Giudizio di confondibilità tra marchi denominativi : altro intervento europeo

Il Trib. UE 27.10.2021, T-356/20, Václav Jiruš, c. EUIPO, si pronuncia sull’oggetto confermando il giudizio di confondibilità già emesso dall’Ufficio.

I marchi a confronto sono SYNDICATE, e RAcing Syndicate (scritto con particolarità grafiche: v. sentenza linkata).

I generi merceologici sono vicini anche se non  sovrapponibili, §§ 3 e 6 (basso grado di affinità, § 53).

Quanto alla somiglianza tra segni, a parte la consueta triade di esame (visual phonetic conceptual) , § 55, il Trib. ricorda che l’assessment of the similarity between two marks means more than taking just one component of a composite trade mark and comparing it with another mark. On the contrary, the comparison must be made by examining each of the marks in question as a whole, which does not mean that the overall impression conveyed to the relevant public by a composite trade mark may not, in certain circumstances, be dominated by one or more of its components (see judgment of 12 June 2007, OHIM v Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, paragraph 41 and the case-law cited). It is only if all the other components of the mark are negligible that the assessment of the similarity can be carried out solely on the basis of the dominant element (judgments of 12 June 2007, OHIM v Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, paragraph 42, and of 20 September 2007, Nestlé v OHIM, C‑193/06 P, not published, EU:C:2007:539, paragraph 43). That could be the case, in particular, where that component is capable on its own of dominating the image of that mark which members of the relevant public retain, with the result that all the other components are negligible in the overall impression created by that mark (judgment of 20 September 2007, Nestlé v OHIM, C‑193/06 P, not published, EU:C:2007:539, paragraph 43), § 56.

Questo in generale.

Nello specifico, poi, the term ‘Racing’ in the contested mark refers in general to the concept of races which take place in the context of sporting events. Consequently, as the Board of Appeal rightly pointed out, so far as concerns the goods in Classes 9 and 28 covered by the contested mark, the term ‘Racing’ refers to a possible use of the protective equipment in question, namely the fact that it is intended or suitable for being used in races which take place in the context of sporting events. It therefore has a weak inherent distinctive character. In view of that finding and, moreover, in the light of the fact that, in the contested sign, the terms ‘Racing’ and ‘Syndicate’ are the same size, the same colour and are stylised in the same way, the term ‘Racing’ cannot, contrary to what the applicant claims, be regarded as dominating the overall impression created by the contested mark. , § 65

Segue applicazione partita per singole classi merceologiche

Si tratta di precisazioni sempre utili al pratico, che vale la pena di rinfrescare .

Il Trib. UE sui marchi di forma (i rossetti per labbra Guerlain)

Nella lite tra l’Ufficio e Guerlain per la registrazione come marchio di forma costituto da  stick portanti rossetto per labbra (e non costituiti direttamente dal rossetto),  il Tribunale ribalta le decisioni negative del’luifficio e mne aferma la validità.

Si trata di Trib. UE 14.07.2021, T-488/20, che decide in base al reg. 1001 del 2017

qualche indicazione realistica sulla loro forma  nei disegni e immagini in sentenza (§§ 2 e 7; solo in francese).

Nella scheda di sintesi in italiano leggiamo che:

<< In primo luogo, il Tribunale ricorda che la valutazione del carattere distintivo non si basa sull’originalità o sul mancato uso del marchio richiesto nel settore cui appartengono i prodotti e i servizi interessati Infatti un marchio tridimensionale costituito dalla forma del prodotto deve necessariamente discostarsi significativamente dalla norma o dagli usi del settore interessato. Pertanto la mera novità di tale forma non è sufficiente per concludere che esiste un carattere distintivo. Tuttavia il fatto che un settore sia caratterizzato da una considerevole varietà di forme di prodotti non implica che un’eventuale nuova forma sia necessariamente percepita come una di esse

In secondo luogo, secondo il Tribunale, la circostanza che taluni prodotti presentino un design di qualità non implica necessariamente che un marchio costituito dalla forma tridimensionale di tali prodotti possa distinguere i prodotti medesimi da quelli di altre imprese. Il Tribunale rileva che la presa in considerazione dell’aspetto estetico del marchio richiesto non equivale ad una valutazione sulla bellezza del prodotto di cui trattasi, bensì mira a verificare se tale aspetto sia idoneo a suscitare un effetto visivo oggettivo e inusuale nella percezione del pubblico di riferimento.

In terzo ed ultimo luogo, tenendo conto delle immagini considerate dalla commissione di ricorso come rappresentative della norma e degli usi del settore interessato, il Tribunale constata che la forma in questione è inusuale per un rossetto e differisce da qualsiasi altra forma presente sul mercato. Infatti il Tribunale osserva innanzitutto che tale forma ricorda quella dello scafo di un battello o di un paniere. Orbene, una forma siffatta differisce significativamente dalle immagini considerate dalla commissione di ricorso, le quali rappresentavano per lo più rossetti di forme cilindriche e parallelepipede. Inoltre la presenza di una piccola forma ovale in rilievo è insolita e contribuisce alla parvenza inconsueta del marchio richiesto. Infine il fatto che il rossetto rappresentato da tale marchio non possa essere posizionato in modo verticale accentua l’aspetto visivo inconsueto della sua forma.

Il Tribunale pertanto ritiene che il pubblico di riferimento rimarrà sorpreso da tale forma facilmente memorizzabile e la percepirà come significativamente diversa dalla norma o dagli usi del settore dei rossetti ed idonea ad indicare l’origine dei prodotti interessati. Il marchio richiesto è quindi dotato di un carattere distintivo che ne consente la registrazione >>.

Precedente di cui tener buona nota nelle (quasi mai semplici) vertenze in tema di marchio tridimensinale

L’assicurazione per conto di chi spetta può anche concernere il rischio di responsabilità verso terzi

La corte di appello milanese con sentenza 21.09.2021, n. 2690/2021, Groupama Assicurazioni c. REA ss, rel. Mammone, RG 1147/2019,  chiarisce che l’assicurazione per conto di chi spetta può anche riguardare la respnsbilità verso terzi e non solo il pregiudizio per la perdita del bene (c.d. garanzia diretta , nel caso : immobile).

Così dice: <<Del resto, non vi sono limiti di carattere logico o giuridico che ostino alla stipulazione di un contratto di assicurazione contro il rischio della responsabilità civile per conto di spetta, così come ha ben chiarito la Corte di cassazione, allorché ha affermato che “oggetto dell’assicurazione è il rischio della responsabilità civile, cioè l’obbligo risarcitorio del danno al soggetto leso, che incombe sull’assicurato. Titolare dell’interesse esposto al rischio è quindi il soggetto assicurato, vale a dire il responsabile civile; il contraente, cioè colui che ha stipulato il contratto di assicurazione, di norma, cioè quando il contratto per conto di altro soggetto determinato è conforme al tipo dell’art. 1891 cod. civ., come nel caso di specie, non è titolare dell’interesse assicurato” (cfr. Cass. n. 15376/2011).    Né può sostenersi che non esistesse un interesse di Maria Grazia Masut a proteggere, oltre che l’immobile, anche il patrimonio di REA, considerato che l’interesse alla stipulazione di un contratto di assicurazione è ravvisabile non solo in relazione al diritto di proprietà o ad altro diritto reale sulla cosa assicurata, ma anche a qualsiasi rapporto economico-giuridico per il quale il titolare sopporti il danno patrimoniale per effetto di un evento dannoso (Cass. n. 15107/2013; Cass. n. 9469/2004; Cass. n. 354130/1981). Maria Grazia Masut è pacificamente usufruttuaria della totalità delle quote sociali di REA e dunque la sua sfera patrimoniale è suscettibile di essere incisa da eventuali azioni risarcitorie nei confronti della società. E, del resto, seguendo il ragionamento di Groupama, non è possibile comprendere in che modo la clausola denominata “Ricorso terzi” potrebbe giovarle, considerato che, dagli atti, la Masut risulta essere sempre stata residente a Milano, in via Solari e non nell’immobile di proprietà della parte appellata, diversamente da quanto adombrato dalla compagnia (dagli atti di indagine, peraltro, emerge che la notte in cui divampò l’incendio l’appartamento era occupato da Chiodelli Andrea e Bosetti Michela – cfr. doc. 17 e 18 di parte attrice).>>

La clausola per conto di chi spetta era questa: <<Il contratto n.1101168, sebbene stipulato da Maria Grazia Masut in qualità di contraente, individua l’assicurato nel “soggetto il cui interesse è protetto dall’assicurazione” ed il bene in relazione al quale la garanzia è prestata è incontestatamente l’immobile di proprietà di REA s.s..>>

Risarcimento da mancarto guadagno in caso di violazione di marchio (oltre che danno non patrimoniale per le società commerciali)

Trib. Milano  n. 1989/2021 del 09.03.2021, RG 49780/2016, rel. Barbieri, BTicino spa c. ABS sas e altri, accerta la contraffazione di marchi BTicino e determina il danno così:  << Ai fini della determinazione del lucro cessante subito dalla società attrice si è considerata  la  differenza  dei  flussi  di  vendita  che  il  titolare  della  privativa avrebbe avuto in assenza della contraffazione e quello che ha effettivamente avuto, intendendo il mancato guadagno quale utile netto determinato sottraendo  ai  ricavi  netti  di  vendita  i soli costi di produzione “incrementali” che,  nel  caso  di  specie,  sono  stati  identificati  nei  costi  di  acquisto  della materia  prima,  nei  costi  di  acquisto  dei  semilavorati,  nei  costi  energetici  di produzione  (forza  motrice)  e  nei  costi  dei  materiali  di  consumo  diretti.    Nessun  altro  costo  diretto  è  stato  preso  in  considerazione,  tenuto  conto  che, per  Bticino,  non  sarebbe  stato  necessario  incrementare la propria “capacità produttiva” al fine di produrre le quantità di beni di cui è stata accertata  la contraffazione (cfr. pag. 5 della relazione peritale).

Il margine non realizzato da Bticino è stato determinato confrontando i ricavi medi  di  vendita  che  Bticino  non  ha  realizzato,  con  riferimento  ai  codici prodotto di cui alle fatture di Nuova Quadrimpianti, negli anni 2013, 2014 e 2015  ed  i  costi  industriali  (incrementali)  non  sostenuti  riferiti  ai  medesimi prodotti. Il margine non realizzato da Bticino riferibile ai prodotti venduti da Nuova Quadrimpianti negli anni 2013, 2014 e 2015 somma Euro 210.655,49, a fronte di un numero di vendite di prodotti contrassegnati da codici prodotti Bticino  e  contraffatti  poste  in  essere,  negli  anni  2013,  2014  e  2015  dalla predetta convenuta di 147.389 (cfr. pag. 9 della CTU). Con  riferimento  alle  vendite  di  Gruppo  Elektra,  a  seguito  delle  elaborazioni eseguite  dal  CTU,  sono  state  individuate  le  seguenti  quantità  di  vendite  di prodotti  contraffatti  contrassegnati  con  i  codici  prodotti  Bticino:  696.488 nell’anno 2015 e 200.723 nel 2016.

L’utile netto  non  realizzato  da  Bticino  è  stato  determinato  confrontando  i ricavi medi di vendita che Bticino non ha realizzato, con riferimento ai codici prodotto  di  cui  alle  fatture  di  Gruppo  Elektra,  negli  anni  2015  e  2016  ed  i costi industriali (incrementali) non sostenuti riferiti ai medesimi prodotti. Il  margine  non  realizzato  da  Bticino riferibile  ai  prodotti  venduti da  Gruppo Elektra negli anni 2015 e 2016 somma Euro 1.068.937,74.

Ne consegue che, stante la riconosciuta responsabilità solidale dei convenuti, componenti una “rete commerciale alternativa” di prodotti contraffatti recanti i  marchi  di  titolarità  della  Bticino,  le  stesse  devono  essere  condannate  a corrispondere a parte attrice, a titolo di lucro cessante, la complessiva somma  di  denaro  euro  1.279.593,23,  corrispondenti  all’utile  netto  che  la  Bticino avrebbe  complessivamente ricavato  in  assenza  della complessa condotta contraffattiva.>>

Sul danno non patrimoniale: <<In  favore  di  parte  attrice  deve  poi  essere  liquidato  –  considerato  che  la condotta illecita posta in essere ai suoi danni integra il reato di cui all’art. 473 c.p.  e  tenuto  conto  della  portata  svilente  dei  prezzi  praticati  e,  soprattutto, dell’elevata pericolosità della merce illecitamente commercializzata dai convenuti, tali da ledere l’immagine commerciale del titolare delle privative – anche il danno non patrimoniale, equitativamente liquidato nella misura di un quarto  del  danno  patrimoniale,  dunque  nella  complessiva  somma  di  euro 320.000.>>.

Il collegio sorvola sulla questione del se sia realmente <danno non patriminale>, dato che l’otggetto sociale è la produzine d iutili tramite attività d iimpresa.

Infine non troppo chiaro è l’ultimo  comando , legato alla irrreperibilità di due convenuti: <<Dal momento che, come rilevato, i convenuti diversi da Nuova Quadrimpianti e da Gruppo Elektra si sono posti in condizione di irreperibilità, ovvero hanno adottato condotte di mancato adempimento dell’ordine  giudiziale  di  esibizione  al CTU delle scritture contabili, funzionale a permettere i disposti accertamenti peritali, la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale deve essere incrementata,  per  via  equitativa,  nella  misura  di  euro  200.000,  al  fine  di tenere  conto  dei  minori  flussi  di  vendita  che  il  titolare  ha  prodotto  a  causa delle  condotte  di  contraffazione,  accertate,  poste  in  essere  dai  convenuti  in parola>>.

Conclusione del contratto via e arbitrabilità

nel dubbio sulla conclusione o meno del contratto relativo alla arbitrabilità con Walmart, la corte di appello rinvia a processo sulla stessa arbitrabilità, come prevede la legge federale.

Si tratta dell‘appello dell’8 circuito n. 20-1787 dell’8 ottobre 2021 .

La sentenza è interessante per l’esame delle modalità di conclusione dei contratti via internet, “clickwrap” arrangements oppure “browsewrap” arrangements.

Nel caso de quo era relativo a gift cards di Walmart cui erano stati sottratti ilecitamente i denari ivi caricati.

Il punto per decidere la conclusione o meno del patto è capire se vi sia stata o meno <notice> adeguata:  il rinvio alle condizioni generali di Walmart stava sul retro della carta (ove si leggeva “[s]ee Walmart.com for complete terms.” ), condizioni reperibili nel sito web.

In primo grado la corte aveva escluso la conclusione di patto sul punto; la corte di appello invece è in dubbio e perciò rinvia al trial per decidere sul punto.

(sentenza e link dal blog di Eric Goldman)

Il marchio (super)notorio in Cassazione: precisazioni che non sarebbero necessarie

La SC interviene sui marchi rinomati Gucci (deprecabilmente non c’è corredo fotografico in sentenza) per ribadire regole ovvie, alla luce delle disposizioni vigenti (Cass,. 07.10.2021, n. 27.217, rel Fidanzia).

Sembra che la corte di appello toscana avesse centrato il giudizio di rigetto dalla domanda Gucci sulla assenza di confondibilità, quando invece il dettato è limpido nel dire che la tutela del marchio rinomato da essa prescinde. Infatti i  requisiti posti dall’art. 12.e)  (anzi, dall’art. 12.f), secondo la SC, § 4: non è chiaro perchè) non parlano di confondibilità ma solo di indebito vantaggio/pregiuzio.

Non si sa dunque come sia potuta la CdA incappare in tale svarione.

La SC allora si trova obbligata a ricordare, quanto al pregiudizio,  che: <<il pregiudizio arrecato al carattere distintivo del marchio che gode di notorietà, indicato anche con il termine di “diluizione”, si manifesta quando risulta indebolita la sua idoneità ad identificare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, per il fatto che l’uso del segno identico o simile fa disperdere l’identità del marchio e della corrispondente presa nella mente del pubblico.

Tale situazione si verificherà soprattutto qualora il marchio non sia in grado di suscitare un’associazione immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato.

Il pregiudizio arrecato alla notorietà, designato anche con il termine di “corrosione”, si verifica quando i prodotti o i servizi per i quali il segno identico o simile è usato dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere di attrazione del marchio ne risulti compromesso (v. sentenza L’Ore’al punti 39 e 40; Cass. n. 26000/2018).

Non vi è dubbio, infatti, che una estesa commercializzazione di prodotti recanti segni identici o simili a marchi rinomati possa fondatamente cambiare le abitudini della clientela cui tali articoli sono normalmente indirizzati, soprattutto di quella che è orientata all’acquisto per il carattere esclusivo del prodotto, per l’elevatissimo target del medesimo, la quale, per non incorrere nel rischio che il suo costoso accessorio di lusso possa essere confuso con uno contraffatto, può dirigersi verso altre marche altrettanto rinomate>> .    Questo è probabilmente il passaggio più interessante.

Quanto al requisito alternativo (indebito vantaggio), ricorda che: <<La nozione di “vantaggio indebitamente tratto dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio”, detto anche “parassitismo”, va, invece ricollegato non al pregiudizio subito dal marchio, quanto piuttosto al vantaggio tratto dal terzo dall’uso del segno identico o simile al marchio. Essa comprende, in particolare, il caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussista un palese sfruttamento parassitario nella scia del marchio che gode di notorietà (sentenza nella causa C-487/07 cit., punto 41) senza che il titolare del marchio posteriore abbia dovuto operare sforzi propri in proposito e senza qualsivoglia remunerazione economica atta a compensare lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per crearlo e mantenerne l’immagine (v. sempre sentenza nella causa C-487/07 cit., punto 49).

Il titolare del segno posteriore, in sostanza, ponendosi nel solco del marchio notorio, beneficia del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, senza dover sborsare alcun corrispettivo economico.

Dunque, è del tutto irrilevante che coloro i quali sono soliti acquistare prodotti G. possano non essere indotti in errore in ordine alla provenienza del prodotto recante il marchio del contraffattore, potendo tale prodotto indirizzarsi a quei consumatori che lo scelgono in modo consapevole non per le sue caratteristiche, decorative o di materiale, intrinseche, ma solo per la sua forte somiglianza a quello “celebre”, magari per “spacciarlo” come quello originale ai conoscenti meno attenti o meno qualificati nel riconoscere i marchi rinomati.

Esaminati i requisiti previsti dalla normativa sia comunitaria che italiana per accordare la tutela al marchio dotato di rinomanza, secondo la giurisprudenza comunitaria sopra citata (vedi sempre sentenza L’Oreal), al fine di accertare se l’uso del segno tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, occorre effettuare una valutazione complessiva che tenga conto di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, fra i quali compaiono, in particolare, l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo del marchio, il grado di somiglianza fra i marchi in conflitto, nonché la natura e il grado di prossimità dei prodotti o dei servizi interessati. In particolare, quanto all’intensità della notorietà e del grado di carattere distintivo del marchio, è stato evidenziato che più il carattere distintivo e la notorietà del marchio di cui si tratta sono rilevanti, più facilmente sarà ammessa l’esistenza di una violazione; inoltre, più l’evocazione del marchio ad opera del segno successivo è immediata e forte, più aumenta il rischio che l’uso attuale o futuro del segno tragga un vantaggio indebito dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio o rechi loro pregiudizio (v., in tal senso, anche sentenza 27 novembre 2008, causa C 252/07, Intel Corporation, punti 67-69)>>.  Attenzione però: che la maggior rinomanza aumenti il rischio di vantaggio è direi quasi certo; che aumenti pure quello di pregiudizio, lo è meno (forse dipende dal tipo di rinomanza, ad es. a seconda che sia o meno basata su un’immagine di ricerca qualitativa)

Le opzioni put e call per l’acquisto di una società non sono prive di causa nè costituiscono patto leonino

Lo insegna Cass. 27.227 de.l 07.10.2021, rel. Nazzicone, basandosi (sul primo punto) su Cass. 2016 n° 763: <<La motivazione esposta nel menzionato precedente, che per la prima volta in sede di legittimità ha offerto la definizione di contratto call e put option – sopra ampiamente richiamata a fini di chiarezza dei contorni della diversa fattispecie giuridica, nonché la stessa vicenda in fatto ivi decisa – palesano come il meccanismo tecnico-giuridico delle opzioni non sia delimitabile solo all’interno dei derivati finanziari in ambito borsistico, ben potendo i patti parasociali contenere il medesimo meccanismo dell’opzione, ma limitati ai soci di una società, dei quali, in particolare come nella specie, l’uno funga da socio finanziatore garantito dal patto in questione.

La stessa causa concreta del patto parasociale oggetto di causa, evocata dalla ricorrente sin dal proprio atto introduttivo, si palesa diversa da quella di uno strumento finanziario del mercato borsistico (cfr. D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, commi 2 e segg., T.U. dell’intermediazione finanziaria), avendo il fine pratico, sia pure mediante il meccanismo dell’opzione di rivendita o di riacquisto a prezzo fisso, di assecondare iniziative imprenditoriali specifiche, tutelate quali espressioni dell’autonomia negoziale privata ex art. 41 Cost. e art. 1322 c.c., con il sorgere di reciproci diritti ed obblighi delle parti: al cui adempimento un contraente non può strumentalmente sottrarsi invocando ex post e secundum eventum un preteso insussistente contrasto con norme imperative.

In definitiva, se è pur vero che l’allegata ragione di nullità per difetto di causa è rilevabile anche in grado di appello, l’assunto difetta, tuttavia, della premessa minore posta a suo fondamento, in quanto non manca la causa in concreto della opzione put e call, conclusa tra le parti.>>

Quanto all’allegata violazione del divieto di patto leonino (art. 2265 cc), la SC la esclude: <<la ratio del divieto va, pertanto, ricondotta ad una necessaria suddivisione dei risultati dell’impresa economica, tuttavia quale tipicamente propria dell’intera compagine sociale e con rilievo reale verso l’ente collettivo; mentre nessun significato in tal senso potrà assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorché non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, né modifichi la posizione del socio in società, e dunque non abbia nessun effetto verso la società stessa.

Nulla, dunque, di ciò nella specie, come accertato dal giudice del merito, essendo ogni elemento dell’accordo tra i soci determinato e rispettati ampiamente i requisiti di validità elaborati dalla giurisprudenza.

Ne’ tale principio è suscettibile di essere sovvertito dalle peculiarità della vicenda, che la ricorrente ha inteso sottolineare nella sua memoria, consistenti nella partecipazione maggioritaria della socia c.d. finanziatrice (evenienza che, semmai, rafforza la funzione svolta dal patto), la natura di societas unius negotii della società partecipata (palesante la meritevolezza del fine di concorrere a quella condivisa operazione economica) ed il collegamento con il valore del bene immobile in proprietà della società partecipata (che non muta la funzione del patto stesso).

La incontestata sinallagmaticità del patto, il quale permetteva all’una parte di rientrare del finanziamento ed all’altra di lucrare i maggiori profitti dell’investimento,e la natura temporanea del diritto di opzione confermano tali conclusioni, attesa la funzione pratica svolta dal patto, di rendere possibile l’affare economico auspicato e regolare efficacemente gli interessi rispettivi dei soci>>.

La categoria della inesistenza delle delibere societarie non è stata espunta dalla riforma del 2003 (più un cenno sulla consensuslità od obbligatorietà della cessione di titoli azionari)

Cass. 26.199 del 27.09.2021, rel. Campese, interviene sulla seguente fattis n.pecie concreta: l’assemblea, cui partecipà un solo socio -sè dicente tale- al 99,5 % poi rivelatosi privo di titolarità (e non solo di legittimazione), può dirsi esistente e dunque soggetta a nullità/annullabilità? O è invece radicalmente inesistente, con la conseguente non assoggettabilità ai termini posti per le due invalidità?

La risposta esatta è la seconda: <<ad avviso di questo Collegio si rivela preferibile, tra le descritte opinioni dottrinali, quella incline a configurare sebbene in via del tutto residuale – la categoria della inesistenza della Delibera assembleare esclusivamente allorquando lo scostamento della realtà dal modello legale risulti così marcato da impedire di ricondurre l’atto alla categoria stessa di deliberazione assembleare, e cioè in relazione alle situazioni nelle quali l’evento storico al quale si vorrebbe attribuire la qualifica di deliberazione assembleare si è realizzato con modalità non semplicemente difformi da quelle imposte dalla legge o dallo statuto sociale, ma tali da far sì che la carenza di elementi o di fasi essenziali non permetta di scorgere in esso i lineamenti tipici dai quali una deliberazione siffatta dovrebbe esser connotata nella sua materialità. E tanto in linea di sostanziale continuità con quanto già sancito, sebbene in fattispecie regolata dalla normativa ante riforma, da Cass. n. 7693 del 2006, la quale, non aveva mancato di evidenziare come le novità legislative di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003, non valessero “comunque ad espungere del tutto dall’ordinamento societario la figura della deliberazione inesistente, quanto meno nei casi nei quali si debba parlare di inesistenza materiale, prima ancora che giuridica, di essa”. Nella fattispecie ivi esaminata, nella quale era mancata non soltanto la separata convocazione, quanto la costituzione stessa di un’assemblea degli obbligazionisti sottoscrittori del prestito convertibile emesso da una società, e nella quale la deliberazione concernente la modifica delle condizioni di tale prestito era stata assunta non già semplicemente con il concorso anche di soggetti non legittimati, bensì unicamente con il voto di estranei al prestito da modificare ed in assenza totale dei soli obbligazionisti legittimati, era stata ritenuta mancante la materialità stessa della riunione assembleare – o, quanto meno, di una riunione assembleare riferibile agli obbligazionisti sottoscrittori di quel prestito – “non diversamente da quanto accadrebbe se si pretendesse di qualificare come assemblea degli azionisti di una società un’adunanza cui partecipino soltanto soggetti che di quella società non sono invece affatto soci”>>, § 2.4.11.

Principio di diritto: <<E’ inesistente la Delibera assembleare di società di capitali assunta con la sola partecipazione di soggetti privi della qualità di socio della stessa”>, § 5.1

Poisizione condivisibile: che almeno nel caso sub iudice vada ravvisata l’inesistenza o meglio che non si possano far scattare i termini per le impugnazioni di nullità e annullabilità, mi pare sicuro.       Più difficile è capire  in quali altri casi ciò possa ravvisarsi.

La SC poi prende posizione sull’individuazione del momento traslativo nella cessione di titoli azionari e opta per la teoria consensualistica: il transfert (iscrizione a libro soci) , allora, è solo esecuzione di un  contratto già perfezionato.

Anche qui è condivisibile.

Di fronte ad una regola generale come l’art. 1376 cc, le deroghe devono essere espresse o poggiare su forti considerazioni teleologiche (da vedere se potrebbero essere pattuite nel contratto sociale). Nessuno dei due casi ricorre nel TUF (art. 83 quater spt.): per cui anche per i titoli dematerializzati continua ad operare la cit. disposizione codicistica (conf. Martorano F., Titoli di credito dematerializzati, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu Messineo, Giuffrè, 2020, 144 ss e spt. 161 ss ).

Non vale in contrario addure le disposizioni ex art. 30/1 e 32/1 d. lgs. 213 del 1998, oggi art . 83/1 e 83 quinquies/1 TUF: non è esatto che esse o si ripetono o dicono cose diverse, al punto che ne segue ineluttabilmente  l’efficacia costitutiva dell’annotazione nei registri dell’intermediario (così invece Cian M., Titoli dematerializzati e <circolazione cartolare>, Giuffrè, 2001, 306 ss e spt. 310-314 e poi più sinteticamente in Cian , Il trasferimento dei titoli dematerializzati tra consensualismo e anticonsensualismo, nota a Cass. pen. 23.02.2009 n. 7769, Giur. com.., 2010, II, 80 ss; per Cian il consenso è ad effetto solo obbligatorio, mentre il trasferimento è prodotto dal compimento della c.d. operazione di giro e cioè dall’addebtito/accredito nei conti del venditore e risp.  dell’compratore e di eventuali intermediari). La prima disposizione si limita a dire che in generale è imprescindibile il ruolo dell’intermediario, senza specifcare per quali aspetti: non a caso la rubrica dell’articolo recita solo <Attribuzioni della societa’ di gestione e dell’intermediario)> (oggi: <dei depositari centrali e degli intermediari>). La seonda invece precisa per quali aspetti e cioè regola i diritti emergenti dall’intervento dell’intermediario (mera legirttimazione): non a caso la rubrica è “Diritti del titolare del conto” (questa è la sedes materiae della disciplina dei diritti sorgenti dalla registrazione presso l’intermediario).

Piuttosto andrebbe esaminato se fa cambiare la suggerita impostazione la odierna sosttuizione della <chartula> con la registrazione informatica (esame bencondotto da Cian, 283 ss e spt. 289 ss.). Ma allo stato non parrebbe: la seconda sostotuisce .

Esame istituzionale anche in Menti , Ex chartula. Nozioni introduttive ai titoli di credito, Giappichelli, 2011, 191 ss. Per la teoria consensualistica De Luca N., Circolazione delle azioni e legittimazione dei soci, Giappichelli, 2007, 152 (manca però esame specifico delle peculiarità caratterizzanti la dematerializzazione)

La Cassazione civ. torna sull’interest rate swap

Cass. sez. 1 29 luglio 2021 n. 21.830 , rel. Campese torna sulla disciplina del contratto derivato interest rate swap (IRS).

Ai §§ 2.4, 2.4.1 e 2.4.2 le premesse sugli IRS in generale (forma base detta plain vanilla).

Il punto centrale è la qualifica giuridica dell’elemento del c.d. mark to market: <<2.6.1. Nell’odierna vicenda, gli elementi contrattuali desumibili dal ricorso non evidenziano l’esistenza di una clausola upfront, sicché appare ragionevole concludere nel senso che il lamentato valore iniziale negativo dello strumento – il costo dell’operazione – fosse il compenso dell’intermediario per il servizio fornito. Ciò che assume rilievo nel presente giudizio, quindi, non è tanto riscontrare l’esistenza di margini di redditività per la banca previsti con la stipula del contratto in derivati, quanto, piuttosto, verificare se tale retribuzione abbia formato oggetto di accordo negoziale fra le parti che hanno perfezionato il contratto. Se, infatti, lo swap non è un prodotto finanziario che il cliente acquista sostenendo un esborso (come avviene quando si acquista un’azione, un’obbligazione, una quota di un fondo, ecc.), ma, attraverso esso, il cliente e la banca si impegnano ciascuno a pagare all’altro, a scadenze periodiche definite, un importo calcolato applicando dati parametri (diversamente prestabiliti per ciascun contraente) ad un medesimo valore di base (cd. nozionale), con l’effetto che a ciascuna scadenza i due importi si compensano e ne deriverà un differenziale a carico dell’uno, e correlativamente a favore dell’altro, o viceversa, l’esistenza di un margine di redditività del tutto legittimo in favore di una delle parti (e, normalmente, in favore dell’intermediario, quale soggetto che ha costruito e messo a disposizione il derivato) si configura esso stesso quale componente essenziale del contratto, sia in quanto onere sul quale necessariamente deve convergere l’accordo negoziale delle parti, sia in quanto componente che, determinando di fatto uno squilibrio iniziale dello swap (con passaggio dal suo valore teorico al valore di mercato), influisce sulla misura dell’alea che le contrapposte parti si assumono.

2.7. L’IRS, peraltro, può atteggiarsi ad operazione non par non solo in punto di partenza, ma può divenire tale anche con il tempo. In un dato momento, lo squilibrio futuro (sopravvenuto) fra i flussi di cassa, che sia attualizzato al presente, può essere oggetto di nuove prognosi ed indurre le parti a sciogliere il contratto. Per compiere queste operazioni, assume rilievo il cd. mark to market (MTM) o costo di sostituzione (rectius: il suo metodo di stima), ossia il costo al quale una parte può anticipatamente chiudere il contratto o un terzo estraneo all’operazione è disposto, alla data della valutazione, a subentrare nel derivato: così da divenire, in pratica, il valore corrente di mercato dello swap.

2.7.1. Alteris verbis, il mark to market – la cui locuzione significa “marcare il mercato” – esprime un metodo valutativo di un derivato e nasce come strumento di monitoraggio e criterio di calcolo della marginazione. Il metodo de quo consiste in una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima del conseguente debito/credito delle parti.>>

La menzionata pronuncia delle Sezioni Unite 8770/2020 , trattando la natura aleatoria dei contratti di swap ed i limiti entro i quali l’ordinamento ne ammette la meritevolezza – e quindi la validità – sotto il profilo causale, <<richiama, al riguardo, il principio della necessaria sussistenza di alea “razionale”, intesa come “misurabile”, in quanto funzionale alla finalità di “gestione del rischio” ritenuta sottesa a tali strumenti finanziari: “razionalità” ravvisabile, in concreto, laddove siano esplicitati – e condivisi in accordo con l’investitore – gli elementi che consentono di conoscere la “misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”, tramite l’esplicitazione dei costi impliciti – che determinano uno squilibrio iniziale dell’alea -, del mark to market e, soprattutto, dei cd. “scenari probabilistici” (cfr. p. 6.2 della sentenza predetta)>>, § 2.8.3.

E’ palese, dunque, che le Sezioni Unite abbiano espresso un <<chiaro segnale adesivo all’orientamento di quella parte della dottrina e della giurisprudenza di merito che valorizza l’indicazione del mark to market, ovvero dei suoi criteri di calcolo, la esplicitazione dei costi impliciti e la prospettazione dei cd. “scenari probabilistici”, quali elementi essenziali del contratto derivato, rilevanti ai fini della sua validità. Esse, in particolare, recepiscono la tesi incentrata sulla rilevanza dei contenuti contrattuali sopra detti ai fini della determinazione dell’oggetto negoziale, così avallando l’orientamento che ne valorizza il corrispondente difetto come ragione di nullità del contratto. In altri termini, l’indicazione del mark to market, che individua il valore del contratto ad una certa data, nonché l’esplicitazione dei costi impliciti e dei cd. “scenari probabilistici”, finiscono con il rappresentare il contenuto di un’obbligazione che sorge con la stipula del contratto concorrendo ad integrarne la determinabilità del suo oggetto.

2.8.6. La “scommessa razionale” meritevole di tutela, cui le Sezioni Unite hanno ricondotto la tipologia di derivato quale lo swap, postula, allora, che, in quest’ultimo, l’alea che comunque lo caratterizza debba essere misurabile “secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”: ciò impone che siano esplicitati – e condivisi con l’investitore – i costi impliciti, che determinano uno squilibrio iniziale dell’alea, il mark to market e, soprattutto, i cd. “scenari probabilistici”. In altri termini, l’omessa esplicitazione di tali elementi si traduce, sostanzialmente, nella mancata formazione di un consenso in ordine agli stessi, e, dunque, nella inconfigurabilità di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’investitore di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto.>>

Non si tratta, allora, di semplice violazione di obblighi informativi (come tale idonea a determinare solo eventuali responsabilità risarcitorie. Cfr. Cass., SU, n. 26724 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), ma di una <<carenza che – tenuto conto delle descritte peculiarità caratterizzanti la causa e l’oggetto dello strumento in esame, nonché delle innegabili interazioni tra essi configurabili – investe proprio l’essenza (di una parte) dell’accordo, vale a dire del contratto medesimo (quest’ultimo consistendo, appunto, in un “accordo”. Cfr. art. 1321 c.c. e art. 1325 c.c., n. 1), così da cagionarne la nullità (il dovere di informazione, invece, è fuori del contratto ed è oggetto di mera obbligazione di una delle parti, sanzionata, come si è già detto, con la responsabilità per i danni, e non con la nullità).

2.8.8. Il mark to market, peraltro, non costituisce – secondo le Sezioni Unite – un valore storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, bensì il valore corrente di mercato che scaturisce da una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima dei rapporti di debito e di credito delle parti. Nondimeno, nemmeno la mera deduzione, nelle pattuizioni contrattuali, di un indice numerico di riferimento è suscettibile di consentire il superamento del sindacato di determinabilità; è necessario, altresì, che l’accordo investa “gli scenari probabilistici” ed abbia ad oggetto “la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti” affinché possa realizzarsi la funzione di gestione del rischio finanziario. E, infatti, ciò appare confermato, secondo quanto statuito dalle stesse Sezioni Unite, anche dal disposto normativo del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 5 (cd. T.U.F.), in virtù del quale gli strumenti finanziari derivati non sarebbero equiparati ad una scommessa, intendendo la disposizione “delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario”.>>

L’intestazione fiduciaria di azioni per la corte di appello milanese

DA App. Milano 26 maggio 2021, sent. n. 1669/2021-RG 1926/2019, graziano re c. roberto re, rel. Bonaretti, due spunti utili:

1) definizioni di negozio fiducuario – il giudice di primo grado aveva equivocato su interposizione fittizia e reale e la CdA insegna: <<L’operazione fiduciaria consta tipicamente di due negozi: l’uno reale, finalizzato al trasferimento della proprietà, e l’altro obbligatorio, efficace soltanto tra le parti (pactum fiduciae romanistico5 ). Nello schema di tale operazione l’alienante (fiduciante) trasferisce un diritto per uno scopo ulteriore al trasferimento della proprietà, scopo che l’acquirente (fiduciario) si obbliga a rispettare e a realizzare in forza del pactum fiduciae. Da tale patto sorge, dunque, l’obbligo del fiduciario di esercitare il diritto secondo le modalità pattuite  e nell’interesse del fiduciante, nonché di retrocedere il bene allo stesso fiduciante o a un terzo. Pertanto, gli obblighi di amministrare e di retrocedere il bene, assunti dal fiduciario, realizzano una scissione tra la proprietà formale (posta temporaneamente in capo al fiduciario) e la titolarità del bene (gestito per l’appunto nell’interesse del fiduciante e destinato ad essere a lui restituito). Dunque, tale scissione tra proprietà e titolarità, propria del pactum fiduciae, configura una interposizione reale di persona (e non fittizia, come nel caso della simulazione6 ), in quanto l’acquirente diviene a tutti gli effetti proprietario del bene, esercitando a nome proprio un diritto acquistato dall’alienante, nel cui interesse tuttavia gestisce lo stesso bene, con l’obbligo di retrocederlo secondo le modalità pattuite. Orbene, tale è stato il negozio accertato dalla sentenza d’appello n. 117/2011 (come riconosciuto dalla sentenza della Suprema Corte e dalle successive pronunce emesse all’esito dei procedimenti ex art. 98 L. Fall.), che nella “convenzione” del 1983 ha ravvisato l’interposizione reale dell’arch. Roberto Re nell’intestazione della quota de qua, consentendo il trasferimento temporaneo della proprietà della stessa dal sig. Guerino Re al figlio Roberto Re, con il relativo obbligo di restituire la quota quando a ciò richiesto dal padre, unico sostanziale ed esclusivo titolare della quota in ragione dell’accordo negoziale intervenuto con il figlio fiduciario>>

2) quantificazione del danno da violazione del patto: <<Se dunque, come già accennato, il rifiuto del fiduciario di restituire la quota ha integrato una violazione degli obblighi assunti nella “convenzione” del 1983, i possibili rimedi contro tale violazione riconosciuti dall’ordinamento al sig. Guerino Re (e all’odierno  appellante, suo erede) consistevano, almeno, nella possibilità di agire

(i) per la restituzione coattiva della quota ex art. 2932 cod. civ. o

(ii) per il risarcimento del danno, dato dalla diminuzione del valore della quota successivo alla mancata restituzione (che, in tesi, sarebbe stato ovviato dalla tempestiva disponibilità della stessa). 

Come già evidenziato, risulta ex actis che, da un lato, un’azione volta alla restituzione della quota controversa non è mai stata esperita; dall’altro lato, che la Corte non dispone degli elementi sufficienti ad accertare esistenza ed entità del lamentato danno.>>