Il miglior interesse del miore nella decisione sull’affido: diritto di essere sentito e patologia della madre

Cass. Sez. I, Ord. 08/02/2024  n. 3.576, rel. Russo R. E. A.:

Sul diritto di ascolto spettante al minore:

<<Il provvedimento di affidamento deve essere adottato facendo riferimento esclusivo all’interesse morale e materiale del minore (art. 337- ter c.c.); ciò comporta che nelle decisioni che lo concernono deve ricercarsi la soluzione ottimale in concreto, quella cioè che meglio garantisca la miglior cura della persona (Corte Cost. 102/2020; Corte Cost. 33/2021) e ne attui i diritti (del minore), scolpiti dall’art. 315-bis c.c.. L’individuazione del miglior interesse del minore (best interests nella formula in lingua inglese dell’art. 3 della Convenzione di New York del 1989) è un procedimento che rifugge da automatismi e richiede di tener conto tutte le circostanze di fatto che connotano il caso, nonché della incidenza del fattore tempo – sia in senso positivo che negativo – e dei desideri della aspirazioni e delle opinioni dello stesso minore, che, seppure privo della capacità di agire, ha diritto di essere ascoltato.

In tema di ascolto del minore, questa Corte ha più volte affermato che l’ascolto è disegnato dall’art. 315-bis c.c. non come un atto istruttorio, ma come un diritto, esercitato dal minore capace di discernimento, di esprimere liberamente la propria opinione in merito a tutte le questioni e procedure che lo riguardano, vale a dire alle questioni che hanno incidenza sulla sua vita e sulla relazione familiare.

Si tratta di un diritto personalissimo, della persona minore di età, attraverso il quale è assicurata, a prescindere dall’acquisto della capacità di agire, la libertà di autodeterminarsi, di esprimere la propria opinione e di partecipare in prima persona, e non solo tramite rappresentante, al processo; costituisce al tempo stesso primario elemento di valutazione del miglior interesse del minore (Cass. n. 6129 del 26/03/2015; Cass. n. 15365 del 22/07/2015; Cass. n. 13377 del 16/05/2023, in motivazione; Cass. n. 437 dell’8/01/2024).

Il minore non è il soggetto passivo di una tutela pensata e costruita esclusivamente dagli adulti, ma titolare di diritti suoi propri, distinti da quelli del nucleo familiare cui appartiene, e che deve essere ammesso ad esercitare personalmente, nella misura in cui lo consente la capacità di discernimento e cioè quella specifica competenza individuale, che pur non coincidendo con la piena acquisizione della attitudine a compiere validamente atti giuridici, gli consente però di rappresentare con sufficiente ragionevolezza i propri interessi, poiché egli comprende la portata delle proprie azioni e si prefigura le conseguenze delle proprie scelte (Cass. n. 32290 del 21/11/2023).

Vero è che, per espressa disposizione di legge, se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato (art 336 comma II c.c.). L’uso della disgiuntiva “o” rende evidente che si tratta di due ipotesi distinte, e pertanto per ascolto manifestamente superfluo deve intendersi quell’attività che pur non arrecando danno agli interessi del minore, tuttavia non vi apporta alcun (ulteriore) beneficio: ciò può avvenire, ad esempio, quando l’audizione del minore sia sollecitata su questioni irrilevanti oppure non pertinenti, oppure quando già è stato assicurato il pieno esercizio dei suoi diritti e la sua partecipazione attiva al processo attraverso tutti gli strumenti che l’ordinamento predispone a tal fine, la sua opinione sia stata chiaramente espressa e le sue istanze debitamente rappresentate. Al fine di verificare se l’ascolto sia superfluo è quindi significativa la differenza tra quei processi ove il minore non è mai stato ascoltato direttamente dal giudice e i processi ove si discuta solo della rinnovazione della sua audizione (non richiesta dal minore), perché nel primo caso la motivazione sulla omissione dell’ascolto diretto dovrà essere puntuale e non fatta per mero richiamo ai risultati della consulenza tecnica (o al c.d. ascolto indiretto), mentre nel secondo caso è sufficiente che il giudice si esprima in ordine alle esigenze sottese all’esercizio del diritto di ascolto, e segnatamente indichi se esse siano state compiutamente soddisfatte o meno, dando conto di eventuali fatti salienti nelle more verificatisi (si vedano sul punto Cass. 8 gennaio 2024, n. 437; Cass. n. 1474 del 25/01/2021; Cass. n. 23804 del 02/09/2021). La partecipazione attiva al processo non può identificarsi con l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in particolare di una consulenza psicodiagnostica, perché in questi casi, pur se il consulente raccoglie le opinioni del minore, le utilizza per comprendere e descrivere la sua personalità, e non per consentirgli di esercitare un diritto, che è compito specifico del giudice (in arg. Cass. n. 12957 del 24/05/2018; Cass. n. 1474 del 25/01/2021). Anche la consulenza tecnica di ufficio, ove ritenuta appropriata e pertinente è uno strumento per valutare l’interesse del minore, tuttavia non può essere ritenuta equivalente all’ascolto giudiziale o sostituiva di esso; pertanto ove il minore in età di discernimento sia stato sottoposto ad una consulenza ma non ascoltato dal giudice, quest’ultimo dovrà giustificare puntualmente le ragioni dell’omesso ascolto – poiché di questo si tratta – e non limitarsi a richiamare le indagini del consulente sul punto.

Da questi principi, ormai saldi nella giurisprudenza di legittimità, discende, nella sua ovvietà, la considerazione che l’ascolto non può considerarsi superfluo solo perché il giudice avrebbe già individuato la soluzione più adeguata a realizzare il suo miglior interesse; viceversa la regola impone al giudice di ascoltare il minore prima di formarsi un convincimento sull’affidamento, salvo che l’audizione non sia rifiutata dallo stesso minore, non si profili un pregiudizio concreto, da accertare in termini specifici e non astratti, ovvero risulti superflua, nei termini sopra precisati>>.

Sulla patologia giustificante la modifica della discipliona dell’affido:

<<9.1. – È opportuno qui precisare che al fine di modificare l’affidamento del minore o di adottare misure che ne comportino lo spostamento della residenza con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, non è sufficiente la diagnosi di una patologia, tantomeno di una diagnosi sulla quale non vi siano solide evidenze scientifiche; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità comportamenti pregiudizievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, senza che sia decisivo il giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata (Cass. 17 maggio 2021 n. 13217).

Non è infatti ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudicano i fatti e i comportamenti, e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi, il cui rigore scientifico può e deve essere apprezzato dal giudice, peritus peritorum, può aiutare a comprendere le ragioni dei comportamenti e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio – o pregiudizio – di non idoneità parentale a carico del genitore.

In termini, questa Corte ha già affermato che il giudice del merito deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che non è solo attraverso la consulenza tecnica che si possono accertare i comportamenti pregiudizievoli perché il giudice ha a disposizione tutti i mezzi di prova propri del processo civile ed anche uno strumento specifico, quale è l’ascolto del minore, che però non è un mezzo di prova bensì la modalità attraverso la quale il minore esercita il suo diritto di partecipare al processo e di esprimere la sua opinione sulle scelte di vita che lo riguardano (Cass. civ. sez. I 20.3.2013 n. 7401).

9.2. – Per quanto poi attiene ai rimedi, è noto a questa Corte che in caso di diagnosi di PAS (Parental Alienation Syndrome) ovvero altre analoghe, ove s’identifica il genitore convivente come soggetto uso a manipolare il minore e a screditare la figura dell’altro (comportamenti che ben possono darsi nella realtà a prescindere da una patologia diagnosticata), taluni specialisti suggeriscono l’allontanamento del minore dal genitore “malevolo”, come peraltro ha chiesto il ricorrente. Tuttavia, deve qui chiarirsi la differenza che vi è tra il giudizio medico o psicodiagnostico, ove resa una diagnosi si prescrive una terapia per guarire quella specifica patologia esaminata, e il giudizio reso dal giudice nell’ambito di un giusto processo, come disegnato dalla nostra Costituzione. Il medico o lo psicologo, in quanto nominati ausiliari del giudice, rispondono ai quesiti loro sottoposti esaminando la vicenda sotto lo specifico profilo di loro competenza, mentre il giudice deve valutare nell’ambito del processo tutti i contrapposti interessi che vengono in rilievo e stabilire, in conformità alla legge e ai valori costituzionali sui quali la legge è fondata, un punto di equilibrio.

Per questa ragione nessuna diagnosi e nessuna terapia, anche se scientificamente fondate, possono essere recepite acriticamente dal giudice, ma devono essere inserite nel contesto della dinamica processuale, in cui viene in rilievo la posizione di tutte le persone aventi diritto alla tutela della relazione familiare. E, in particolare, deve tenersi in conto che il minore ha diritto non solo a che sia preservata la propria relazione con il genitore non convivente – bo meglio con entrambi i genitori, tranne che non siano gravemente e irrimediabilmente inadeguati – ma ha anche diritto al rispetto della propria sfera di autodeterminazione, in misura crescente ma mano che matura l’età del discernimento, e a che non si adottino indebitamente misure coercitive, quale l’allontanamento forzato dal genitore con cui vive, specie ove si possa ricorrere ad altre misure che promuovano la collaborazione tra tutte le parti interessate, poiché l’art. 8 Convenzione Edu non autorizza i genitori a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del minore (in arg. v. Corte Edu, 02/211/2010, Piazzi c. Italia; 17/13/2013 Santilli c. Italia; 17.11.2015, B. c. Italia; Grande Camera 01/09/2019 Strand Lobben e altri contro Norvegia; 01/04/2021, A.I. contro Italia).

Nell’ambito di questa pluralità di interessi che connotano la relazione familiare, che è una relazione unica tra entrambi i genitori e la prole e non due singole e diverse relazioni (tra il padre e il figlio e la madre e il figlio), il giudice deve individuare la soluzione più adeguata a realizzare il miglior interesse del minore, tenendo conto anche della emendabilità di eventuali comportamenti pregiudizievoli tenuti dai genitori e senza muovere dall’idea che l’interesse del minore sia sempre e comunque superiore rispetto agli altri interessi e diritti fondamentali che vengono in gioco (Corte Cost. 33/2021).

Pertanto, è da rivedere funditus il giudizio sull’affidamento del minore perché la Corte di merito, oltre agli errori processuali di cui si è detto, non ha dato spazio processuale alle opinioni del minore, ha disatteso i principi di diritto sopra enunciati e non ha tenuto in conto che il giudice di primo grado aveva investito i servizi sociali di un mandato di supporto alla genitorialità i cui risultati avrebbero dovuto essere attentamente monitorati. Ugualmente, la Corte avrebbe dovuto verificare se l’evolversi della situazione rispetto al giudizio di primo grado evidenziasse una conflittualità tale tra i genitori da profilare il conflitto di interessi e se fosse necessaria la nomina di un curatore al minore e tale giudizio dovrà essere reso, alla attualità, dal giudice del giudizio di rinvio.

Di conseguenza, è da rivedere anche la decisione sul mantenimento, in quanto strettamente legata al regime di affidamento e dei tempi di permanenza presso l’uno o l’altro genitore, con l’avvertenza che i tempi di permanenza devono essere valutati solo se effettivi, e in quanto tali comportino uno sforzo economico più o meno incisivo da parte del genitore che tiene presso di sé il minore, e non semplicemente previsti dal provvedimento ma di fatto non attuati>>.