Marchio generico, di uso comune e parodia dello stesso

Il marchio, costituito dalla parola <Supreme> in bianco su sfondo rettangolare rosso per abbigliamento, è stato oggetto della decisione portata da Trib. Milano 14.07.2020, n. 4218/2020, RG 21982/2018, che ne ha confermato la validità sotto il profilo della non genericità ex art. 13.1.b cpi  e della non qualificabilità come di <uso comuine> ex art. 13.1.b. cpi

Sul primo punto il giudizio è esatto.

Sul secondo invece è assai dubbio, parendo il termine <Supreme> assai comune nel commercio (anche se probabilmente la complessità data da lemma+colori muta questo primo giudizio).  Non persuasivo dunque il Trib. quando così motiva<: < Al fine di stabilire se un marchio sia corrispondente a espressioni del linguaggio comune, si deve prendere in considerazione la sua percezione negli ambienti interessati nel territorio nel quale la registrazione esplica effetto (v. sentenze CGEU 4 maggio 1999, cause riunite C-108/97 e C-109/97, Windsurfing Chiemsee, Race. pag. I-2779, punto 29, 12 febbraio 2004, causa C-363/99, Koninklijke KPN Nederland, Race. pag. I-1619, punto 77, e causa C-218/01, Henkel, Race. pag. I- 1725, punto 50 e, da ultimo, 9 marzo 2006, causa C-421/04, Matratzen Concord AG, punto 24 ).  Nella citata sentenza Matratzen (punto 25) la Corte UE rileva che è ben possibile che, a causa delle differenze linguistiche, culturali, sociali ed economiche tra gli Stati membri, un marchio che è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi interessati in uno Stato membro non lo sia in un altro Stato membro (v., per analogia, quanto al carattere ingannevole di un marchio, sentenza 26 novembre 1996, causa C-313/94, Graffione, Race. pag. I-6039, punto 22).   Nel caso di specie deve escludersi che i consumatori di lingua italiana che operano nel mercato nazionale, venuti in contatto con il segno di causa, lo avvertano, senza ulteriore riflessione, come un segno di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio. Le convenute non hanno dimostrato che la lingua inglese venga utilizzata, anche solo in alternativa alla lingua nazionale, per rivolgere delle indicazioni descrittive ai membri del pubblico considerato (sul punto si ricorda come il Trib. UE, con sentenza 15 ottobre 2008, causa T-405/05, Powerserv Personalservice/UAMI – MANPOWER ha rilev ato, ai fini della valutazione in punto di capacità distintiva del marchio, che “non  è sufficiente una semplice conoscenza diffusa dell’inglese da parte del pubblico pertinente o di una parte significativa del medesimo, se l’inglese non viene effettivamente utilizzato (…) per rivolgersi a questo stesso pubblico”)>.

E’ giusto che l’onere di provarlo spetti ai convenuti. E’ però anche vero che il giudice poteva ritenerlo nullo d’ufficio ex art. 122 cpi , se avesse ravvisato l’ <uso comune>: esito possibilissimo se non probabile, come detto .

Più interessante  è la difesa di uso parodistico da parte dei covnenuti, i quali -a loro dire- lo avrebbero apertamente utilizzato come tale e cioè con apposita dichiarazione in tale senso.

Però l’eccezione di parodia, ammissibile anche per i marchi pur non espressamente prevista  (è invece ora prevista nel diritto di autore dall’art. 102 nonies l. aut. solo per gli usi on line), è di assai difficile (forse impossibile) accoglibilità, quando proposta da un concorrente. Il Tribunale la respinge  così: <Si può quindi affermare che la regola generale sia quella della protezione del marchio contro qualsiasi forma di agganciamento parassitario o di minaccia cheinterferisca con i messaggi comunicati dal marchio stesso e che il rischio diconfusione sull’origine rappresenti soltanto un’ipotesi particolare diagganciamento o di pregiudizio. Restano esclusi dall’ambito di operativitàdell’azione di contraffazione i c.d. usi civili del marchio altrui, da individuarsi inquegli usi che si collocano nella sfera esclusivamente privata. Tra questi rientra la parodia del marchio altrui intesa come genere artistico, che dà luogo ad opere autonome da quelle parodiate. Tale non è l’uso commerciale di segni distintivi, suscettibili di essere avvertiti come caricature di marchi altrui. Tale secondo caso, come osservato in dottrina, non è sussumibile nella scriminante dell’uso parodistico (per finalità artistiche) del marchio altrui ma costituisce, piuttosto, un’ipotesi di contraffazione del marchio, instaurando, per finalità commerciali, un agganciamento al messaggio di cui il marchio parodiato è portatore, che si traduce, per l’autore della parodia, in uno sfruttamento della notorietà del marchio parodiato, cui consegue detrimento (cfr., in giurisprudenza, Trib. Milano,4 marzo 1999, caso “Agip”; Trib. Torino, 9 marzo 2006, caso “Porco Diesel”)>>.

Il raginamento sul punto è corretto , tranne l’inciso <Tra questi rientra la parodia del marchio altrui intesa come genere artistico, che dà luogo ad opere autonome da quelle parodiate.>: non si può parlare di <opere> nei marchi, ma solo nel diritto di autore. Qui il giudice ha fatto una leggera confusione ma per il resto ha ragione.