Contratto di spedalità e risarcimenrto del danno in caso di errore medico seguito da decesso dopo 271 giorni di coma

Cass. sez. III del 8 giugno 2023 n. 16.272, rel. Rubino:

– contratto di spedalità: conta la titolarità del rapporto, la quale resta rilevante anche se la gestione del reparto/struttura sia affidata a terzi:    <<Nel caso in cui un paziente si rivolga ad una struttura sanitaria inserita nella rete del SSN per la sottoposizione ad un intervento medico chirurgico, e la struttura lo prenda in carico ai fini dell’intervento (nel caso di specie, come da incontestate risultanze di fatto, effettuandone l’accettazione, disponendone il ricovero, compilando la relativa cartella clinica ed eseguendo l’intervento all’interno della struttura ospedaliera pubblica con proprio personale), con la medesima si instaura un rapporto contrattuale atipico a prestazioni corrispettive – c.d. contratto di spedalità (sul quale tra le molte, Cass. S.U. n. 577 del 2008 e, da ultimo, Cass. n. 11320 del 2022) – idoneo a fondare, in caso di esito infausto dell’intervento, la legittimazione passiva dell’ente in relazione all’azione di responsabilità proposta dal paziente o dai suoi eredi.

Rimane irrilevante, ai fini della corretta istaurazione del rapporto processuale tra chi esercita l’azione di risarcimento danni da inadempimento contrattuale ed il soggetto che tale prestazione avrebbe dovuto erogare l’eventualità che, nella organizzazione interna del Servizio Sanitario regionale, la struttura stessa e il suo personale siano stati posti sotto la direzione amministrativa e medica di altra istituzione pubblica (nel caso di specie, il CNR), la cui responsabilità può eventualmente aggiungersi a quella della struttura sanitaria adita (la AUSL), ma non è in ogni caso idonea ad eliminarne la legittimazione passiva, né a modificare, sostituendo un soggetto ad un altro, la titolarità del rapporto dal lato passivo, essendo l’organizzazione interna inidonea a recidere il rapporto che si è instaurato con la presa in carico del paziente da parte della struttura e non incombendo al paziente, che si sia rivolto ad una determinata struttura pubblica, l’onere di ricostruirne le vicende gestionali interne>>.

– lamentela degli eredi: <<Gli eredi lamentano che la quantificazione del danno riportato dalla signora sia stata rapportata dalla corte d’appello, con motivazione ridotta al minimo ed inidonea a rendere giustizia della mancata personalizzazione del danno, a fronte della ben più accurata ed analitica motivazione del primo grado, solo al danno biologico da inabilità temporanea, protrattasi per tutti i giorni successivi all’intervento durante i quali la madre era stata in coma prima che ne sopravvenisse la morte. La corte d’appello ha riconosciuto infatti in favore della defunta, e liquidato agli eredi, un danno biologico terminale calcolato, sulla base delle Tabelle di Milano, con riguardo ad un periodo di invalidità temporanea assoluta protrattosi per 271 giorni, dal giorno della operazione, dopo la quale la paziente non ebbe mai a recuperare coscienza, fino alla morte>>.

– risposta della SC: la morte sopraggiunta dà titolo solo al danno biologico temopraneo, giammai quello eprmanente:

premessa generale: <<Chiunque riporti delle lesioni personali causate dal fatto doloso o colposo altrui – siano esse causate da un incidente o, come nella specie, da un incidente chirurgico programmato di esito infausto – sopravviva all’evento per un certo periodo di tempo, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può riportare un danno non patrimoniale. Esso può teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarietà quale concetto giuridico. Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute, il secondo è costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente. Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sé e non il suo patrimonio. Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (danno biologico o da lesione della salute) ha fondamento medico legale, consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità e sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente. Il secondo, ovvero il danno morale in senso stretto, o danno da patema d’animo, o danno morale soggettivo, non ha fondamento medico legale, consiste in un moto dell’animo e sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole (per questa ricostruzione v. diffusamente Cass. n. del 18056 del 2019)>>.

applicazione al caso de quo: <<Il danno biologico subito dalla signora è stato riconosciuto dalla corte d’appello, ed anche correttamente liquidato.

Infatti, come questa Corte ha in più occasioni già precisato (per tutte, v. Cass. n. 18056 del 2019), il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva per uno spazio di tempo e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente. Il lemma “invalidità”, infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente). L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da malattia, durante il decorso di questa. L’espressione “invalidità permanente” designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia. L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’e’ ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea (ollre alla già citata Cass. n. 18056 del 2019 v., tra le altre, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015, Rv. 634697 – 01; così pure Sez. 3 Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p. 3.3 dei “Motivi della decisione”).

Per le ragioni fin qui esposte, nel caso di morte sopraggiunta dopo le lesioni personali, e da esse provocata, un danno biologico permanente è inconcepibile>>.

– danno biologico temporaneo: <<Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l’esistenza sarà necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, normalmente superiore alle 24 ore, perché solo un tempo apprezzabile consente quell'”accertabilità medico legale” che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.>> [accertamento fatturle , non censurabile in CAssaizone, dice la SC).

– circa l’esclusione del danno morale soggettivo, interessante il motivo:  <<Altrettanto correttamente ha escluso che i ricorrenti avessero diritto, iure hereditatis, alla liquidazione di altre componenti del danno non patrimoniale, ed in particolare anche alla liquidazione del danno morale puro spettante alla defunta, proprio perché esso presuppone, per entrare nel patrimonio del defunto, che questi percepisca la condizione in cui si trova, che la vittima sia cosciente, quel tanto che le basti per percepire la sua condizione di malattia ed i patimenti, psichici e fisici, ad essa associati, e, ancor più perché percepisca la sofferenza creata dalla paura della morte imminente. E’ una sofferenza che, come ben spiegato già in precedenza da questa Corte (e il richiamo è sempre all’analisi accurata compiuta da Cass. n. 18056 del 2019) potrà essere multiforme, “secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino può riservare al genere umano”, ma che presuppone, in ogni caso, che la vittima sia cosciente. Se la vittima non è consapevole della fine imminente, infatti, non è nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.

Nel caso di specie, giacché l’ischemia ha provocato il coma, e lo stesso si è protratto fino alla morte, il periodo successivo all’intervento chirurgico non è stato caratterizzato dalla consapevole attesa dell’esito mortale: in siffatta situazione – il cui accertamento in fatto è demandato al giudice di merito – la vittima non aveva diritto al risarcimento del danno morale o da vigile attesa per l’intervallo tra il fatto illecito e il sopraggiungere della morte>>.