La mancanza di continuità aziendale è concetto diverso (più ridotto) dalla sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (causa di scioglimento)

Interessanti (e condivisibili) osservazioni in  Trib. Milano 12.10.2023  n. 7973/2023, RG 35640/2019, pres. e rel. Mambriani:

<<Orbene, se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile sopra indicate e la fattispecie normativa di cui all’art. 2484, comma 1, n. 2 c.c., ci si avvede ben presto di quanto segue.
➢ La fattispecie di scioglimento attiene ad una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi), e, come tale, attiene ad una situazione
non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative all’evidenza non compatibili tra loro.
➢ Nella “fattispecie” di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

➢Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza che non pare compatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili sopra indicati in termini di “dubbio  significativo”, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione.
➢ Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto ed in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Oppure, come nel caso di specie, per la risoluzione, da parte di Mercedes, del contratto di concessione dell’attività di distribuzione di
autovetture recanti qual marchio, avvenuta alla fine del 2015. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’ attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società.
Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in
termini di “perdita di continuità aziendale”. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la “discesa del capitale sociale sotto il minimo legale” di cui all’art. 2484 comma 1 n. 4 c.c., per il dissesto di cui art. 217, comma 1, n. 4 l.f. (art. 217, comma 1, n. 4 c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.f. (art. 2 let. b c.c.i.).
E così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività.
In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, comma 2, c.c. che tuttavia non riguarda lo
scioglimento della società.
➢ La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza significativamente conferma il quadro interpretativo appena descritto.
Invero la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’  obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del “recupero della continuità aziendale”. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati
questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, let. a) c.c.i.
A tal proposito, in ordine al rapporto tra “crisi” e “perdita di continuità aziendale” letto nel quadro della descrizione di quest’ultima situazione quale restituita dai citati principi contabili e di revisione, non si può mancare di osservare che la prima fattispecie, per come definita, assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che quei principi ascrivono invece alla
“continuità aziendale”. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di “perdita di continuità aziendale” è definibile per sottrazione dai parametri, criteri ed indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi / situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, let a) cit.
Ugualmente, situazioni “deficit patrimoniale” o “capitale ridotto al di sotto dei limiti legali” andranno ascritte non già alla fattispecie “perdita di continuità aziendale”, essendo piuttosto da ricondurre, per quel che qui rileva, alla fattispecie di cui all’art. 2484, comma 1, n. 4 c.c.
Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

➢ La lettera delle innovazioni apportate dal “codice della crisi” all’art. 2484, comma 1, c.c., non fa confermare ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. E’ stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis).
Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta.
➢ Lungi dal rivelarsi nominalistico, l’argomento da ultimo espresso ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del “recupero della continuità aziendale”, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo
agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di  per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c>>.