Sui patti successori (art. 458 cc)

Cass. sez. II sent. 09/01/2024, n. 722, rel. Rolfi:

<<Questa Corte ha, anche recentemente, chiarito che, per stabilire se una determinata pattuizione ricada sotto la comminatoria di nullità di cui all’art. 458 c.c. occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione o debbano comunque essere compresi nella stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello jus poenitendi; 4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba aver luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 14110 del 24/05/2021; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1683 del 16/02/1995).

Ulteriormente, questa Corte ha chiarito che, in tema di patti successori, l’atto mortis causa, rilevante gli effetti di cui all’art. 458 c.c., è esclusivamente quello nel quale la morte incide non già sul profilo effettuale (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a disciplinare rapporti e situazioni che vengono a formarsi in via originaria con la morte del soggetto o che dalla sua morte traggono comunque una loro autonoma qualificazione, sicché la morte deve incidere sia sull’oggetto della disposizione sia sul soggetto che ne beneficia: in relazione al primo profilo l’attribuzione deve concernere l’id quod superest, ed in relazione al secondo deve beneficiare un soggetto solo in quanto reputato ancora esistente al momento dell’apertura della successione (Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 18198 del 02/09/2020).

Occorre poi rammentare che, in fattispecie affine a quella oggetto del presente ricorso, questa Corte ha ritenuto che l’assunzione tra fratelli dell’obbligo di conguaglio per la differenza di valore dei beni loro donati in vita dal genitore non violi il divieto di patti successori, non concernendo i diritti spettanti sulla futura successione mortis causa del genitore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24291 del 27/11/2015).

Di tali principi, pur in parte richiamati nella decisione impugnata, la Corte d’appello di Milano, nell’affermare il contrasto della scrittura del 15 novembre 2008 con il disposto di cui all’art. 458 c.c., non risulta avere fatto buon governo.

La Corte territoriale, invero, ha ritenuto di ricondurre la scrittura in questione all’ambito dei patti successori sulla scorta della considerazione che le pattuizioni contenute nella scrittura medesima miravano ad operare un riequilibrio tra le posizioni patrimoniali di figli dopo che solo alcuni di essi avevano ricevuto donazioni – peraltro non ben inquadrate nella decisione stessa – da parte dei genitori, concludendo che con tale riequilibrio si era mirato ad operare una ripartizione anticipata delle quote ereditarie tra i futuri aventi diritto alla successione, rinunciando a muovere contestazioni su eventuali lesioni della quota di legittima a ciascun erede spettante.

È agevole notare, tuttavia, che, in tal modo, la Corte territoriale ha omesso di verificare la presenza di almeno due dei presupposti individuati da questa Corte ai fini dell’applicazione dell”art. 458 c.c., e cioè, da un lato, se i promittenti – e cioè i genitori delle odierne parti – avessero inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello jus poenitendi e, dall’altro lato, se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, avesse luogo mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato, dovendosi osservare, anzi, che la stessa scrittura, pur riconducendo ai genitori – e non all’odierno controricorrente, formale titolare – il promesso trasferimento delle quote della società, veniva a qualificare lo stesso come donazione e non come attribuzione mortis causa.

Le conclusioni cui la Corte territoriale è pervenuta risultano, poi, ancora più fragili ove si consideri che la stessa – senza alcuna valutazione del patrimonio complessivo dei genitori disponenti – ha postulato apoditticamente sia che l’intesa in questione venisse in sostanza ad investire i due futuri assi ereditari dei genitori nel loro complesso sia che le attribuzioni convenute nella scrittura fossero finalizzare ad evitare future contestazioni in tema di lesione di legittima.

In alcun modo, invece, la Corte territoriale ha verificato se le attribuzioni contemplate nella scrittura mirassero più semplicemente ad operare un riequilibrio delle posizioni patrimoniali unicamente in considerazione delle donazioni già conseguite da alcuni dei figli, e senza in alcun modo inserire funzionalmente tale riequilibrio nell’ambito della futura successione di ciascuno dei genitori, profilo, quest’ultimo, che anzi non appare in alcun modo desumibile in modo inequivoco dal tenore della scrittura stessa.

Vi è da dire, ulteriormente, che da quest’ultima non emerge neppure una volontà abdicativa dei paciscenti in ordine all’assetto delle future successioni, atteso che le espressioni impiegate nella scrittura – ritenute invece pregnanti dalla decisione impugnata – non presentano alcun univoco riferimento alle successioni medesime (considerato, come già fece la citata Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24291 del 27/11/2015, “che, ai fini della determinazione della porzione disponibile e delle quote riservate ai legittimari, occorre avere riguardo alla massa costituita da tutti i beni che appartenevano al “de cuius” al momento della morte – al netto dei debiti – maggiorata del valore dei beni donati in vita dal defunto; pertanto, siffatta lesione intanto può configurarsi in quanto sia verificata con riferimento alla consistenza del patrimonio al momento della morte del de cuius, momento fino al quale esso può incrementarsi per successivi acquisti”) ed anzi, proprio sulla scorta del tenore letterale della scrittura, appaiono riferibili, non agli assetti delle future successioni, bensì alle “situazioni patrimoniali pregresse”, per usare proprio una locuzione contenuta nella scrittura medesima.

Ribadito, allora, il principio per cui l’impegno assunto da fratelli, d’intesa con i genitori, di procedere a forme di conguaglio o compensazione per la differenza di valore dei beni loro donati in vita dai genitori non viola il divieto di patti successori, in quanto non viene ad investire i diritti spettanti sulla futura successione mortis causa del genitore ed anzi non trova in quest’ultima il presupposto causale, si deve concludere che la decisione della Corte territoriale ha erroneamente ritenuto di ravvisare, in simile pattuizione, una ipotesi di violazione del disposto di cui all’art. 458 c.c.>>

Purtroppo non è dato leggere la scrittura 15 novembre 2008 impugnata

La donazione sottoposta a condizione sospensiva “si premoriar” non viola il divieto di patti successori (anche se il donante è già affetto da male incurabile)

Cass. 13.12.2023 sez. 2 n° 34.858, rel. Fortunato:

<<Ai fini della configurazione di un patto successorio vietato, occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione e se siano, comunque, ricompresi nella successione stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello “jus poenitendi”; 4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il programmato trasferimento, dal promittente al promissario, avrebbe dovuto aver luogo “mortis causa”, ossia a titolo di eredità o di legato (cfr. da ultimo, Cass. 14110/2021; già in tal senso Cass. 1683/1995; Cass. 2404/1971).

L’art. 485 [rectius: 458]¯ c.c. mira a salvaguardare il principio – di ordine pubblico – secondo cui la successione mortis causa può essere disciplinata, oltre che dalla legge, solo dal testamento (cd. tipicità degli atti mortis causa) e a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente.

In considerazione della ratio del divieto sono – invece – sottratti all’ambito applicativo della norma i negozi in cui l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene ad incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione.

In particolare, secondo un autorevole orientamento dottrinale (condiviso esplicitamente da questo Corte: cfr. Cass. 19198/2020), l’atto mortis causa vietato (diverso dal testamento) è destinato a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a quando il soggetto è in vita.

Il negozio mortis causa investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, sia pure subordinandone gli effetti alla morte di una delle parti.

Nei primi tale evento incide sia sull’oggetto che sulla posizione del beneficiario, nel senso che la disposizione mortis causa interessa non il bene come si trova al momento dell’atto, ma come esso figura nel patrimonio del disponente al momento della morte (cd. quod superest) e nel quale il beneficiario è considerato tale in quanto esistente al momento in cui l’atto acquisterà definitiva efficacia.

In carenza di tali condizioni il negozio integra un atto inter vivos ed è in genere valido, salvo che specifiche clausole o condizioni contrattuali conservino in capo al disponente il potere di farne venir meno gli effetti e il carattere vincolante.

In definitiva, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza produrre alcun effetto, nemmeno prodromico o preliminare.

L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perché qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. SU 18831/2019, nonché Cass. 18198/2020).

Su tali premesse la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte ha da tempo riconosciuto piena validità, sia pure in presenza di determinate condizioni, alla donazione con clausola sospensiva di efficacia subordinata alla premorienza del donante (clausola si premoriar; Cass. 2619/1976; nello stesso senso Cass. 576/1950; contra Cass. 4053/1987).

Ferma, difatti, la nullità della donazione mortis causa per violazione dell’art. 485 [altro uguale laspus calami] c.c., la donazione con clausola sospensiva di premorienza del donante produce effetti preliminari immediati in vita del donante ed investe un singolo bene inteso come entità separata dal resto del patrimonio, sempre che permangano l’irrevocabilità della disposizione e l’immediata costituzione del vincolo giuridico tra le parti, con conseguente attualità dell’attribuzione la cui efficacia è solo differita alla morte, avendo il donatario facoltà di compiere atti conservativi e finanche di disporre del bene (sotto condizione).

Il bene donato viene valutato dai contraenti non quale entità che residua al momento della morte, ma nella sua consistenza ed oggettività al momento del perfezionamento del negozio.

L’eventuale contrasto della donazione con il divieto di patti successori può allora dipendere dalla persistenza di un residuo potere dispositivo in capo al donante, tale da minare o rendere solo apparente l’irrevocabilità della disposizione e la sua immediata efficacia vincolante, non in sé per la maggior o minore probabilità del verificarsi dell’evento condizionante.

La premorienza del donante e’, per sua natura, evenienza incerta anche ove il donante versi in condizioni di malattia irreversibili (non potendo escludersi, in linea di principio, che premuoia il donatario per cause accidentali, improvvise, impreviste e indipendenti dal suo stato di salute sicché la donazione non diviene efficace), né è – in tal caso – prevedibile la durata della vita residua, conservando utilità pratica la connotazione di irrevocabilità della disposizione.

Questa Corte ha chiarito che per accertare nei singoli casi se le parti abbiano posto una donazione inter vivos, coi requisiti richiesti per la sua validità, ovvero un’attribuzione patrimoniale gratuita, di altra natura, eventualmente non consentita dalla legge, è necessario procedere alla ricerca della volontà negoziale delle parti in applicazione delle regole ermeneutiche stabilite dalla legge per la interpretazione dei contratti e, in particolare, del criterio dell’interpretazione complessiva, che postula l’esame delle varie clausole dell’atto onde interpretarle le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di esse il senso risultante dal loro complesso, facendo, inoltre, applicazione del principio secondo cui la qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio non dipende dal significato letterale delle parole o dal nomen juris attribuitogli dalle parti, ma dal suo concreto contenuto e dalla comune intenzione delle parti (cfr., testualmente, Cass. 1547/1966).

Nel caso di cui si discute, la Corte di merito ha, appunto, stabilito che la donazione era immediatamente efficace ed aveva ad oggetto beni (quote sociali) considerati nella loro consistenza e valore al momento della disposizione, dando vita ad un vincolo giuridico produttivo di effetti prodromici, valorizzando l’assenza di elementi che deponessero – anche solo in via indiretta – per l’effettiva persistenza in capo al donante di un potere dispositivo, a conferma dell’irrevocabilità dell’attribuzione.

Benché P.M. fosse certamente affetto da un male incurabile, la sua premorienza rispetto alla sorella poteva al più considerarsi altamente probabile ma non certa, né comunque imminente (la morte è sopraggiunta mesi dopo il perfezionamento della donazione, nell'(Omissis)), permanendo, nonostante la gravità delle condizioni di salute del donante, lo scopo pratico di assicurare il trasferimento delle quote in capo alla sorella con effetti irrevocabili e parzialmente anticipati, indirizzando da subito, nella direzione auspicata, le vicende del complesso aziendale.

L’unico motivo di ricorso non merita, pertanto, accoglimento, non potendo addebitarsi alla Corte di merito di aver escluso la violazione dell’art. 485 c.c., sottovalutando le condizioni di grave malattia e il grado di probabilità della premorienza del donante rispetto alla donataria nella ricerca dello scopo pratico voluto dai contraenti; è incensurabile, nella presente sede di legittimità, la qualificazione della donazione quale negozio inter vivos valido alla luce degli indici posti in rilievo nella sentenza, consistenti nella natura condizionale della clausola di premorienza, nell’idoneità dell’atto a produrre effetti prodromici e nell’assenza di previsioni che, anche solo indirettamente, conducessero a ravvisare la permanenza in capo al donante della facoltà di revoca della disposizione>>.

Per aversi patto successorio (istitutivo) non basta una generica promessa di imprecisate future utilità economiche

Questo in sostanza l’insegnamento di Cass. n. 5.555 del 21.02.2022, rel. Cosentino.

Non ci sono analisi approfondite ma questo passaggio:

Ferma l’interpretazione negoziale operata dalla corte d’appello – che costituisce giudizio di fatto rientrante nei compiti istituzionali del giudice di merito – l’errore di diritto in cui la stessa è incorsa risiede nell’aver falsamente applicato l’articolo 458 c.c., sussumendo nella fattispecie astratta del patto successorio dichiarazioni meramente verbali prive di qualunque specificazione in ordine alla individuazione dei cespiti a cui le stesse si riferivano.     In tal modo la corte ligure ha mostrato di ignorare l’insegnamento di questa Suprema Corte alla cui stregua «è da escludere l’esistenza di un patto successorio quando tra le parti non sia intervenuta alcuna convenzione, e la persona nella cui eredità si spera abbia solo manifestato verbalmente, all’interessato o a terzi, l’intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale mera promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena libertà del testatore che è oggetto di tutela legislativa» (Cass. 5870/2000, in motivazione); si veda altresì Cass. 2680/1969: «la promessa di istituire erede il prestatore d’opera in corrispettivo della sua attività – ove non risulti attuata mediante convenzione avente i requisiti di sostanza e di forma di un patto successorio (art. 458 cod. civ.), ma sia limitata ad una mera intenzione manifestata dal datore di lavoro – non costituisce menomazione della libertà testamentaria e non rientra, quindi, nel divieto di cui al citato art. 458.        In siffatta ipotesi la indicata promessa non produce la nullità del rapporto di lavoro per illiceità dell’oggetto o della causa, ai sensi dell’art.1418 cod.civ., ma è semplicemente rivelatrice della onerosità, nella intenzione delle parti, del rapporto stesso, per cui il prestatore d’opera ha diritto – indipendentemente dalla promessa medesima – alla retribuzione che gli compete,
secondo la natura e l’entità della prestazione» “.