Sito-bacheca di annunci e esenzione ex § 230 CDA

Un sito web, che ospiti annunci illeciti (nel caso: sfruttamento di minori), può appellarsi all’esenzione da responsabilità posta dal § 230 CDA (communication decency act) statunitense?

Si, secondo la U.S. Dist. Court-NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA, 20 agosto 2020, J.B. c. Craiglist e altri, Ccse No. 19-cv-07848-HSG .

Il punto è trattato nella parte III.A, p . 5-11.

Ricorrono infatti  tre requisiti della relativa fattispecie:  << ‘(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a state law cause of action, as a publisher or speaker (3) of information provided by another information content provider.’”>>, P. 5.

Il punto più interssante (ma non da noi, trattandosi di normativa solo statunitense) è il coordinamento del § 230 CDA con la novella 2018 c.d. SESTA-FOSTA o solo FOSTA:  Fight Online Sex Trafficking Act (“FOSTA”) and Stop Enabling Sex Traffickers (“SESTA”) , ivi, p. 6/7. Novella che va ad aggiungere il punto (5) alla lettera (e) del § 230.

L’attrice sostiene che detta novella toglie il safe harbour a Craiglist in relazione alle violazioni dedotte.   Il giudice però la pensa all’opposto, pp. 8-10.

All’attrice va male pure con l’ultima difesa, consistente nel ritenere Craiglist sia un “content provider”. Ha infatti buon gioco la Corte nel rigettarla, dal momento che Craiglist si limitava ad ospitare contenuti in toto prodotti da terzi. Viene all’uopo richiamato la decisione Fair Hous. Council of San Fernando Valley v. Roommates.Com, LLC, 521 F.3d 1157, 1162 (9th Cir. 2008), importante perchè richiamato un pò da tutti quelli che si occupano di responsabilità delle piattaforme

Altro discorso è quello della presenza di eventuali segnali di allarme della illiceità, che avrebbero dovuto indurre cautela (se non azioni positive di contrasto ) in Craiglist (red flags di vario tipo, diffide etc.). Tuttavia l’evenienza non è regolata nel § 230 CDA , a differenza dal safe harbour per il copyright (§ 512 DMCA) e a differenza pure dalla nostra disciplina nazional-europea.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Safe harbour ex § 230 CDA per un software che decide quale venditore assegnare al consumatore?

Una recente decisione californiana esamina una class action contro venditori di prodotti di bellezza.

L’attore cita molti convenuti adducendo di essere stata vittima di frode: invece di prodotti cosmetici gratuiti in prova al solo costo di trasporto, si vide addebitata la carta di credito per importi molto superiori.

Si tratta di US Distr. Court-Southern District of California, 8 dicembre 2020, Leanne Tan c. Quick Box e altri, case No.:3:20-cv-01082-H-DEB .

Si v. Background sub I e sub II per i fatti e lo schema frodatorio (pp. 4-7).

Qui interessa il punto dell’applicabilità del safe harbour ex § 230 CDA, invocato da un gruppo di convenuti (i “Konnektive defendants”).

Costoro, secondo l’attore, <<allegedly create multiple shell companies, each of whom signs up for a unique merchant account; these accounts are then rotated through customer billings with a “load balancing” software to prevent any individual account from being flagged for fraud due to high levels of chargebacks>>, p. 6. In particolare i Konnektive Defendants avevano istituito <<a customer relationship management (“CRM”) software company, who allegedly provides the specialized “load balancing” software to enable the use of multiple merchant accounts. …  The load balancing software automatically spreads consumer purchases across dozens of merchant accounts in order to prevent any one merchant account from being shut down due to excessive chargebacks and/or fraud claims, which ensures the fraudulent scheme can continue. (Id. ¶ 220.) Plaintiff alleges the source code on one of the La Pura landing pages demonstrates that its CRM software is from Konnektiv>>, p. 6-7.

In breve il software dei “Konnektive defendants” volta per volta girava la domanda di spedizione a questo o quel merchant account per ridurre il rischio di segnalazioni (flagging) come sospetti per frode o comunque per eccesso di richieste bancarie di riaaccredito di somme ingiustificametne prelevate dalla carta di credito.

Per questo detto software è chiamato “load balancing software”.

Ebbene, i “Konnektive defendants” invocano il § 230 CDA.

Poteva andargli bene? Certamente no, dato che (sempre che siano internet service providers, il che è assai dubbio) non si tratta di mero diffusore di informazioni dannose proveniente da terzi  (sub III alle pp. 40-42): il software è centrale nell”attuazine della frode per cui i suoi utilizzatori sono di fatto dei concorrenti nella predisposizione e gestione della complessiva offerta ingannatoria.   La disposizione invocata richiede invece proprio che il provider ospiti contenuti di terzi.

Infatti, secondo la prospettazione attorea condivisa dal giudice, <<rather than being a passive transmitter of information provided by others, the Konnektive Defendants were actively engaged and involved in the development of the alleged unlawful content. (Doc. No. 51 at 16–17.) She alleges that every time a customer made a purchase on the La Pura websites, the Konnektive software selected which merchant ID (“MID”) to bill the customer with based on which MID was most likely to be flagged for fraud. (Id.) She alleges this load balancing software is critical to the fraudulent scheme, as without it the fraudulent transactions would be discovered by banks and credit card companies and the merchant accounts would be shut down. (Id.; Doc. No. 1 ¶¶ 328–34, 341.) She also alleges that the Konnektive Defendants’ load balancing software is designed to enable its clients to commit unlawful and fraudulent conduct of the type she alleges and identifies a warning on the Konnektive website to that effect>>, p. 41.

In altre parole si tratta di <content provider>, non di mero <interactive computer service provider>, secondo la disciplina psota dal § 230 (c)(1) e § 230 (f)(2-3) .

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Marketplace di Amazon, § 230 e prodotti pericolosi

Poco comprensibile decisione statunitense di una lite relativa a responsabilità da prodotto difettoso. Si tratta di US Distr. Court-South D. of New York, 30.11.2020, Brodie c. Green Spot Foods, Amazon services ed altri,  caso n° 1:20-cv-01178-ER.

La sig.ra Brodie aveva acquistato su Amazon (poi: A.) un prodotto alimentare , sostitutivo della pasta, chiamato <Better than Pasta> , a base di radici orientali dette <konjak>. Il venditore era tale Green Spot Foods.

Il prodotto si era rilevato pericoloso, dato che aveva creato non piccoli problemi di salute all’acquirente.

Qui riporto sul problema della (cor-)responsabilità di A.

Il giudice accoglie la domanda per negligence e per breach of implied warranty  (claim I e II); la rigetta per il claim III (breach of express warranty); la rigetta pure per <Deceptive Practices and False Advertising Under N.Y. Gen. Bus. Law §§ 349 and 350> (claim IV), p. 11 ss

Qui interessa quest’ultimo (claim IV).

La domanda di pratica ingannatoria viene rigettata sulla base del safe harbour costituito dal § 230 CDA: disposizione che esenta da responsabilità il provider per informazioni provenienti da terzi e divulgate tramite la sua piattaforma.

Dice così la corte: <<In line with these cases, the Court inds that Amazon is immune under the CDA. The parties do not dispute that Amazon qualifies as a provider of an interactive computer service. Instead, the question is whether Amazon can be considered an information content provider with respect to Better than Pasta’s advertising, and the Court inds that it is not. There is insufficient factual pleading supporting the plausible inference that Amazon itself created or edited any of the Better than Pasta advertising content. Brodie alleges that Green Spot is “the primary entity responsible for” the product’s advertising and manufactured, packaged, and initially created all advertising for the product. … Further, while Brodie asserts that the BSA handed Amazon editorial control over what Green Spot materials were published,  ….. Brodie does not allege that Amazon actually exercised this control to alter or modify advertising materials received from Green Spot, nor alleges facts giving rise to such an inference>>.

Solo che poco sopra (p. 5 nota 3 e testo relativo) il giudice aveva preso per buona la concorde qualificazione  per cui A. è un retailer (rivenditore/dettagliante) e cioè dante causa della sig.ra Brodie. Ciò probabilmente per l’intenso coinvolgimento di A. nella gestione della presenza sul marketplace e delle vendite.

Ora, se A.  è rivenditore, non si vede come possa dirsi che l’informazione difettosa sul prodotto (il mancato avviso della sua rischiosità/pericoosità) provenga dal terzo venditore. E’ infatti A., in thesi, colui che vende al consumatore: pertanto le informazioni di ciò che vende vanno a lui ricondotte, anche se si fosse in toto affidato (de relato) ai contenuti informativi provenienti dal venditore operante sul suo marketplace.

Si tratta infatti di content provider: <<The term “information content provider” means any person or entity that is responsible, in whole or in part, for the creation or development of information provided through the Internet or any other interactive computer service.>>, § 230 (f)(3) CDA

Safe harbour (§ 230 CDA) e Zeran c. American OnLine: saggi sulla responsabilità dei provider

Due noti esperti del diritto di internet e delle piattaforme (Eric Goldman e Jeff Kosseff) hanno curato una raccolta di saggi sul celeberrimo caso Zeran v. America Online del 1997, da poco uscita.

Questo caso fu la prima applicazione del safe harbour,  istituito l’anno prima costituito dal  § 230 del Communications Decency Act (vedi la relativa voce in Wikipedia).

Questa decisione <<was the first appellate ruling to interpret 47 U.S.C. § 230 (Section 230), which had passed just the prior year. As we now known, Section 230 has become one of the most important laws about technology ever passed by Congress; and much of that influence is directly attributable to the Zeran opinion’s broad interpretation of Section 230. Together, the 1996 Section 230 law, plus the 1997 Zeran ruling, sparked the Web 2.0 revolution and the ascendance of user-generated content services that dominate the modern Internet.    This makes Zeran case one of the most significant Internet Law rulings of all time>> (dalla prefazione dei due curatori).

La raccolta è scaricabile da ssrn.com .

Ringraziamo i due editors e gli autori ivi presenti per la messa a disposizione dei saggi sull’importante tema.

“Speed filter” di Snapchat tra negligenza e safe harbour ex § 230 CDA

La funzione Speed Filter di Snapchat permette di registrare le velocità tenuta dal veicolo e inserirla in una fotografia (per successivo posting).

Naturalmente farlo mentre si guida  è pericolosissimo.

In un incidente causato proprio da questo e dall’alta velocità, il danneggiato cita in giudizio l’altro conducente e Snapcht (poi: S.) per negligence.

S. si difende anche con l’invocazione del safe harbour ex § 230 CDA, unico profilo qui considerato.

In primo grado l’eccezione viene accolta. Si v. IN THE STATE COURT OF SPALDING COUNTY STATE OF GEORGIA, 20.01.2017, file n° 16-SV-89, Maynard v. McGee.Sanapchat.

Il ragionamento condotto dal giudice non è molto comprensibile. Il § 230 chiede infatti che si tratti di informazione proveniente da terzi e che si consideri il provider come “publisher or editor”: ma nessuno dei due requisiti ricorre qui.

Infatti in appello questo capo di sentenza viene riformato.

la Court of Appeals of Georgia chiarisce che i casi invocati per fruire del § 230 CDA (Barnes , Fields, Backpage) riguardano tutti fattispecie di danno provocato da post di utenti terzi.  Nel caso in esame, al contrario, <there was no third-party content uploaded to Snapchat at the time of the accident and the Maynards do not seek to hold Snapchat liable for publishing a Snap bya third-party that utilized the Speed Filter. Rather, the Maynards seek to hold Snap chat liable for its own conduct, principally for the creation of the Speed Filter and its failure to warn users that the Speed Filter could encourage speeding and unsafe driving practices. Accordingly, we hold that CDA immunity does not apply because there was no third-party user content published>> ( Corte di Appello della Georgia, 5 giugno 2018, A18A0749. MAYNARD etal. v. SNAPCHAT, INC., p. 9-10 ). Affermazione esatta.

Tornata in primo grado, la causa prosegue solo in punto di negligenza extracontrattuale: secondo il danneggiato, S. avrebbe dovuto prevedere la pericolosità del servizio offerto agli utenti e avvisarli adeguatamente (in pratica: da prodotto difettoso).

Rigiunta in appello solo sulla negligence, la Corte afferma che non c’è responsabilità di S. dato che, da un lato, <there is no “general legal duty to all the world not to subject others to an unreasonable risk of harm>, e, dall’altro, non c’è una special relationship che giustifichi un dovere di protezione, p. 6.  In breve <Georgia law does not impose a general duty to prevent people from committing torts while misusing a manufacturer’s product. Although manufacturers have “a duty to exercise reasonable care in manufacturing its products so as to make products that are reasonably safe for intended or foreseeable uses,” this duty does not extend to the intentional (not accidental) misuse of the product in a tortious way by a third party>, (Corte di Appello della Georgia 30.10.2020, n° 20A1218. MAYNARD et al. v. SNAPCHAT, INC., DO-044,  p. 7)

C’è però giurisprudenza contraria sull’invocabilità del § 230 CDA. Per una sentenza che in un caso uguale (preteso concorso dello Speed Filter di Snapchat alla causazione dell’incidente stradale) spiega in dettaglio tale invocabilità, vedasi  US District Court – Central District of California, 25.02.2020, Carly Lemmon v. Snapchat, n° CV 19-4504-MWF (KSx) , sub III.B.

Questa Corte segue la tesi per cui <<other courts have determined that CDA immunity applies where the website merely provides a framework that could be utilized for proper or improper purposes by the user. See, e.g., Carafano v. Metrosplash.com, Inc., 339 F.3d 1119, 1125 (9th Cir. 2003) (CDA immunity applies to a dating website even though some of the content was formulated in response to the website’s questionnaire because “the selection of the content was left exclusively to the user”) (emphasis added); Goddard v. Google, Inc., 640 F. Supp. 2d 1193, 1197 (N.D. Cal. 2009) (CDA immunity applies where the plaintiff alleged that Google’s suggestion tool, which used an algorithm to suggest specific keywords to advertisers, caused advertisers to post unlawful advertisements more frequently)>>, p. 11.

E applicando al caso specifico,  conclude che <<the Speed Filter is a neutral tool, which can be utilized for both proper and improper purposes. The Speed Filter is essentially a speedometer tool, which allows Defendant’s users to capture and share their speeds with others. The Speed Filter can be used at low or high speeds, and Defendant does not require any user to Snap a high speed. While Plaintiffs allege that some users believe that they will be rewarded by recording a 100-MPH or faster Snap, they do not allege that Snap actually rewards its users for doing so. In fact, when a user first opens the Speed Filter, a warning appears on the app stating “Please, DO NOT Snap and drive.” (RJN, Ex. A). When a user’s speed exceeds 15 m.p.h., another similar warning appears on the app. (RJN, Ex. B). While a user might use the Speed Filter to Snap a high number, the selection of this content (or number) appears to be entirely left to the user, and based on the warnings, capturing the speed while driving is in fact discouraged by Defendant.>>, p. 11 .

Il punto però è che il § 230 CDA richiede che la responsabilità derivi da informazione proveniente da terzo rispetto all’internet provider invocante il safe harbour: il che non ricorre nelle azioni basate sull’uso di Speed Filter.

Notizia dei casi presa dal blog di Eric Goldman.

Altro rigetto di domanda risarcitoria contro Twitter basata su asseritamente illegittima sospensione dell’account

La Corte del Maryland rigetta domanda risarcitoria contro Twitter (poi: T.) basata sull’asseritamente illegittima sospensione dell’account.

Si tratta di US District Court for the District of Maryland, Jones v. Twitter, Civil No. RDB-20-1963, 23.10.2020.

T. aveva sospeso l’account per hateful conduct e precisamente per un tweet  relativo al comico – presentatore Trevor Noah.

Il Tweet <<allegedly “contains a nine or ten word sentence in addition to the two account names.”>>  ma l’attore non lo riportava per esteso , <<recognizing “the decorum of the Court and the deep sensitivity that these public persons and public entities now represent”>> (si difendeva in proprio … ).

J. presentava molte causae petendi ma qui ricorderò solo quella concernente il safe harbour di cui al § 230 CDA.

Il giudice la liquida in fretta, dicendo che ricorrono tutti gli estremi per la sua applicazione  (v. sub I. Counts 1-7, 9-11, and 15 are barred by the Communications Decency Act, 47 U.S.C. § 230(c)(1)).           E pertanto rigetta la relativa domanda.

Non ci sono affermazioni degne di nota, trattandosi di una piana applicazione della normativa.

Ricordo solo che cita l’importante precedente Zeran v. Am. Online, Inc. del  1997 e che l’attore all’evidenza con la domanda giudiziale cercacava “to hold Twitter liable as a publisher of third-party content, as Plaintiff’s entire Complaint  relates to Twitter’s decision not to publish Plaintiff’s content“..

la Corte Suprema USA interviene sul § 230 CDA (anche se solo per negare la trattazione di un caso e cioè il writ of certiorari)

La Corte Suprema USA (SCOTUS)  , nella persona del giudice Thomas (poi: JT), interviene sul § 230 CDA

Lo fa però solo per rigettare un’istanza di writ of certiorari (revisione di un caso già deciso da corte inferiore )

Si tratta di SUPREME COURT OF THE U.S., MALWAREBYTES, INC. v. ENIGMA SOFTWARE GROUP USA, LLC,  ON PETITION FOR WRIT OF CERTIORARI TO THE UNITED STATES COURT OF APPEALS FOR THE NINTH CIRCUIT No. 19–1284. Decided October 13, 2020 .

NOn è chiarisisma la fattispecie concreta: il caso coinvolge <Enigma Software Group USA and Mal-warebytes, two competitors that provide software to enable individuals to filter unwanted content, such as content pos-ing security risks. Enigma sued Malwarebytes, alleging that Malwarebytes engaged in anticompetitive conduct by reconfiguring its products to make it difficult for consumers to download and use Enigma products. In its defense, Mal-warebytes invoked a provision of §230 that states that a computer service provider cannot be held liable for providing tools “to restrict access to material” that it “considers to be obscene, lewd, lascivious, filthy, excessively violent, harassing, or otherwise objectionable.” §230(c)(2).> p .1    Non si capisce quale sia stata esattamente la condotta impeditiva del convenuto Malware, tale per cui questi possa aver inbvocato il § 230 CDA.

In ogni caso, essendo stata proposta una azione per anticompetitive conduct, il § 230 non si applica: lo disse il 9° circuito e lo conferma ora JT (po. 1)

In ogni caso JT ricorda a p. 2- 3 la storia e la ratio del §230. Ricorda che in 24 anni, mai è stato portato all’attenzione di SCOTUS

Poi muove quattro critiche alla interpretazione sempre più ampia che le Corti ne hanno dato:

1)    l’immunità non è più solo per publisher e speaker, ma viene estesa anche ai distributors (contrariamente alla tradizione precedente), sub I.A;
2)    l’immunità non è più solo per i contenuti forniti da terzi, ma -alla fine- anche per i conteuti propri del provider, dato che hanno ristretto l’ambito applicativo della disposizione sul developer (che impedisce di invocare l’esimente ex 230.f.3), sub B: <Under this interpretation, a company can solicit thousands of potentially defamatory statements, “selec[t] and edi[t] . . . for publication” several of those statements, add commentary, and then feature the final product promi-nently over other submissions—all while enjoying immun-ity. .Jones v. Dirty World Entertainment Recordings … (interpreting “de-velopment” narrowly to “preserv[e] the broad immunity th[at §230] provides for website operators’ exercise of tradi-tional publisher functions”). To say that editing a state-ment and adding commentary in this context does not“creat[e] or develo[p]” the final product, even in part, is dubious>

3)    il safe harbour del § 230.c.1 (per cui nulla rischia il provider che disabilita  o rimuove in buona fede)  è interpretato troppo ampiamente sotto il profilo soggettivo (buona fede/mala fede).    Secondo la giusta interpretazione letterale,  <taken together, both provisions in §230(c) most naturally read to protect companies when they unknowingly decline to exercise editorial functions to edit or remove third-party content, §230(c)(1), and when they decide to ex-ercise those editorial functions in good faith>. Costruendo invece la disposizone ampiamente <to protect any decision to edit or remove content, Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F. 3d 1096, 1105 (CA9 2009), courts have curtailed the limits Congress placed on decisions to remove content, see eventures Worldwide, LLC v. Google, Inc., 2017 WL 2210029, *3 (MD Fla., Feb. 8, 2017) (rejecting the interpretation that§230(c)(1) protects removal decisions because it would “swallo[w] the more specific immunity in (c)(2)”). With no limits on an Internet company’s discretion to take down material, §230 now apparently protects companies who racially discriminate in removing content. >, sub C.

4) infine le corti hanno pure esteso il §230 <to protect companies from a broad array of traditional product-defect claims. In one case, for example, several victims of human traffickingalleged that an Internet company that allowed users to post classified ads for “Escorts” deliberately structured its web-site to facilitate illegal human trafficking. > (sub I.D; seguono altri esempi).

Tuttavia, precisa JT,  ridurre l’area del safe harbour, non priva i convenuti di difesa. Semplicemente ciò < would give plaintiffs a chance to raise their claims in the first place. Plaintiffs still must prove the merits of their cases, and some claims will un-doubtedly fail. Moreover, States and the Federal Govern-ment are free to update their liability laws to make them more appropriate for an Internet-driven society. >, II , p. 9-10.

Twitter è esente da responsabilità diffamatoria, fruendo del safe harbour ex § 230 CDA statunitense

Altra decisione che esenta Twitter da responsabilità diffamatoria sulla base del § 230 Communication Decency Act CDA.

Si tratta di US DISTRICT COURT EASTERN DISTRICT OF NEW YORK del 17 settempbre 2020, MAYER CHAIM BRIKMAN (RABBI) ed altri c. Twitter e altro, caso 1:19-cv-05143-RPK-CLP.  Ne dà notizia l’aggiornato blog di Eric Goldman.

Un rabbino aveva citato Twitter (e un utente che aveva retwittato)  per danni e injunction, affermando che Twitter aveva ospitato e non rimosso un finto account della sinagoga, contenente post offensivi. Dunque era responsabile del danno diffamatorio.

Precisamente: <<they claim that through “actions and/or inactions,” Twitter has “knowingly and with malice . . . allowed and helped non-defendant owners of Twitter handle @KnesesG, to abuse, harras [sic], bully, intimidate, [and] defame” plaintiffs. Id. ¶¶ 10-12. Plaintiffs aver that by allowing @KnesesG to use its platform in this way, Twitter has committed “Libel Per Se” under the laws of the State of New York. Ibid. As relevant here, they seek an award of damages and injunctive relief that would prohibit Twitter from “publishing any statements constituting defamation/libel . . . in relation to plaintiffs.”>>.

L’istanza è respinta in base al safe harbour presente nel § 230 CDA.

Vediamo il passaggio specifico.

Il giudice premette (ricorda) che i requisiti della fattispecie propria dell’esimente sono i soliti tre:  i) che sia un internet provider; ii) che si tratti di informazioni provenienti da terzo; iii) che la domanda lo consideri “as the publisher or speaker of that information” e cioè come editore-

Pacificamente presenti i primi due, andiamo a vedere il terzo punto, qui il più importante e cioè quello della prospettazione attorea come editore.

<<Finally, plaintiffs’ claims would hold Twitter liable as the publisher or speaker of the information provided by @KnesesG. [NB: il finto account della sinagoga contenente post offensivi].  Plaintiffs allege that Twitter has “allowed and helped” @KnesesG to defame plaintiffs by hosting its tweets on its platform … or by refusing to remove those tweets when plaintiffs reported them …  Either theory would amount to holding Twitter liable as the “publisher or speaker” of “information provided by another information content provider.” See 47 U.S.C. § 230(c)(1). Making information public and distributing it to interested parties are quintessential acts of publishing. See Facebook, 934 F.3d at 65-68.

Plaintiffs’ theory of liability would “eviscerate Section 230(c)(1)” because it would hold Twitter liable “simply [for] organizing and displaying content exclusively provided by third parties.” … Similarly, holding Twitter liable for failing to remove the tweets plaintiffs find objectionable would also hold Twitter liable based on its role as a publisher of those tweets because “[d]eciding whether or not to remove content . . . falls squarely within [the] exercise of a publisher’s traditional role and is therefore subject to the CDA’s broad immunity.” Murawski v. Pataki, 514 F. Supp. 2d 577, 591 (S.D.N.Y. 2007); see Ricci, 781 F.3d at 28 (finding allegations that defendant “refused to remove” allegedly defamatory content could not withstand immunity under the CDA).

Plaintiff’s suggestion that Twitter aided and abetted defamation “[m]erely [by] arranging and displaying others’ content” on its platform fails to overcome Twitter’s immunity under the CDA because such activity “is not enough to hold [Twitter] responsible as the ‘developer’ or ‘creator’ of that content.” … Instead, to impose liability on Twitter as a developer or creator of third-party content—rather than as a publisher of it—Twitter must have “directly and materially contributed to what made the content itself unlawful.” Id. at 68 (citation and internal quotation marks omitted); see, e.g., id. at 69-71 (finding that Facebook could not be held liable for posts published by Hamas because it neither edited nor suggested edits to those posts); Kimzey v. Yelp! Inc., 836 F.3d 1263, 1269-70 (9th Cir. 2016) (finding that Yelp was not liable for defamation because it did “absolutely nothing to enhance the defamatory sting of the message beyond the words offered by the user”) (citation and internal quotation marks omitted); Nemet Chevrolet, Ltd. v. Consumeraffairs.com, Inc., 591 F.3d 250, 257 (4th Cir. 2009) (rejecting plaintiffs’ claims because they “[did] not show, or even intimate” that the defendant “contributed to the allegedly fraudulent nature of the comments at issue”) (citation and internal quotation marks omitted); see also Klayman v. Zuckerberg, 753 F.3d 1354, 1358 (D.C. Cir. 2014) (“[A] website does not create or develop content when it merely provides a neutral means by which third parties can post information of their own independent choosing online.”).

Plaintiffs have not alleged that Twitter contributed to the defamatory content of the tweets at issue and thus have pleaded no basis upon which it can be held liable as the creator or developer of those tweets. See Goddard v. Google, Inc., No. 08-cv-2738 (JF), 2008 WL 5245490, at *7 (N.D. Cal. Dec. 17, 2008) (rejecting plaintiff’s aiding and abetting claims as “simply inconsistent with § 230” because plaintiff had made “no allegations . . . that Google ‘developed’ the offending ads in any respect”); cf. LeadClick, 838 F.3d at 176 (finding defendant was not entitled to immunity under the CDA because it “participated in the development of the deceptive content posted on fake news pages”).

Accordingly, plaintiffs’ defamation claims against Twitter also satisfy the final requirement for CDA preemption: the claims seek to hold Twitter, an interactive computer service, liable as the publisher of information provided by another information content provider, @KnesesG>>.

Interessante è che l’allegazione censurava non solo l’omessa rimozione ma pure il semplice hosting del post: forse mescolando fatti relativi alla perdita delll’esimente (responsabilità in negativo) con quelli relativi alla responsabilità in positivo.