marchio dell’Unione Europea <<Fack Ju Göhte>> per i servizi di cui alle <<classi 3, 9, 14, 16, 18, 21, 25, 28, 30, 32, 33, 38 e 41 ai sensi dell’Accordo di Nizza relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi, del 15 giugno 1957, come riveduto e modificato>>, § 7.

La domanda veniva respinta perché il marchio è contrario al buon costume e in particolare all’articolo 7 paragrafo 1 lettera F del regolamento 207/2009, secondo cui <<1.  Sono esclusi dalla registrazione:

(…)  f) i marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume;>>

(La  ricorrente aveva impugnato la decisione anche per il articolo 7 paragrafo 1 lettera B del medesimo regolamento, relativo alla carenza di distintività).

L’avvocato generale (di seguito: l’AG)  affronte in dettaglio i concetti di <<ordine pubblico>> e <<buon costume>> e l’eventuale sovrapposizione tra loro, spesso affermata.

Affronta dapprima il problema della libertà di espressione nel diritto dei marchi e dice che è meno tutelato di quanto avvenga in diritto d’autore:

<<  56.   In sintesi, pur non essendo un obiettivo primario del diritto dei marchi, la libertà di espressione vi resta evidentemente presente. In tale prospettiva, l’affermazione del Tribunale di cui al punto 29 della motivazione, è forse intesa a veicolare un concetto lievemente diverso: non che la libertà di espressione non svolga alcun ruolo nel diritto dei marchi, bensì che, al contrario di quanto avviene nel campo delle arti, della cultura e della letteratura, il peso che deve essere attribuito alla libertà di espressione nel settore del diritto dei marchi possa essere in qualche misura diverso, magari un po’ più leggero, nel bilanciamento complessivo di diritti ed interessi in gioco.    57. Se intesa in base al primo significato (letterale), l’affermazione di cui al punto 29 della sentenza impugnata è manifestamente erronea. Se interpretata in modo corrispondente al secondo significato appena esposto, siffatta affermazione è, a mio avviso, difendibile: sebbene la libertà di espressione, nonché altri diritti fondamentali potenzialmente in gioco, debbano essere presi in considerazione nell’operazione di bilanciamento complessivo, la tutela della libertà di espressione non è l’obiettivo primario della protezione dei marchi>>

Poi tratta il tema del rapporto tra ordine pubblico e buon costume, §§ 58 ss.

Ricorda al § 62 la funzione della del diritto di marchio, senza particolari innovazioni: << Generalmente si dice che la protezione di un marchio conferisce al relativo titolare un diritto esclusivo sul collegamento che il pubblico di riferimento effettua tra il titolare stesso e i prodotti o i servizi collegati (30). Ciò consente ai commercianti di imprimere nella mente del consumatore i loro prodotti o servizi, associando qualità, innovazione o altre caratteristiche all’immagine di uno specifico marchio. In tal senso, la Corte ha dichiarato che il diritto esclusivo conferito dalla protezione dei marchi ha il fine di garantire che il marchio possa adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o del servizio nonché altre funzioni come quelle di indicare la qualità di tale prodotto e servizio o quelle di comunicazione, investimento e pubblicità >>.

Al § 69 e seg. affronta il tema della sovrapponibilità tra i due concetti : la sovrapponibilità può anche esserci, ma una differenza concettuale esiste . Vanno lettui i paragrafi 75-76 come premessa per poi passare agli §§ 78-80, dov’è esplicitata tale differenza.

E dunque la premessa è che <<  75.  Gli esempi sopra citati dimostrano che, nonostante la sovrapposizione tra le due categorie (che è una logica conseguenza della sovrapposizione tra norme giuridiche e norme etiche a cui esse si riferiscono), tra le due vi è anche un certo grado di differenziazione. Direi che vi è in effetti una differenza concettuale in relazione a come, da chi e riguardo a che cosa è definito il contenuto di ciascuna di tali categorie.   76. L’ordine pubblico è una concezione normativa di valori e obiettivi che la pertinente autorità pubblica stabilisce dover essere perseguiti ora ed in futuro, ossia in prospettiva. L’ordine pubblico esprime pertanto le intenzioni dell’ente normativo pubblico quanto alle norme che devono essere rispettate nel contesto sociale. Il suo contenuto dovrebbe poter essere accertato per mezzo di fonti ufficiali di diritto e/o documenti politici. Comunque sia espresso, in modo molto simile a tracciare una rotta, l’ordine pubblico deve anzitutto essere stabilito da una pubblica autorità e soltanto dopo può essere realizzato.  77. Il buon costume si riferisce, a mio avviso, a valori e convinzioni a cui una determinata società aderisce in un dato momento, stabiliti e attuati dal consenso sociale predominante nell’ambito di tale società in un dato momento. A differenza della natura discendente dell’ordine pubblico, il buon costume si sviluppa dal basso verso l’alto. Si evolve altresì nel corso del tempo: ma nell’accertarlo, lo sguardo è principalmente fisso sul passato e sul presente. Naturalmente, in termini di ciò che si vuole raggiungere, anche il buon costume è normativo e rivolto al futuro, nel senso che tale insieme di regole ha anche l’ambizione di indurre e di mantenere un determinato comportamento>>

In via applicativa ne segue che <<78.   La differenza fondamentale tra le due nozioni consiste nel modo in cui esse sono stabilite e dunque verificate. La Corte EFTA ha fatto riferimento ad una differenziazione analoga nell’ambito della direttiva 2008/95/CE , quando ha dichiarato che «il rifiuto basato su motivi di “ordine pubblico” deve fondarsi su una valutazione di criteri oggettivi mentre l’opposizione ad un marchio basata sul “buon costume” attiene ad una valutazione di valori soggettivi» .  79. Dal momento che l’ordine pubblico è strutturato in modo discendente, il suo contenuto può essere verificato «oggettivamente», in quanto detto ordine pubblico deve essere stato stabilito da qualche parte. L’ordine pubblico può dunque essere studiato «a tavolino» negli uffici delle autorità pubbliche, facendo riferimento a leggi, politiche e dichiarazioni ufficiali. Può essere necessario trovare la fonte esatta di una data affermazione politica, di modo che la relativa comunicazione (o piuttosto il rifiuto di prevedere qualcosa facendo riferimento all’ordine pubblico) soddisfi i criteri della prevedibilità, dell’assenza di arbitrarietà e della buona amministrazione. Tuttavia, una volta soddisfatti tali requisiti, occorrono volontà e ambizioni amministrative unilaterali.   80. Non si può, invece, dire lo stesso a proposito del buon costume. Quest’ultimo non può essere individuato al di fuori delle norme e del contesto sociali. La sua identificazione richiede almeno una qualche valutazione empirica di ciò che la società di riferimento (il pubblico in parola) considera, in un determinato momento, un’accettabile regola di condotta. In altri termini, per osservare se uno specifico segno è contrario al buon costume, è necessario avvalersi di mezzi di prova relativi al caso specifico per accertare in che modo il pubblico di riferimento reagirebbe, presumibilmente, se tale segno fosse apposto sui corrispondenti prodotti o servizi>>.

Non sfugge che le affermazioni dell’AG toccano temi di grande impegno teorico.

Quanto ai possibili esiti applicativi, <<in alcuni casi, le due categorie si sovrapporranno. Un buon grado di ordine pubblico dovrebbe idealmente riflettere e consolidare la moralità pubblica. In altri casi, ciò che inizialmente è stato soltanto ordine pubblico si trasformerà in modo graduale anche in buon costume>> ,§ 81.

Non bisogna però insistere <<nel trasformare la distinzione tra ordine pubblico e buon costume in una dissertazione accademica. Tuttavia, nell’ambito della presente causa, tale distinzione fa la differenza. Essa è importante proprio per sapere che cosa avrebbe dovuto essere preso in considerazione da parte dell’EUIPO e, indirettamente, del Tribunale, quando il primo ha respinto la domanda di registrazione della ricorrente invocando lo specifico impedimento del buon costume e il secondo ha accolto tale approccio>, § 82.

In sisntesi <<se intende far valere l’impedimento (assoluto) alla registrazione costituito dal buon costume, l’EUIPO deve dire, facendo riferimento alla percezione prevalente tra il pubblico in questione, per quale motivo ritiene che un dato segno offenderebbe il buon costume. Di certo non si propone che l’EUIPO debba effettuare uno studio empirico approfondito per stabilire in che cosa consista il buon costume in relazione ad un determinato segno. Infatti, condivido senza difficoltà la proposta che l’EUIPO ha formulato all’udienza, secondo cui il massimo che si può fornire è una «stima informata». Tuttavia, tale stima deve essere radicata in un contesto sociale specifico e non può ignorare la prova evidente che conferma o potenzialmente solleva dubbi su cosa l’EUIPO considera conforme o non conforme al buon costume in una data società in un dato momento>>, § 83.

Questo in generale.

Nel caso sub iudice secondo l’AG non ricorrono i parametri richiesti per ravvisare violazione del buon costume. Egli ricorda che secondo l’Ufficio il pubblico di riferimento è un pubblico generico e di lingua tedesca (§ 86) : per cui ha errato il Tribunale nell tener conto solo ed esclusivamente del segno, isolandolo dai più ampi elementi della percezione del contesto sociali, se provati, § 88.

In causa <<le parti hanno ampiamente discusso del fatto che il film «Fack Ju Göhte» fosse stato autorizzato ad essere proiettato con detto titolo e che non vi fosse, a quanto pare, alcuna restrizione all’accesso da parte di un pubblico giovane. Gli argomenti della ricorrente al riguardo suggerivano in sostanza che, se le rispettive autorità di controllo negli Stati germanofoni dell’Unione europea non avevano avuto alcun problema con il titolo del film, perché allora l’EUIPO dovrebbe sollevarne nel processo di registrazione di un marchio eponimo? L’EUIPO ha sostenuto, invece, che la normativa sull’uscita e la proiezione dei film in uno Stato membro è semplicemente una questione del tutto diversa dalla normativa europea in materia di marchi.>> § 89.

L’avvocato non è d’accordo con quest’ultima posizione dell’Ufficio.

E’ vero che astrattamente sono sistemi normativi diversi: <<ad un livello strutturale ed istituzionale, concordo con l’EUIPO: classificazione e regolamentazione dei film in uno Stato membro rappresentano veramente un sistema normativo diverso dal diritto dei marchi. Pertanto, ciò che un’autorità nazionale di controllo dei film ha deciso in relazione alle condizioni per l’uscita e la proiezione di un film non è certamente di per sé determinante ai fini della valutazione che deve essere effettuata ai sensi della normativa sui marchi e, a livello più specifico, a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009.>>aragrafo 90.

Tuttavia. non ritiene <<che la valutazione possa fermarsi a quel punto. Anche se si tratta di sistemi normativi realmente diversi, vi è una sostanziale sovrapposizione tra tali sistemi paralleli: i due contesti di valutazione hanno come punto di partenza lo stesso pubblico e la valutazione della moralità e della trivialità nell’ambito dello stesso pubblico nello stesso momento o in un momento molto simile. A tale livello, come riconosciuto dallo stesso EUIPO (57), per inciso, il giudizio morale sulla trivialità di un’espressione è realmente importante. >>, § 91.

Ne segue che le precedenti valutazioni effettuate da vari organi nazionali << 92. (…) diventano effettivamente rilevanti. Se esistono e sono portate all’attenzione dell’EUIPO, le valutazioni di siffatti organi nazionali, che senza dubbio si trovano in una posizione migliore, rispetto ad un ufficio marchi dell’Unione europea, per valutare che cosa sia (im)morale e triviale in un dato momento in un dato Stato membro, dovrebbero essere tenute nella giusta considerazione.   93.    Naturalmente, ciò non impedisce all’EUIPO di concludere che il marchio richiesto è contrario al buon costume, soprattutto se tali principi devono essere accertati su scala europea. Tali conclusioni e prove empiriche, in particolare quando riguardano esattamente lo stesso spazio linguistico e geografico scelto dall’EUIPO per la propria valutazione, rendono tuttavia più stringenti i parametri della motivazione che l’EUIPO deve fornire se vuole distaccarsi da quanto gli organi nazionali hanno accertato essere i parametri accettabili di moralità nell’ambito dello stesso spazio, con riguardo, a quanto risulta, allo stesso pubblico e allo stesso momento>>.

Questo parametro non è stato rispettato nel caso de quo. << 94.  Nel caso di specie, tale parametro non è stato rispettato. Nelle varie fasi del procedimento dinanzi all’EUIPO così come dinanzi al Tribunale, la ricorrente ha posto l’accento, senza che tali dichiarazioni venissero contraddette, sul fatto che il film era stato un grande successo nei paesi di lingua tedesca, a quanto risulta senza dare adito ad una vera e propria disputa circa il titolo dello stesso; che il titolo del film aveva ricevuto le autorizzazioni del caso ed era stato ammesso alla proiezione per un pubblico giovane; e che la percezione positiva del film può essere altresì comprovata dal suo inserimento nel programma didattico del Goethe-Institut.     95.    Si ribadisce che nessuna di tali dichiarazioni è di per sé concludente. Del pari, la sorte del film non è decisiva per la registrazione di un marchio. Tuttavia, a fronte di prove così stringenti riguardo alla percezione sociale della moralità e della potenziale trivialità dello stesso identico titolo, l’EUIPO avrebbe dovuto dedurre argomenti molto più convincenti per poter affermare che, sebbene diversi organi del pubblico di lingua tedesca non valutassero l’espressione in grado di suscitare scetticismo in tale pubblico, non si può comunque registrare un marchio eponimo perché è un’offesa al buon costume arrecata allo stesso identico pubblico>>.

In generale <<una siffatta percezione secondo me riflette correttamente anche il ruolo svolto dal buon costume nell’ambito del diritto dei marchi dell’Unione europea. Dal momento che individuare e accertare il buon costume (nonché l’ordine pubblico) non è di certo la funzione principale dell’EUIPO(58), è difficile immaginare che l’EUIPO abbia l’incarico di iniziare improvvisamente a coniare una solida idea di buon costume, sganciata da quella che sembra essere prevalente nello Stato membro o negli Stati membri in questione (o piuttosto molto più severa di quest’ultima)>>, § 96.

L’AG  -per il caso che la Corte non concordi con quanto sopra-  affronta pure la questione della disparità di trattamento applicato dall’Ufficio rispetto ai precedenti giurisprudenziali, unitamente a quella della buona amministrazione.

Esaminati questi due concetti (§§ 108-111) , ricorda in particolare la decisione sul marchio <<Die Wanderhure>>, pure titolo di film, emessa il 28.05.2015 dalla commissione di ricorso dell’EUIPO nel caso R 2889/2014-4, che andò in senso opposto a quella impugnata nel caso in esame.

LAG precisa che <<l’imperativo della coerenza dell’approccio e dei criteri da applicare ha una conseguenza di carattere procedurale: è, naturalmente, sempre possibile discostarsi dal precedente approccio decisionale, ma motivando e spiegando in maniera coerente tale scostamento>>, §§ 111.

Alla luce di ciò, egli ritiene, <<che, date le innegabili somiglianze prima facie tra il contesto in cui è stata presentata la domanda di registrazione del segno di cui trattasi, da un lato, e la fattispecie relativa alla causa Die Wanderhure, dall’altro, nonché il fatto che la ricorrente abbia più volte fatto riferimento a tale decisione nelle sue osservazioni, sembra ragionevole aspettarsi che l’EUIPO fornisca (e il Tribunale richieda) una spiegazione plausibile in relazione alle differenti soluzioni raggiunte in tali due fattispecie.>>, § 117.

Perseguire l’obiettivo della coerenza nella prassi decisionale è un obiettivo a lungo termine, dice l’AG. <<Se si considera la molteplicità dei possibili scenari concreti a cui l’EUIPO si può trovare di fronte, il compito non è di certo semplice. Tali difficoltà non possono però essere invocate quale motivo per abbassare o addirittura rinunciare ai parametri quando si devono spiegare le ragioni di una decisione>>, § 124.

Tuttavia <<siffatto obbligo non significa che non si possa giungere ad una diversa soluzione in un caso specifico, se la differenza tra i casi è adeguatamente spiegata, o modificare completamente l’approccio interpretativo, se lo scostamento è comunicato e spiegato. L’analogia con il processo decisionale giudiziario a tale riguardo è alquanto evidente, sebbene naturalmente i parametri stabiliti in materia di motivazione non siano altrettanto stringenti. Agli organi giurisdizionali, analogamente, non è fatto divieto di cambiare la propria giurisprudenza nel tempo ma essi sono tenuti a spiegare un potenziale cambiamento di una data linea giurisprudenziale>>, § 125.

In entrambi i casi, il comune denominatore è l’eguaglianza di fronte alla legge, ma anche, dal punto di vista del destinatario di una decisione, la sua prevedibilità. Infatti <<anche l’operatore più prudente non può pianificare l’intera sua strategia commerciale se, in un determinato caso, si tiene conto di taluni elementi e l’approccio alla valutazione è, nell’insieme, piuttosto liberale e permissivo, mentre in circostanze concrete simili, relative all’applicazione delle stesse norme giuridiche ad un caso diverso, gli stessi elementi o elementi simili sono dichiarati privi di rilevanza e l’approccio complessivo è molto più rigoroso>>, § 126.

In sintesi, secondo l’AG il Tribunale è incorso in un errore di diritto <<per non aver sanzionato il fatto che l’EUIPO non abbia adeguatamente spiegato lo scostamento dalla propria passata prassi decisionale o non abbia motivato in modo congruo il fatto che sulla domanda di registrazione del segno controverso si dovesse decidere in modo diverso rispetto alla soluzione raggiunta in un caso simile, sottoposto all’attenzione dell’EUIPO da parte della ricorrente.>>, § 128.

Attendiamo ora di conoscere la posizione della Corte di Giustizia.

Su questo tema avevo segnalato il precedente del Tribunale Ue 12.12.2019, T-683/18, nel post <<Contrarietà all’ordine pubblico nel diritto europeo dei marchi>>, relativo al marchio denominativo-figurativo <<Cannabis Store Amsterdam>>, stranamente  non menzionato.