Ancora la Cassazione sulla responsabilità dell’hosting provider c.d. attivo per la diffusione di contenuti in violazione

Cass. 13.12.2021 n. 39.763, rel. Scotti, TMFT Enterprises LLC – Break Media c. Reti Televisive Italiane spa, decide la lite nel caso Break Media.

Non ci sono particolarità di rilievo.

La SC conferma la decisione di appello, confermando la teoria dell’hosting provider attivo. Questi , in quanto tale (in quanto <attivo>), non può fruire dell’esimente da responsabilità posta dall’art. 16 d. lgs. 70 del 2003: <<A tal proposito questa Corte con ampia e complessiva ricostruzione dell’istituto, in piena armonia con la giurisprudenza recente della Corte di giustizia, ha accolto la nozione di hosting provider attivo, riferendola a tutti quei casi che esulano da un’attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, in cui l’internet service provider (ISP) non conosce, nè controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i suoi servizi, e ha affermato che tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell’informazione svolge un ruolo attivo.

Si può quindi parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato; gli elementi idonei a delineare la figura o indici di interferenza, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono – a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti – le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l’effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati.>>, § 1.4.

Dalla ctu erano emersi i seguenti indici del ruolo di p. “attivo” (indici di interfenza): <<(a) la cernita dei contenuti audio-video a fini pubblicitari; (b) lo sviluppo di un sistema operativo incompatibile con la figura dell’hosting provider passivo; (c) la creazione e la distribuzione di contenuti di intrattenimento digitali collegati alla selezione dei contenuti e collocati nella home page; (d) la presenza di una sorta di editorial team, ossia un gruppo di persone addetto proprio alla cernita dei contenuti a fini pubblicitari.>>, § 1.6.

Per le ragioni dedotte in Sulla responsabilità civile degli internet service provider per i materiali caricati dagli utenti (con qualche considerazione generale sul loro ruolo di gatekeepers della comunicazione), la tesi non persuade.

la Sc si appoggia in toto al proprio noto precedente Cass. 7708/2019, rel. Nazzicone, nella lite promossa sempre da RTI ma contro Yahoo.

Ad abundantiam (ma senza che fosse necessario, come la Corte riconosce) , la Sc precisa: <<E’ quindi solo per completezza che si ricorda che questa Corte ha affermato che la responsabilità dell’hosting provider, prevista dal D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) sia a conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; b) sia ragionevolmente constatabile l’illiceità dell’altrui condotta, onde l’hosting provider sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere. Resta affidato al giudice del merito l’accertamento in fatto se, in riferimento al profilo tecnico-informatico, l’identificazione di video, diffusi in violazione dell’altrui diritto, sia possibile mediante l’indicazione del solo nome o titolo della trasmissione da cui sono tratti, oppure sia indispensabile, a tal fine, la comunicazione dell’indirizzo URL, alla stregua delle condizioni esistenti all’epoca dei fatti (Sez. 1, n. 7708 del 19.3.2019, Rv. 653569 – 02).>>, § 2.6

Sulla determinazione del danno: <<Questa Corte (Sez.1, n. 21833 del 29.7.2021) ha recentemente ribadito che l’art. 158 l.d.a. prevede il duplice criterio della retroversione degli utili conseguiti e del prezzo del consenso, sempre nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; che la legge non esprime un precetto rigido di preferenza per i due criteri suggeriti, ma con l’espressione utilizzata (“quanto meno”) lascia intendere che quello del prezzo del consenso rappresenta la soglia minima della liquidazione; che quindi i due criteri si pongono come cerchi concentrici, a avendo il legislatore indicato come il secondo sia quello che permette una liquidazione minimale, mentre il primo, dall’intrinseco significato anche sanzionatorio, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente maggiorati dai ricavi conseguiti dall’autore della violazione sul mercato; che l’art. 158 l.d.a. indica espressamente i parametri su cui fondare la liquidazione equitativa del danno, consistente negli utili conseguiti dal responsabile dell’illecito grazie all’utilizzo indebito dell’opera altrui; che anche il criterio del prezzo del consenso richiama la valutazione equitativa del danno (“in via forfettaria”), offrendo un’indicazione minimale sul quantum da liquidare (“quanto meno”) secondo il metro del prezzo per la cessione dei diritti di utilizzazione economica di quell’opera; che tale criterio va inteso come individuazione, pur sempre in via di prognosi postuma, del presumibile valore sul mercato del diritto d’autore de quo, nel tempo della operata violazione; che si tratta di una valutazione media ed ipotetica, tenuto conto dei prezzi nel settore specifico, dell’intrinseco pregio dell’opera, dei guadagni dalla medesima conseguiti nel periodo di legittima utilizzazione da parte dell’autore medesimo per il tempo in cui ciò sia avvenuto, e di ogni altro elemento del caso concreto.

D’altro canto, secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sè la prova dell’esistenza del danno, restando a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Sez. 3, n. 8730 del 15.4.2011, Rv. 617890 – 01; Sez. 1, n. 14060 del 7.7.2015, Rv. 635790 – 01) a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili, nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (come ha avuto cura di precisare Sez. 1, n. 12954 del 22.6.2016 Rv. 640103 – 01).>>.

Il che è riassunto nel principio di diritto: <<“In tema di diritto d’autore, la violazione del diritto d’esclusiva che spetta al suo titolare costituisce danno in re ipsa, senza che incomba al danneggiato altra prova del lucro cessante che quella della sua estensione, a meno che l’autore della violazione fornisca la dimostrazione dell’insussistenza, nel caso concreto, di danni risarcibili, e tale pregiudizio è suscettibile di liquidazione in via forfettaria con il criterio del prezzo del consenso di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, comma 2, terzo periodo, che costituisce la soglia minima di ristoro”.>>