L’ex socio di s.n.c. non è responsabile per i canoni locatizi maturati dopo la sua uscita dalla società (anche se in base a contratto anteriore)

Cass . sez. III del 23/10/2023 n. 29.306, rel. Dell’Utri:

<<3. Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 2290 c.c., “nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento”.

La stessa norma precisa, di seguito, che “lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato”.

4. Secondo il chiaro dettato della norma, la responsabilità del socio verso i terzi per le obbligazioni di una società di persone deve ritenersi temporalmente correlata alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, esclusa oltre la data dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società, a condizione che lo scioglimento sia stato portato con mezzi idonei a conoscenza dei terzi che lo hanno incolpevolmente ignorato.

5. Rispetto a tale principio generale, non assume valore decisivo la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta in epoca anteriore allo scioglimento del rapporto con un singolo socio, e che gli effetti di tale obbligazione sociale siano destinati (come nel caso di specie, in ragione della relativa natura) a permanere nel tempo, oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società.

Gli effetti di una simile obbligazione, infatti, pur pienamente operanti, sotto il profilo del vincolo, sin dall’originaria costituzione del rapporto negoziale (e la cui sola esigibilità risulta condizionata alla scadenza di termini convenuti), devono ritenersi tali, a far tempo dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, da non poter più coinvolgere, con riferimento alla prestazione non ancora esigibile, la responsabilità dei soci il cui rapporto con la società sia venuto meno.

6. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. varrà, in primo luogo, segnalare il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali.

E’ vero che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento. Ma l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e non sia stata adempiuta.

7. Dunque, benché le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale che ne costituì la fonte originaria (rimanendone unicamente condizionata la corrispondente esigibilità al tempo delle scadenze convenute), la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi, per legge, limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale, sempre, naturalmente, sotto la condizione della regolare comunicazione ai terzi di detto scioglimento.

8. Sotto altro profilo, varrà sottolineare la coerenza dell’indicata interpretazione della norma con un intuitivo principio di elementare equità relazionale (o con un equilibrato contemperamento di interessi in conflitto), atteso che, a fronte della ragionevolezza dell’affidamento riposto dai terzi sulla (cor-)responsabilità dei singoli soci per le obbligazioni sociali, assume un preminente rilievo la decisiva considerazione dell’interruzione, attraverso lo scioglimento del rapporto sociale, di qualsivoglia forma di controllabilità, da parte del socio, del successivo corso dei rapporti della società con i terzi e, segnatamente, dell’adempimento delle relative obbligazioni ormai integralmente rimesse all’iniziativa, alla diligenza e alle scelte imprenditoriali dei soci superstiti, senza alcuna possibilità di interlocuzione per il socio uscente; là dove ai medesimi terzi, per converso, non può sfuggire, all’atto della contrazione di obbligazioni con una società, il rischio della sempre possibile variabilità nel tempo della struttura soggettiva della compagine sociale.

9. Le considerazioni che precedono, conseguentemente, inducono a ritenere pienamente legittima la decisione impugnata, avendo la corte territoriale correttamente evidenziato – una volta riscontrata la regolare comunicazione ai terzi dell’avvenuto scioglimento del rapporto del Q. con la società – la limitazione della responsabilità di quest’ultimo per le obbligazioni sociali fino alla data di scioglimento del rapporto (e dunque dei soli canoni maturati fino alla data dello scioglimento del rapporto sociale), dovendo escludersi, proprio ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’invocabilità di una sua persistente responsabilità per le obbligazioni sociali relative ai canoni successivi (pur assunte in epoca anteriore allo scioglimento del vincolo sociale) a far data dalla cessazione del rapporto con la società>>.

Tutto esatto. Va aggiunto per scrupolo che la responsabilità per le obbligazioni anteriori dura oltre l’uscita del socio: nell’art. 2290 la limitazione temporale riguarda il fatto generatore dell’obbligo, non la sua azione in giudizio (nè cognitivo nè espropriativo). Non è cioè un termine analogo a quello posto dall’art. 1957 cc per l’azione del creditore verso il debitore principale.

Confusione tra liquidazione della quota e liquidazione della società in una società in nome collettivo

Cass. n. 9135 del 21.03.2022 , rel. Dongiacomo, fa luce sul tema.

<<Nella società di persone, in effetti, anche se composta da due soli soci, la morte di uno dei soci determina lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto alla data del suo decesso mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (Cass. 10802 del 2009) per cui, salvo che si verifichi l’ipotesi disciplinata dall’ultima parte dell’art. 2284 c.c. (“salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”), e cioè la continuazione della società per volontà del socio superstite e degli eredi del socio defunto, questi ultimi rimangono estranei alla società, di cui assumono la veste di creditori della somma di denaro equivalente al valore della quota del de cuius.     Nelle società di persone, infatti, gli eredi del socio defunto non acquisiscono la posizione di quest’ultimo nell’ambito della società e non assumono pertanto la qualità di soci, ma hanno soltanto il diritto (che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga) alla liquidazione della quota del loro dante causa (Cass. n. 3671 del 2001).

In definitiva, anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determini il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anziché il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima (Cass. n. 8670 del 2000).

Nei casi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio (e la morte del socio è uno di questi), perfezionatosi prima del verificarsi di una causa di scioglimento della società, al socio uscente (ed, in caso di morte, ai suoi eredi) spetta, pertanto, soltanto la liquidazione della sua quota ai sensi dell’art. 2289 c.c. e non il diritto, che presuppone l’acquisto della qualità di socio, alla quota di liquidazione della società quale risulta all’esito del riparto del patrimonio sociale (residuo al pagamento dei debiti sociali ai sensi degli artt. 2280 e 2282 c.c.) fra tutti i soci (Cass. n. 9397 del 2011)>>

Principio al limite dell’ovvio: una cosa è essere creditori del valore della quota caduta in eredità ma on cosiM; cosa giuridicamnte assai diversa è essere creditori della quota di liquidazione dell’ente in quanto soci.

Applkcati questi principi al caso , segue la critica alla sentenza di appello: <<Non può, dunque, condividersi la soluzione seguita dalla sentenza impugnata: lì dove, in sede di scioglimento della comunione ereditaria tra gli eredi del socio defunto, ha, in sostanza, provveduto non già, come avrebbe dovuto fare, a dividere l’eredità tra i due coeredi, attribuendo agli stessi (tra l’altro) il diritto (nei confronti della società) alla liquidazione della quota già spettante al defunto, ma, in difetto di qualsivoglia domanda giudiziale in tal senso, a liquidare il patrimonio sociale, ripartendolo tra il coerede che era anche socio superstite, cui ha assegnato l’azienda sociale, ed il coerede non socio, cui ha attribuito il diritto al relativo conguaglio (“al coerede estraneo alla compagine sociale, impossibilitato (oltre che non interessato) a subentrare al de cuius in una società che neppure il socio superstite aveva intenzione di proseguire, spetta, pertanto, in sede di scioglimento della comunione ereditaria, una somma pari alla metà del valore della quota aziendale di pertinenza del padre al momento dell’apertura della successione, fermo restando che in tal modo l’intera azienda rimane attribuita al coerede che in vita del de cuius era socio con la quota del 2%…). Il diritto che spetta ai soci superstiti in sede di divisione di un’eredità che comprenda una quota di società di persone non e’, infatti, quello al riparto conseguente allo scioglimento dell’ente collettivo, che comporta la cessazione del rapporto sociale con effetti per tutti i soci con conseguente suddivisione tra tutti i partecipanti del patrimonio residuato al pagamento dei debiti, ma quello, previsto dagli artt. 2284 e 2289 c.c., alla liquidazione della quota del singolo socio nei confronti del quale, per effetto della sua morte, si è sciolto il rapporto sociale, che non è il diritto ad una parte del patrimonio sociale ma solo ad una somma di denaro corrispondente al valore della partecipazione.>>

“Subentro” degli eredi del socio defunto in società in nome collettivo (sull’art. 2284 cc)

In assenza di pattuizione ad hoc, nel caso di decesso di socio di SNC, opera l’art. 2284 cc: va liquidata la quota agli eredi salvo che i soci decidano di sciogliere la società o di continuarla con gli eredi e questi acconsentano.

Ma l’ultima ipotesi non costituisce una successione nella posizione contrattuale del deceduto: c’è infatti soluzione di continuità tra la posizione contrattuale/sociale di questultimo e quella degli eredi , che non rimane la medesima.

Questi ultimi pertanto non possono vedersi fiscalmente riconosciute le perdite come avrebbe potuto farlo il deceduto, che non è  loro dante causa.

Così Cass. , V, 21.01.2021 n. 1216, rel. Fasano.

Il punto infatti è stabilire <<se i detti eredi, una volta aderito alla proposta di continuazione (e conclusosi, così, il negozio inter vivos con i soci superstiti) possano in qualche maniera sostituirsi al loro originario dante causa, nella identica posizione che faceva capo al medesimo nel momento della sua morte e, quindi, in definitiva, subentrare nella stessa quota di partecipazione, senza che vi sia alcuna frattura temporale tra il momento della morte (ovverosia della apertura della successione) e quello (successivo) della manifestazione del consenso alla continuazione della società da parte degli stessi.

La risposta è negativa>>.

L’accettazione dell’eredità del de cuius, infatti, comporta <<solo il diritto alla liquidazione della proporzionale quota del capitale sociale spettante e non dà diritto a subentrare nella società al posto del defunto, in quanto il rapporto sociale non si trasmette mortis causa (Cass. n. 3671 del 2001). Sul presupposto che la quota di partecipazione sociale non sia suscettibile di un trasferimento per causa di morte, ne consegue che nel patrimonio ereditario del socio defunto non potrà, in nessun caso, esistere, con riferimento alla partecipazione di cui lo stesso in vita risultava titolare, una entità nei confronti della quale possa verificarsi quel meccanismo di sostituzione di un soggetto ad un altro, nella medesima posizione, e del quale, pertanto, si va a prendere il posto.

Ciò in ragione della intrasmissibilità iure successionis della partecipazione del socio a responsabilità illimitata, sicchè in caso di accordo di continuazione della società tra i soci superstiti e gli eredi del socio defunto non potrà darsi luogo ad una successione, in senso tecnico, dei suoi eredi nella partecipazione di cui lo stesso era titolare.

Il vincolo sociale che faceva capo al socio defunto dovrà ritenersi, anche in questo caso, immediatamente e definitivamente estinto al momento della sua morte, sicchè l’accettazione dell’eredità da parte degli eredi del socio defunto non potrà comportare per gli stessi l’acquisto della qualità di soci, cosa che sarà invece riconducibile esclusivamente al perfezionamento dell’accordo di continuazione.>>

Secondo l’indirizzo della dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, <<apertasi la successione del socio e definito il suo oggetto per quanto riguarda il rapporto societario, è solo il valore economico della sua partecipazione che viene trasmesso agli eredi mediante l’accettazione dell’eredità.

Nel patrimonio ereditario entra a far parte esclusivamente il valore della partecipazione sociale del de cuius, che poi attraverso l’attività di liquidazione si concretizzerà in un eventuale credito. La fattispecie così definita impedisce agli eredi del socio di assumere, in ogni caso, la qualità di soci della società di cui faceva parte il loro dante causa, e di subentrare, comunque, nella sua quota di partecipazione. Nè a seguito dell’accordo di continuazione è consentito riaprire la vicenda successoria, ormai definita in ogni suo elemento, facendo così rivivere ex post un rapporto sociale che si deve ritenere immediatamente e definitivamente estinto con la morte del socio. In caso di accordo di continuazione, come nella specie è avvenuto, si verifica solo una modificazione soggettiva del contratto sociale che non presenta nulla di diverso da ogni altra ipotesi di adesione di nuove parti al contratto di società, la cui efficacia decorre dal momento in cui l’accordo viene stipulato (nella specie il (OMISSIS)) sicchè la morte del socio anche in ipotesi di continuazione, non determina il trapasso mortis causa della partecipazione agli eredi.

Secondo il principio affermato da questa Corte, che si condivide: “l’erede del socio defunto diventa socio non iure successionis, ma ad opera di un accordo che è atto inter vivos” (Cass. n. 6849 del 1986). Nè assume rilievo nella fattispecie il richiamo all’istituto dell’eredità giacente, tenuto conto che gli eredi hanno provveduto ad accettare l’eredità, non configurandosi alcuna situazione di incertezza al momento della apertura della successione. Sicchè è inconferente anche il richiamo all’art. 187 TUIR, la cui previsione serve per procedere alla liquidazione provvisoria e definitiva delle imposte dovute in riferimento ai periodi di imposta di vigenza dell’eredità giacente>>

La soluzione è condivisibile, mancando spunti normativi del tipo di quello costituito dall’art. 757 cc per la divisione (la quale pure non cancella la situazione mediotempore creatasi, sicchè  è costitutiva: Cass. sez. un. 25021/2019).