Sul patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c.: non basta un corrispettivo qualunque

Cass. sez. lav. 01 marzo 2021 n. 5540, rel. Amendola, interviene sul tema in oggetto.

Si trattava di patto relativo a contratto di lavoro nel settore bancario (come spesso accade).

Ai §§ 2.1 e segg. la SC riepiloga i precedenti in materia (utile promemoria). Da questi  emerge l’opinione che ravvisa un legame concettuale tra l’art. 2125 e l’art .2596: andrebbe però vagliata con cura, dato che la seconda disposizione si riferisce probabilmente al rapporto tra imprenditori concorrenti (attuali o potenziai) in senso tecnico, ciò che invece non si può (o non necessariamente) si può dire del dipendente rispetto al datore di lavoro.

Poi ricorda che il patto di non concorrenza è patto autonomo dal contratto in cui è inserito: <<questa Corte ha ripetutamente affermato che il patto di non concorrenza, anche se è stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo, sotto il profilo prettamente causale, per cui il corrispettivo con esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere soltanto i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. (in termini Cass. n. 16489 del 2009, che richiama Cass. n. 1846 del 1975 e n. 3507 del 1991) e, quindi, deve essere “determinato o determinabile”>>, § 2.3.

Si tratta di impostazione densa di conseguenze.

Inoltre (è il secondo punto importante) per la SC è implicito nel corrispettivo, chiesto dall’art. 2125, un requisito di <adeguatezza>: <<“l’espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”>>, § 2.4, richiamando Cass. 10062 del 1994.

Al successivo§ 2.4 la SC ricorda il diritto vivente che autorizza il giudice a controllare l’equilbirio tra le prestazioni: tema difficile ed attuale.

Al § 2.5 infine l’applicaizone al caso de quo . La censura principale alla sentenza d’appello consste nel non aver tenuto chiaramente distinto il profilo della determinatezza/determinabiità del corrispettivo da quello della sua congruità.

Sulla validità del “consenso” prestato nella protezione dei dati personali

La corte di giustizia (CG) chiarisce il concetto di <consenso>> ex GDPR art. 4 n° 11 e art. 6.1.a (e pure ex art. 7; nonchè per le corrispondnenti norne della dir. 95/46/CE, che nel caso poteva essere pure applicabile per una sfasatura temporale in fase esecutiva).  Qui ricorderò solo disposizioni del GDPR

Si tratta di CG 11.11.2020, C-61719, OrangeRomani vs  Autoritatea Națională de Supraveghere a Prelucrării Datelor cu Caracter Personal (ANSPDCP) .

Il trattamento consisteva nella raccolta e conservazione di documenti di identità , cheisti per la stipula e gestione dicotnratti di servizi telefonici  da parte di un gestore rumeno.

La Cg ricorda il cons. 32 GDPR sulla preselezione di caselle, pratica mon ammmissibile, e l’art. 7.2 sulla chaira distinguibilità quando il consenso abbia pure altri oggetti.

<<Informato>< poi significa <<in conformità all’articolo 10 di tale direttiva, letto alla luce del considerando 38 di quest’ultima, nonché all’articolo 13 di tale regolamento, letto alla luce del suo considerando 42, che il responsabile del trattamento fornisca alla persona interessata un’informazione alla luce di tutte le circostanze che corredano il trattamento dei dati, in forma comprensibile e facilmente accessibile, utilizzando un linguaggio semplice e chiaro, di modo che tale persona venga a conoscenza del tipo di dati che devono essere trattati, dell’identità del responsabile del trattamento, della durata, nonché delle modalità e delle finalità che esso persegue. Una siffatta informazione deve consentire a detta persona di individuare agevolmente le conseguenze di un eventuale consenso prestato e assicurare che questo sia espresso con piena cognizione di causa (v., per analogia, sentenza del 1° ottobre  2019, Planet49, C‑673/17, EU:C:2019:801, punto 74).>>, § 40.

Inoltre le clausole non devono  <<indurre la persona interessata in errore circa la possibilità di stipulare il contratto anche qualora essa rifiuti di acconsentire al trattamento dei suoi dati. In mancanza di informazioni di tal genere, non si può ritenere che il consenso di tale persona al trattamento dei suoi dati personali sia stato prestato liberamente né, peraltro, in modo informato>>, § 41.

L’onere della prova del valido consenso spetterebbe al titolare del trattamento, § 42: il giudizio si basa sul disposto dell’art. 7,.1 per cui <<Qualora il trattamento sia basato sul consenso, il titolare del trattamento deve essere in grado di dimostrare che l’interessato ha prestato il proprio consenso al trattamento dei propri dati personali>>. Tale esito interpretativo non è scontato anche se probabilmente corretto: servirebbe riflfessine specifica

Spetta poi al giudice nazionale accertare se il consenso sia stato <specifico>, § 47, e se l’informtiva ex art. 13 sia stata completa, § 48 e infine se sia corretta nel senso di far capire che il contratto poteva essere stipulato anche senza fornire la carta di identità, § 49.

Infine , dice la CG, è dubbia che sia <libero> il cosenso, visto che <<nell’ipotesi di un suo rifiuto, l’Orange România, discostandosi dalla procedura normale che conduce alla conclusione del contratto, esigeva che il cliente interessato dichiarasse per iscritto di non acconsentire né alla raccolta né alla conservazione della copia del suo documento di identità. Infatti, come osservato dalla Commissione in udienza, un siffatto requisito supplementare è tale da incidere indebitamente sulla libera scelta di opporsi a tale raccolta e a tale conservazione, circostanza che spetta altresì al giudice del rinvio verificare. >>, § 50.

Rimozione di pubblicità (già concordata) da giornale e state action doctrine: la rimozione è legittima, mancando state action

La pubblicità politica su giornale di provincia, a seguito di contratto,  può essere rimossa qualora ci si accorga che viola la policy del gioranle stesso, senza che ciò violi il Prmo Emendamento.

Infatti il giornale non è Stato nè suo organo nè public forum.

Nel caso specifico un soggetto aveva concordato una pubblicità politica sul giornale The Astorian (dell’omonima piccola città dell’Oregon-USA) per due candidati a successive elezioni locali. La pubblicità venne  poi rimossa perchè il soggetto, pur avendo inizialmente accettato  di far inserire la precisazione che si trattava di <paid advetisment>, non aveva invece accettato la sucessiva richiesta di inserire anche il proprio nome e indirizzo o telefono (informazione richeista ddall’advertisment policy del giornale).

Si tratta di U.S. D.C. dell’Oregon, 8 marzo 2021, Case No. 3:20-cv-01865-SB, Plotkin c. “The Astorian” ed altri.

In Discussion-I.A, il giudice ricorda i principi generali sulla free speech clause del 1° Emendamento.

Poi in particolare così ragiona <<Defendants argue that The Astorian acted as a private entity—not a state actor—when it removed Plotkin’s advertisement from its publication, and therefore Plotkin’s allegations fail to meet the threshold required to prove that Defendants’ actions violated the First Amendment.

The Court agrees. 

Like the public access television channel in Halleck, here a newspaper does not perform a traditional or exclusive government function. See Halleck, 139 S. Ct. at 1929 (“The relevant function in this case is operation of public access channels on a cable system. That function has not traditionally and exclusively been performed by government.”); see also Brunette v. Humane Soc’y of Ventura Cnty., 294 F.3d 1205, 1214 (9th Cir. 2002) (holding that a newspaper “was not liable as a state actor” under any of the plaintiff’s state action theories); Byers v. The Reg. Guard, No. CV 04-438-HU, 2004 WL 1615220, at *1 (D. Or. July 19, 2004) (dismissing civil rights claims against the Eugene Register Guard in light of “the absence of an allegation that the defendant acted under color of state law”).

On the contrary, a press free and independent from the government is a basic tenet of our democracy. See Miami Herald Publ’g Co. v. Tornillo, 418 U.S. 241, 248-56 (discussing the history  of the press and how the separation between the government and the press is necessary to allow for “the free expression of views”).

Thus, Defendants are not state actors and Plotkin’s constitutional claims have no merit. >>

Nemmeno funziona la difesa del public forum.

<Plotkin attempts to salvage his claims by arguing that the dispositive issue here is not whether The Astorian is a state actor, but whether The Astorian’s creation of a public forum prevents it from limiting Plotkin’s speech under the First Amendment. (Pl.’s Resp. at 2-3; Pl.’s *6 Surreply at 2.)

The Supreme Court has rejected that argument, holding that when a private entity “provides a forum for speech, the private entity is not ordinarily constrained by the First Amendment because the private entity is not a state actor.” Halleck, 139 S. Ct. at 1930 (rejecting the same argument Plotkin raises here, because “[t]hat analysis mistakenly ignores the threshold state-action question”); see also Prager Univ., 951 F.3d at 997 (“YouTube may be a paradigmatic public square on the Internet, but it is ‘not transformed’ into a state actor solely by ‘provid[ing] a forum for speech'” (quoting Halleck, 139 S. Ct. at 1930, 1934)); Belknap v. Alphabet, Inc., — F. Supp. 3d —, 2020 WL 7049088, at *3 (D. Or. 2020) (“The Ninth Circuit, moreover, has explained that private entities who provide the public a forum for speech, including YouTube and Google, are not analogous to private entities who perform all the necessary municipal functions.”) (simplified). 

As a private entity, The Astorian is free to create a public forum subject to its own editorial discretion without running afoul of the First Amendment. See Halleck, 139 S. Ct. at 1930 (“The private entity may thus exercise editorial discretion over the speech and speakers in the forum.”); cf. Tornillo, 418 U.S. at 258 (holding that a privately-owned newspaper “is more than a passive receptacle or conduit for news, comment, and advertising” and “[t]he choice of material to go into a newspaper . . . constitute[s] the exercise of editorial control and judgment.”). Accordingly, Defendants did not violate Plotkin’s First Amendment 7 rights.>>

Pco sopra la corte aveva ricordato che <<A private entity may be a state actor when “the private entity performs a traditional, exclusive public function[.]” Id. (citation omitted). “It is ‘not enough’ that the relevant function is something that a government has ‘exercised . . . in the past, or still does’ or ‘that the function serves the public good or the public interest in some way.'” Prager Univ., 951 F.3d at 997 (quoting Halleck, 139 S. Ct. at 1928-29).>> e che però <<The Supreme Court “has stressed that ‘very few’ functions fall into that category.” Halleck, 139 S. Ct. at 1929 (citing the examples of running elections or operating a company town) (citations omitted). Further, “[t]he Court has ruled that a variety of functions do not fall into that category, including, for example: running sports associations and leagues, administering insurance payments, operating nursing homes, providing special education, representing indigent criminal defendants, resolving private disputes, and supplying electricity.” Id. (citations omitted). *5 Further, “merely hosting speech by others is not a traditional, exclusive public function and does not alone transform private entities into state actors subject to First Amendment constraints.” Halleck, 139 S. Ct. at 1930.>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Aggredibilità creditoria dei beni in fondo patrimoniale per debito da attività di impresa (sull’art. 170 c.c.)

Utili messe a punto da parte della Cassazione sull’art. 170 cc in tema di <<esecuzione sui beni e sui frutti>> inseriti in fondo patroimoniale-

<<Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, anche se la circostanza che il debito sia sorto nell’ambito dell’impresa o dell’attività professionale non è di per sè idonea ad escludere in termini assoluti che esso sia stato contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (v. Cass., 26/3/2014, n. 15886; Cass., 7/7/2009, n. 15862), risponde invero a nozione di comune esperienza che le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale abbiano uno scopo normalmente estraneo ai bisogni della famiglia (cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12998, ove si è sottolineato come la finalità di sopperire ai bisogni della famiglia non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa).>>

Il vincolo di inespropriabilità ex art. 170 c.c., deve però essere contemperato con l’esigenza di tutela dell’affidamento dei creditori, prosegue la SC.

Atteso che la prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c., grava su chi intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, <<ove come nella specie venga proposta opposizione ex art. 615 c.p.c., per contestare il diritto del creditore di agire esecutivamente il debitore opponente deve dimostrare non soltanto la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente ma anche che il suo debito verso quest’ultimo è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia (cfr. Cass., 29/1/2016, n. 1652; Cass., 19/2/2013, n. 4011; Cass., 5/3/2013, n. 5385; Cass., 7/2/2013, n. 2970; Cass., 15/3/2006, n. 5684).

Poichè il vincolo de quo opera esclusivamente nei confronti dei creditori consapevoli che l’obbligazione è stata contratta non già per far fronte ai bisogni della famiglia ma per altra e diversa finalità alla famiglia estranea, si è sottolineato come tale consapevolezza debba sussistere al momento del perfezionamento dell’atto da cui deriva l’obbligazione.

La prova dell’estraneità e della consapevolezza in argomento può essere peraltro fornita anche per presunzioni semplici (v. Cass., 17/1/2007, n. 966; e, conformemente, Cass., 8/8/2007, n. 17418. Con riferimento alla prova della consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori quale condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, cfr. Cass., 11/2/2005, n. 2748).

E’ pertanto sufficiente provare che lo scopo dell’obbligazione apparisse al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia.>>.

Precisazione, quest’ultima, assai importante. La interpreterei così: l’elemento soggettivo (consapevolezza nel creditore) non va provato per come era realmente in mente creditoris (prova impossibile), ma per come ragionevolmente può esistere in un soggetto di media avvedutezza (al pari, del resto, di tutte le prove dell’elemento soggettivo: è prova necessariamente indiziaria).

Nel caso specifico , <<non è dato invero evincere su quali basi e con quali argomentazioni la corte di merito abbia evinto che la stipulazione delle fideiussioni sia stata dall’odierno ricorrente nella specie operata non già quale atto di esercizio della propria attività imprenditoriale volto a garantire la Banca in ordine agli affidamenti concessi funzionali allo svolgimento dell’attività della società (di cui era socio), quanto bensì per sopperire ai bisogni della famiglia…. Non spiega infatti come abbia potuto ritenere che risponda all’id quod plerumque accidit che il professionista o come nella specie l’imprenditore, ove coniugato, nell’esercizio della propria attività professionale o imprenditoriale di norma assuma debiti non già al fine del relativo espletamento quanto bensì per direttamente ed immediatamente sopperire ai bisogni della famiglia>>

rapporto di agenzia, concorrenza e recesso del preponente per giusta causa

Nel rapporto di agenzia, dice la Corte di Cassazione 11.03.2021 n. 6915, l’agente non può porre in essere attività di concorrenza col preponente: se lo fa, viola l’art.  1746 c.1 cc e in particolare il dovere di buona fede.

Nel qual caso il poreponente può recedere per giusta causa exc art. 2119 cc, relativo al lavoro subordinato ma ritenuto applicabile per analogia pure al rapoorto di agenzia, § 20.

Nel caso specifico, <<sulla scorta delle deposizioni testimoniali, era stato confermato che il V. avesse contattato alcuni agenti con la finalità di inserirli in un’attività di impresa in concorrenza con la Ciodue s.p.a..[la prepoonente] >>, § 2

La giusta causa andrà adattata al rapporto di agenzia, in cui <<il rapporto di fiducia – in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali – assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata>>, ivi.

Le affermazioni paiono condivisibili.

La SC precisa, che , vigendo pure un patto di non concorrenza, <<la previsione nel contratto di agenzia di uno specifico patto di non concorrenza non esclude che possa configurarsi la concorrente violazione come ha ritenuto la Corte di appello – dell’obbligo di diligenza da parte l’agente, ravvisabile in qualunque attività che possa nuocere al preponente. In particolare, nel caso di specie è stata addebitata l’iniziativa assunta dal V. di volere stornare i collaboratori della preponente per indirizzarli verso l’iniziativa imprenditoriale che intendeva avviare, da cui l’implicito accertamento dell’animus nocendi, appunto sotteso al tentativo di “storno” di agenti, suscettibile di recare danno (cfr. Cass. n. 31203 del 2017, n. 13424 del 2008, n. 6079 del 1996).>>, § 25.

Quest’affermazione invece non è di immediata comprensione: bisognerebbe indagare gli atti di causa. Il patto di non concorrenza riguarda infatti la fase successiva allo scioglimento del raporto, art. 1751 bis cc. Non si capisce dunque perchè mai la sua presenza nel regolamento contrattuale potrebbe impedire di ravvisare una violazione del dover di lealtà e buona fede ex .art. 1746 cc , tenuta invece in costanza di rapporto.

Buona notizia per Zoom: l’aver permesso lo “zoombombing” è (per lo più) coperto da safe harbour ex § 230 CDA

Alcune persone citano Zoom Incorported per aver permesso l’ingresso di terzi estranei in conferenze Zoom. In sostanza per non aver protetto adeguatamente a livello informatico l’accesso e aver quindi permesso a detti terzi l’ingresso in conferenza con diffusione di materiali illeciti (c.d. <<zoombombing>>, di cui si era parlato pure da noi la scorsa estate). Sono poi avanzate altre domande relative a violazione di privacy, qui non pertinenti.

La lite è decisa da US D.C. NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA-SAN JOSE DIVISION, 11 marzo 2021, Case No. 20-CV-02155-LHK.

I fatti sono sub I.A.

Naturalmente Zoom (Z.) eccepisce il safe harbour ex § 230 CDA.

Dei tre requisiti ivi richiesti (-che si tratti v internet provider, -che la domanda tratti il provider coma publisher o speakler, – che sia informazione proveniente da terzi) sono discusse le prime due, mentre non c’è contestazione sul fatto che ricorra la terza.

Per la corte , Z. è internet provider e dunque ricorre il primo requisito, p. 9 e 10-11,. § A.1.

Circa il secondo, invece, solo alcune domande trattano Z. come publisher/speaker, non tutte. ivi.

La corte al proposito ricorda la ratio del § 230, p. 12-14.

Ricorda che per superare il filtro del § 230 l’attore deve provare: 1) che si tratti di materiali dannosi ma però content-neutral e 2) di non trattare il provider come publisher/speaker, p. 15 ss

Circa 1) fa degli esempi di materiali content neutral, basati su casi anteriori (tentativi di blocco di provvedimenti amministrativi), p. 15-17

Circa 2) , v.si p.  17/8.

Fatte queste precisazioni generali, le applica al caso de quo , arrivando alla conclusione per cui molte delle domande vs. Z., basate sul zoombombing, sono coperte da safe harbour: <<Plaintiffs exposed to this user-generated content suffered emotional distress as a result. Id. ¶ 221. Yet, appalling as this content is, Zoom’s failure “to edit or block user-generated content” is “the very activity Congress sought to immunize.” Roommates.Com, 521 F.3d at 1172 n.32. The bulk of Plaintiffs’ Zoombombing claims lie against the “Zoombombers” who shared heinous content, not Zoom itself. Zoom merely “provid[ed] neutral tools for navigating” its service. Id. at 1174 n.37; see, e.g., FAC ¶ 177 (criticizing Zoom’s “default features”).>>p.19

Nega invece il safe harbour per le domande basate su inadempimento contrattuale.

Preciasamente così riassume la propria posizione: <<In sum, the Court rules as follows on § 230(c)(1) immunity. The Court denies Zoom’s motion to dismiss Plaintiffs’ contract claims. These claims do not derive from Zoom’s status or conduct as a “publisher” or “speaker.” The Court also denies Zoom’s motion to dismiss Plaintiffs’ claims to the extent they are content-neutral. Plaintiffs’ second amended complaint should more clearly articulate those claims. 

The Court grants Zoom’s motion to dismiss Plaintiffs’ claims to the extent they (1) challenge the harmfulness of “content provided by another”; and (2) “derive[] from the defendant’s status or conduct as a ‘publisher or speaker’” of that content. Barnes, 570 F.3d at 1102. However, the Court allows Plaintiffs leave to amend because amendment would not unduly prejudice the opposing party, cause undue delay, or be futile, and Plaintiffs have not acted in bad faith. See Leadsinger, 512 F.3d at 532.>>, ivi.

(notizia e link alla sentenza tratti dal blog di Eric Goldman)

Copyright su fotografia ed eccezione (rigettata) di fair use

Un fotografo professionale (Grecco, poi GR) si accorge che una sua fotografia di Lucy Lawless per il film <Xena: Warrior Princess> è presente in un post del blog https://filmcombatsyndicate.com , tenuto da L.B. Golden III (poi GO). E’ un sito di recensioni e curiosità cinematografiche, par di capire.

GR diffida GO dal proseguire con la messa on line e GO subito si scusa e rimuove.

Ciò nonostante, GR gli intima il pagamento dei danni e alloraa GO gioca di anticipo con un azione di accertamento negfativo, decisa da U.S. D.C. EASTERN DISTRICT OF NEW YORK 09.03.2021, caso n° 19-CV-3156 (NGG) (RER),  Golden III c. Grecco e altri.

La violazione del diritto è accertata, sub III.A.

Il nocciolo della lite è sul fair use, regolato dal 17 US Code § 107(1).

E’ valutato sfavorevolmnente per il convenuto il primo elemento (purpose and character of the use) sub B.1: non c’è alcun apporto personale. Nega poi l’invocabilità di un precedente relativo ad un libro di storia, poichè <<But Golden’s postwas not a work of history, scholarship, or criticism; it was news reporting about rumors regarding a television show’s revival. His blogpost did not transform the purpose of the material from promotion to historical artifact; it appropriated the image to illustrate the subject of his reporting.>>.

Lo stesso per il secondo elemento (nature of the copyrighted work). Qui la riproduzione è infatti vicinissima, anzi coincidente con il core of the intended copyright protection.

Uguale risutlato pure per il terzo elememnto (amount and substantiality of the portion used).

Manco a dirlo, ugual esito , infine, anche per il quarto  criterio (the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work). Qui il punto importante è che, sebbene l’attore non abbia in pratica ricavato nulla dalle licenze passate (per cui sarebbe illogico ravvisare effetti negativi a suo carico), lo scopo deterrente della norma deve portare comunque a rigettare l’eccezione: infatti potenzialmente un  danno concorrenziale c’era e ciò basta per azionare il criterio de quo a sfavore di GO.

si tratta del passggio più imporante della decisione. Precisamente dice la corte: <<Golden’s defense that Grecco likely did not lose money as a result of his infringement does not adequately address the broader policy concerns that the court must weigh. As the Supreme Court has stated with regard to an earlier version of the Copyright Act, “a rule of liability which merely takes away the profits from an infringement would offer little discouragement to infringers. It would fall short of an effective sanction for enforcement of the copyright policy.” F. W. Woolworth Co. v. Contemporary Arts, 344 U.S. 228, 233 (1952). As discussed below, the Copyright Act permits a copyright owner to elect to pursue statutory damages in excess of actual damages, even when actual damages are provable. See 17 U.S.C. § 504(c). The parties in this case dispute whether the damages should be 50 times or 190 times the total that Grecco has ever received in licensing fees for the Xena Photograph, should the court find infringement, exemplifying thatthe purpose of the Copyright Act’s remedial scheme goes beyond any individual copyright holder’s injury. 7 See, e.g. Fitzgerald Pub. Co. v. Baylor Pub. Co., 807 F.2d 1110, 1117 (2d Cir. 1986) (citing “deterrent effect” as a factor in “deciding upon the appropriate statutory damages award”). In sum, the statute and caselaw require the court to consider more than merely the effect of Golden’s infringement on Grecco. The court must also weigh the effect on the market in general to allow a fair use defense on the basis that the copyright holder was unlikely to have suffered actual damages based on the status of the market for the copyrighted material at issue. See Harper & Row, 471 U.S. at 568 (“[T]o negate fair use one need only show that if the challenged use ‘should become widespread, it would adversely affect the potential market for the copyrighted work.”‘) (quoting Sony Corp. of America v. Universal City Studios Inc., 464 U.S. 417, 451 (1984)); see also Blanch v. Koons, 467 F.3d 244, 258 (2d Cir. 2006) (“In considering the fourth factor, our concern is not whether the secondary use suppresses or even destroys the market for the original work or its potential derivatives, but whether the secondary use usurps the market of the original work.”). At bottom, Grecco was paid handsomely to produce the original photograph to promote the television show in 1997. He retained the copyright to that image so that he could license it, for a fee, for secondary use. That secondary market would be meaningless if entertainment websites could use the image without paying the licensing fee, even if few or no customers showed interest in the Xena Photograph by 2015. In light of those broader copyright policy concerns, the fourth factor favors Grecco and counsels against a finding of fair use>>.

Sono rigettate altre eccezioni , tra cui la <unclean hands> (malafede o abuso del diritto o illecito alla base della domanda), nonostate la corte ipotizzi che Grecco possa considerarsi un copyright troll, p. 14-15.

Interessante è poi la questione sugli statutory damages, da risolvere a seconda che GO fosse o no in buona fede (innocent infringer), p. 16-18.     Ebbene, per la corte l’assenza di previa diffida non  è di per sè garanzia di buona fede. Tuttavia GO non è innocent infringer , dato che dal contesto  apparive ovvio che egli sapesse del’uso comerciale della foto: come confermato dalla sua affermazine (poco scaltra, invero) per cui pensava si trattasse di foto <promotional>, p. 18. Di conseguenza GO è codnanato al minimo di legge per questo tipo di danni ex 17 US Code § 504(c)(1).

Giova invee a GO la sua pronta rimozione del post poichè così ha conseguito l’obiettivo di non subire la condanna alle spese legali attoree.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Pinterest corresponsabile per violazione di diritto di autore?

Il Northern District della California affronta la questione del ruolo di Pinterest (P.) in possibili violazioni di copyright (decisione 9 marzo 2021, caso 19-cv-07650-HSG, Davis c. Pintereset inc.).

(non è chiara la fonte delle immagini su P.:  <<These images may be captured by Defendant’s users, or may be copied from other sources on the internet>> p. 3. Copiate da altre sources da parte di chi? da P.?).

L’attore, fotografo professionista, cita P. per correponsabilità (contributory infringement) in violazione di copyright.

Allo scopo, <<to establish a claim for contributory copyright infringement, Plaintiff “must establish that there has been direct infringement by third parties…. Once this threshold issue has been established, Plaintiff must further allege that Defendant “(1) has knowledge of another’s infringement and (2) either (a) materially contributes to or (b) induces that infringement.”>> p. 3.

La material contribution <<“[i]n the online context” requires the defendant to have “actual knowledge that specific infringing material is available using its system, and . . . simple measures [would] prevent further damage to copyrighted works, yet [the defendant] continues to provide access to infringing works.” Id. at 671 (quotation omitted). And inducement requires the defendant to “distribute[] a device with the object of promoting its use to infringe copyright, as shown by clear expression or other affirmative steps taken to foster infringement.” See id. at 672. Here, Plaintiff alleges theories of liability premised on both material contribution and inducement, and Defendant challenges both theorie>>, ivi.

Sebbene riconoscendo la debolezza della propria prova di knowledge, l’attore afferma che -almeno in quello stadio processuale- poteva bastare il  constructive knowledge and willful blindness, p. 4 .

Ma la corte esclude pure la prova di questo elemento soggettivo alleggerito, facilitato. Bisogna infatti che la sua prova riguardi lo specifico atto in violazine dedotto in casua, p. 5 .

Si tratta del passaggio più importante a fini pratici, pure per il nostro ordinamento.

Non è <conoscenza presunta>  lo scambio pregiudiziale di email con l’azienda P., dice la corte: che anzi danneggia l’attore, perchè l’azienda gli aveva chiesto informazioni di dettaglio, che lui non aveva poi inviato, ivi.

Nemmeno è willful blindness la consapevolezza della generica possibilità di materiali illeciti , dovendo anche qui riguardare materiali specifici, p. 5/6.

Infine l’attore allega che P. rimuove metadati, che che potrebbero far capire la provenienza illecita dei materiali ospitati. Ma ciò -conclude la corte- al più rappresenta una indifferenza al rischio di P. alle violazioni, non una sua consapevolezzaa di quella specificamente dedotta in lite, p. 6

Eccezione probabilmente esatta a fil di legge, ma troppo penalizzante per i titolari dei diritti lesi.

Non è menzionata la questione del safe harbour (qui del § 512 DMCA, trattandosi di copyright).

(notizia e link alla notizia tratti dal blog di Eric Goldman)

Sulla willfull blindness , pur se nel diritto dei marchi, v. ora il saggio di Andrew Ligon Fant, Reconsidering the Willful Blindness Doctrine in Contributory Trademark Infringement, 29 J. Intell. Prop. L. 318 (2022).

Appello sul safe harbour § 230 CDA in caso di chiusura di account Vimeo

L’appello conferma decisione della corte newyorkese di prima istanza in una lite su chiusura di account Vimeo (piattforma per video, sia gratuita che premium) per violazione di regola contrattuale, lite decisa in base all’immancabile  safe harbour ex § 230 CDA.

Così il  secondo circuito di appello 11.03.2021 , Docket No. 20-616, Domen c. Vimeo.

Domen e l’ente da lui creato, dunque,  citano Vimeo (V. ) per avergli chiuso l’account per violazione delle sue regole che vietano <<the promotion of sexual orientation change efforts (“SOCE”) on its platform>>, p.3.

Gli attori citano V. perchè ha <<discriminated against them on the basis of their religion and sexual 3 orientation by deleting Church United’s account from Vimeo’s online video 4 hosting platform>> p. 3.

La corte conferma la decisione di primo grado , rigettando in limine per l’esimente del § 230. CDA.

Ricorda poi che l’attore era stato in un primo tempo avvisato di togliere i video contestati, altrimenti avrebbe subito la chiusura dell’account. Non avendovi provveduto, ha giustamente subito la chiusura, p. 14.

Non è però chiara la rilevanza del previo warning da parte della piattaforma: la legge non lo chiede, a differenza dal § 512 DMCA in tema di copyright. Tuttavia la corte vi insiste, per cui a fini pratici la piattaforma farà bene a dare un preavviso conrguo.

Le accuse di discriminazione sono reciproche: cioè stanno alla base sia della domanda giudiziale (p.8) che della decisione di V.

La corte di prima istanza rigetta per i commi sia 1 che 2 del § 230(c), p.8.

La corte di appello precisa che, sebbene fosse possibile una misura minore (rimozione solo dei video de quibus invece che di tutto l’account), a ciò non era tenuta V., p. 14 . Cioè la proporzionalità della reazione non è obbligata (secondo la disposizine di legge, che in effetti non la menziona, come invece da noi la dir. UE c.d enforcement 48/2004 art. 3/2).

Inoltre, prosegue la corte, circa il § 230.c.2, V. non può dirsi in malafede (la norma chiede la good faith) per il solo fatto di aver “lasciato su” altri video, che dal titolo paiono trattare la stessa materia. Infatti dal mero titolo non è chiaro che si tratti (la cit. SOCE), p. 16. Dunque avviso importante per i prossimi litigators: documentare bene i  materiali altrui  non rimossi perchè si potrebbe  ottenere ragione.

Ancora, nemeno può ravvisarsi malafede per intento anticompetetitivo o conflitto di interessi, p. 15). Infatti nel caso <<it was a straightforward consequence of Vimeo’s content policies, which Vimeo communicated to Church United prior to deleting its account>>, p. 15.

Altro avviso ai difensori prossimi circa l’interpretazione del concetto di good faith, che faranno bene a tener presenti questi concetti. Infatti , esaminado meglio la struttura del business della piattaforma convenuta, portrebbero far emergere un rapporto concorrenziale col loro cliente e dunque pure la malafede della prima.

Non è stata dedotta nè esaminata la questione dell’applicabilità a V. (e in generale agli internet provider) del primo emendamento della costituzione USA sul diritto di parola.

(notizia e link alla sentenza tratti dal blog di Eric Goldman)

Prova dell’erroneo addebito di interessi nel conto corrente bancario: necessità assoluta di tutti gli estratti conto?

La prova dell’erroneo addebito degli interessi, operato dalla Banca, non necessariamente deve consjstere in tutti gli estratti conto pertinenti al tempo dedotto.

Essi possono infatti essere integrati da CTU , purchè questa poggi su un minino di documenti da cui risalire per coprire i periodi non documentati da estratti conto. La CTU ad es. può partire da un dato contabile della banca stessa, la quale non può poi negarlo (§ 3 , citando la sentenza di appello).

Così  Cass. 04.03.2021 n. 5887, rel. Dolmetta.

In pareticolare così scrive il rel.: <<La giurisprudenza della Corte – occorre subito riscontare in proposito – ha infatti chiarito che il giudice del merito deve in ogni caso valutare la possibilità che la prova dell’indebito sia desumibile aliunde, in maniera diversa dagli estratti conto, cioè.

Ben può – si è così precisato – il giudice integrare la prova offerta dal correntista; nel caso, pure con mezzi di cognizione disposti d’ufficio, come la CTU, alla quale il giudice può ricorrere quando la prova dei movimenti del conto, che sia prodotta dal correntista, non risulti completa, ma comunque tale da consentire al CTU di operare il calcolo delle competenze trimestrali (cfr., in specie, Cass., n. 31187/2018; Cass., n. 29190/2020; si veda, altresì, la pronuncia di Cass., n. 30822/2018, la quale – al di là della imperfetta sintesi approntata dall’Ufficio del Massimario – ha in realtà puntualizzato che, in caso di produzione parziale degli estratti, il calcolo dei rapporti di dare e di avere decorre “dalla data della posta iniziale a debito annotata sul primo estratto conto disponibile” e dalla misura data da questo saldo, senza alcun previo azzeramento dello stesso).

In realtà, è improprio e scorretto – così si è rilevato in particolare – considerare gli estratti conto come “veicolo di una prova legale” di fatti, che invece sono suscettibili di prova libera, cioè dimostrabili anche mediante argomenti di prova ed elementi indiretti che compete al giudice di merito valutare nell’ambito del suo prudente apprezzamento (Cass., n. 29190/2021)>>, § 12.

Non risultano però chiarissimi i fatti e  la pertinenza ad essi del ragionamento della SC. Infatti , ad una prima lettura, da un lato, la lacuna documentale riguardava solo il periodo 1983-1990, mentre il correntista  era “a posto” per il prosieguo (1991-2012, anno di chiusura del conto); dall’altro , egli aveva poi limitato la domanda appunto solo a detto prosieguo.