Il riconoscimento dei diritti successori da parte dell’erede testamentario attribuisce al legittimario pretermesso la qualità di erede

Interessante opinione offerta da App MIlano 09.07.2025 sez. Prima Civile, cons. rel. Alessandra Arceri:

<<Nel momento in cui l’erede testamentario riconosce in favore del legittimario
pretermesso i suoi intangibili diritti successori, quest’ultimo diventa
automaticamente partecipe della comunione ereditaria e possessore, con
effetto dall’apertura della successione e senza necessità di materiale
apprensione, della sua quota di eredità su tutti i beni ereditari, in conformità a
quanto dispone l’art. 1146 c.c.
Pertanto, il legittimario pretermesso può conseguire la qualità di erede, non
solo attraverso l’esperimento vittorioso delle azioni di riduzione o di
annullamento del testamento, ma altresì attraverso il riconoscimento dei suoi
diritti da parte dell’erede>>

(massima di CEsare Fossati in Ondif)

Azione di riduzione da parte del legittimario di fatto pretermesso pur nella successione ex lege

Cass. sez. II, 27/09/2025 n. 26.289, rel. Cavallino, offre un ripasso utile sul tema in oggetto:

<<Non è in discussione che l’azione di simulazione relativa proposta dall’erede in ordine ad atto di disposizione patrimoniale del de cuius stipulato con un terzo, che si assuma lesivo della quota di legittima e abbia i requisiti di validità dell’atto dissimulato, deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 cod. civ., con la conseguenza che l’ammissibilità dell’azione è condizionata alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (Cass. Sez. 2 23-2-2011 n. 4400 Rv. 616717-01, Cass. Sez. 2 27-6-2003 n. 10262 Rv. 564659-01, Cass. Sez. 2 18-4-2003 n. 6315 Rv. 562327-01).[pure questo passaggio è interessante]

Inoltre, trattandosi nella fattispecie di successione legittima, la preterizione del legittimario che esclude il ricorrere della condizione della preventiva accettazione beneficiata non può essere intesa in senso tecnico. Infatti, in senso tecnico, la preterizione del legittimario ricorre esclusivamente in presenza di un testamento con il quale il de cuius abbia disposto dell’intera eredità a favore di altri, trascurando il legittimario che, in questo caso, non è chiamato all’eredità e diviene erede solo a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, essendogli preclusa la possibilità di accettare l’eredità (Cass. Sez. 2 17-8-2022 n. 24836 Rv. 665563-01, Cass. Sez. 2 7-2-2020 n. 2914 Rv. 657093-01); è evidente che, in tal caso, non si pone alcuna questione in ordine all’esistenza di un relictum che imponga o meno l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario al fine dell’esercizio dell’azione di riduzione nei confronti di donatari e legatari, proprio perché il soggetto che intende esercitare l’azione di riduzione non è chiamato all’eredità.

Una tale ipotesi, per definizione, non ricorre nel caso di assenza di testamento, in quanto il legittimario che intende agire in riduzione è chiamato ex lege alla successione; però la giurisprudenza considera pretermesso il legittimario anche nel caso in cui il de cuius abbia distribuito in vita tutto il suo patrimonio mediante disposizione a titolo particolare inter vivos; in questo caso, sebbene si apra la successione legittima e quindi il legittimario non possa ritenersi diseredato in senso formale, è acquisito che l’azione di riduzione contro i legatari e i donatari non coeredi non sia soggetta all’onere dell’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (Cass. Sez. 2 23-12-2011 n. 28632 Rv. 620793-01, Cass. Sez. 2 7-10-2005 n. 19527 Rv. 583417-01, per tutte). Come precisato da Cass. 24836/2022, in motivazione a pag. 9, l’equiparazione del legittimario chiamato ex lege alla successione al legittimario diseredato è strettamente limitata all’art. 564 cod. civ., e cioè comporta l’esonero dalla formalità dell’accettazione con beneficio di inventario al fine dell’esperimento dell’azione di riduzione nei confronti dei soggetti non coeredi.

Stante l’ulteriore principio, pure posto da Cass. 24836/2022, secondo il quale il legittimario chiamato ex lege alla successione diviene erede nel momento in cui esercita l’azione di riduzione in quanto l’esercizio dell’azione comporta accettazione tacita dell’eredità, e stante il dato di comune esperienza secondo il quale un relictum, costituito almeno da effetti personali di modico valore appartenuti al de cuius è presente in qualsiasi successione, ci si deve chiedere quale sia la lettura dell’art. 564 cod. civ. che non si risolva nella negazione del principio secondo il quale l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario non è condizione di proponibilità dell’azione di riduzione nei confronti di terzi donatari e legatari per il legittimario totalmente pretermesso.

Quindi, si deve considerare che la ratio dell’art. 564 cod. civ., laddove prevede la previa accettazione dell’eredità con beneficio di inventario per agire in riduzione nei confronti dei soggetti non coeredi, è nella tutela dei legatari e donatari estranei, per i quali è necessaria la preventiva constatazione ufficiale dell’asse ereditario, che li pone in condizione di verificare l’effettività della lesione della riserva; ciò significa che non è configurabile alcuna esigenza di tutela nel caso in cui non sussista un asse ereditario da dividere, seppure un qualche relictum privo di rilievo economico esista nonostante il defunto abbia donato in vita tutte le sue sostanze. In effetti, la giurisprudenza di legittimità ha già esposto il concetto che un asse da dividere sussiste nel caso in cui vi sia un relictum sul quale insorga comunione ereditaria e perciò il relictum non sia di valore totalmente irrisorio: in materia di collazione, l’indirizzo è uniforme nel senso che la collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, cioè, di un asse da dividere, in quanto l’art.737 cod. civ. presuppone che l’istituto sia applicabile tra i coeredi che concorrono alla successione; invece, se l’asse si è esaurito con donazione e legati, così che viene a mancare un relictum da dividere, non vi è luogo neppure a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione (Cass. Sez. 2 21-12-2021 n. 41132 Rv. 663792-01, Cass. Sez. 6-2 14-1-2021 n. 509 Rv. 660178-01, Cass. Sez. 2 14-6-2013 n. 15026 Rv. 626987-01, Cass. Sez. 2 25-11-1975 n. 3935 Rv. 378204-01, Cass. Sez. 2 5-3-1970 n. 543 Rv. 345608-01). Sulla base del medesimo concetto secondo il quale l’asse ereditario è formato da beni di un qualche valore commerciale, Cass. Sez. 2 25-10-2013 n. 24171 Rv. 628792-01 ha escluso la decadenza dal beneficio di inventario, prevista dall’art. 493 cod. civ. in caso di atti di disposizione di beni ereditari senza autorizzazione giudiziaria, nel caso di demolizione di vettura caduta in successione di nessun valore commerciale e nel caso di appropriazione del vestiario del de cuius di valore minimale.

Ne consegue che erroneamente nella fattispecie la Corte d’Appello ha escluso che Za.Ca. fosse erede legittimo totalmente pretermesso in ragione del saldo nel conto corrente intestato al de cuius pari a Euro 30,07, trattandosi di somma di entità talmente irrisoria da non integrare asse ereditario ai fini che interessano. Anziché affermare, come ha fatto, che l’appellante aveva tardivamente allegato in appello fatti nuovi volti a contrastare la tesi che il saldo del conto corrente appartenesse al de cuius – e prima di verificare se si rimanesse nell’ambito di una mera difesa – la Corte d’Appello avrebbe dovuto ritenere quel relictum di valore economico talmente irrisorio da essere inidoneo a escludere la pretermissione.

Invece, non era necessaria alcuna valutazione sul valore economico degli arredi dell’abitazione del de cuius, pure compresi nell’inventario, a fronte del dato che, con riguardo a quegli oggetti, è stata tempestivamente acquisita in causa la prova che si trattava di beni che non erano compresi nella successione di Za.Al.. Infatti, certamente il verbale di inventario redatto da notaio o da cancelliere ex artt. 769 e 775 cod. proc. civ., in quanto atto rogato dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni, è assistito da pubblica fede e rappresenta, fino a prova contraria, fonte privilegiata di convincimento circa la ricostruzione e l’ammontare dell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione, della cui reale consistenza il notaio incaricato è personalmente tenuto ad accertarsi (Cass. Sez. 2 5-4-2024 n. 9063 Rv. 670731-01, Cass. Sez. 2 16-3-2018 n. 6551 Rv. 647853-01). Però, nella fattispecie la sentenza impugnata non ha escluso l’esistenza della prova contraria rispetto alle risultanze dell’inventario, ma ha ritenuto che la prova acquisita non fosse utilizzabile per il fatto che soltanto tardivamente, negli scritti conclusionali del primo grado, l’attore aveva dedotto che i beni mobili inventariati appartenessero a SEPPIA Srl che li aveva acquistati da Za.Al., “portando, a tal fine l’attenzione sul contratto”; perciò ha dichiarato che era inammissibile l’allegazione e la prova di fatti nuovi. A ragione il ricorrente censura la pronuncia, in quanto la Corte d’Appello non ha considerato il dato pacifico, riferito al fatto che l’allegazione dell’attore era stata, fin dall’atto di citazione, di essere totalmente pretermesso in quanto il padre si era spogliato in vita di tutti i suoi beni; è altresì pacifico che a quell’allegazione l’attore aveva accompagnato la produzione degli atti di alienazione di una serie di immobili eseguiti dal padre a favore delle società, tra i quali l’atto avente a oggetto il trasferimento alla società della casa di abitazione comprensiva degli arredi. L’affermazione della Corte d’Appello secondo la quale dovesse essere oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva anche il dato che i beni mobili inventariati erano compresi tra i beni venduti alla società è priva di fondamento; diversamente, si trattava di deduzione difensiva, che l’attore poteva svolgere in qualsiasi momento in quanto volta a valorizzare una prova documentale già acquisita nel processo, al fine di replicare all’eccezione di improponibilità dell’azione di riduzione sollevata dalla società e accolta dal giudice di primo grado. Infatti, né le eccezioni in senso lato né le mere difese rientrano nel divieto posto dall’art. 345 co. 2 cod. proc. civ., sempre che riguardino fatti emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo e anche se non siano state oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva (Cass. Sez. 3 6-5-2020 n. 8525 Rv. 657810-01, per tutte).

Ridotti gli oneri probatori del legittimario nell’azione di riduzione per lesione di legittima

Cass. sez. II , 11/05/2025, n. 12.503 rel. Mondini:

<<La Corte di Appello si è riferita ad un orientamento giurisprudenziale espresso da Cass. 19/1/2017, n. 1357 (“In materia di successione testamentaria, il legittimario che agisca in riduzione ha l’onere d’indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria, nonché quello della quota di legittima violata, dovendo, a tal fine, allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva, oltre che proporre, sia pure senza l’uso di formule sacramentali, espressa istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il calcolo della disponibile e la conseguente riduzione delle donazioni compiute in vita dal “de cuius”).

Deve osservarsi che secondo un diverso e più recente orientamento, a cui questo Collegio intende dare continuità, l’onere di allegazione e di prova a carico del legittimario che agisce in riduzione è meno gravoso.

Si è infatti affermato che “(l)a sussistenza di oneri di deduzione a carico del legittimario che agisce in riduzione non implica la necessità di precisare nella domanda l’entità monetaria della lesione, occorrendo, piuttosto, che la richiesta di riduzione di disposizioni testamentarie o donazioni sia giustificata alla stregua di una rappresentazione patrimoniale tale da rendere verosimile, anche sulla base di elementi presuntivi, la sussistenza della lesione di legittima” (Cass. 27/8/2020, n. 17926; Cass. 18199/2020; conformi Cass. 19/1/2023, n. 1670 e Cass. 22/10/2021, n. 29583).

Si è inoltre affermato (Cass. n. 18199 del 02/09/2020; Cass. 348 del 2023) che “In tema di azione di riduzione, l’omessa allegazione nell’atto introduttivo di beni costituenti il “relictum” e di donazioni poste in essere in vita dal “de cuius”, anche in vista dell’imputazione “ex se”, ove la loro esistenza emerga (come nella specie) dagli atti di causa ovvero costituisca oggetto di specifica contestazione delle controparti, non preclude la decisione sulla domanda di riduzione, dovendo il giudice procedere alle operazioni di riunione fittizia prodromiche al riscontro della lesione, avuto riguardo alle indicazioni complessivamente provenienti dalle parti, nei limiti processuali segnati dal regime delle preclusioni per l’attività di allegazione e di prova.

Ne consegue che, ove il silenzio serbato in citazione sull’esistenza di altri beni relitti ovvero di donazioni sia dovuto al convincimento della parte dell’inesistenza di altre componenti patrimoniali da prendere in esame ai fini del riscontro della lesione della quota di riserva, il giudice non può, solo per questo, addivenire al rigetto della domanda, che è invece consentito se, all’esito dell’istruttoria, e nei limiti segnati dalle preclusioni istruttorie, risulti indimostrata l’esistenza della dedotta lesione”.

Nel caso di specie la Corte di Appello si è distaccata da questo condiviso orientamento rigettando la domanda della attuale ricorrente pur dopo aver dato conto del fatto che quest’ultima aveva indicato i beni immobili facenti parte dell’asse ereditario e individuato i beni devoluti a suo favore e a favore delle controparti per successione legittima e quelli devoluti alle sole controparti per successione testamentaria ed aveva lamentato la lesione della legittima già per effetto della disposizione testamentaria>>.

E’ terzo il legittimario totalmente pretermesso che agisce in simulazione per la reintegrazione della sua quota di legittima+onere probatorio per l’0azione simulatoria

Insegnamento consolidato quello offerto da Cass.  sez. II, Ord. 03/09/2024, n. 23.598, rel. Giannaccari:

<<Come più volte affermato da questa Corte, il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal “de cuius”, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella ab intestato, in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione (Cassazione civile sez. II, 19/11/2019, n.30079).

Non trovano, pertanto, applicazione nei suoi confronti le limitazioni probatorie previste per le parti originarie in materia di prova della simulazione (Cass. N. 16535/2020; Cass. N. 6315/2003; Cass. N. 5515/1984).

Il legittimario è, quindi, ammesso a provare, nella veste di terzo, la simulazione di una vendita fatta dal de cuius per testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 c.c., per rimediare a una lesione della quota di legittima, intesa in senso ampio, in modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata, ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005, Cass. n. 19912/2014, conf. Cass. n. 20960/2016).

In tema di accertamento della simulazione, in assenza di controdichiarazione, la prova non può che essere indiziaria e presuntiva e trovano applicazione i principi consolidati in materia di presunzioni semplici; rientra, pertanto, nei compiti del Giudice del merito la ricerca e la valutazione in termini di idoneità degli elementi presuntivi connotati dai requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, soggetti a una valutazione globale e non con riferimento singolare a ciascuno di questi (cfr. in tal senso Cass. Sez. 1, Sentenza n. 28224 del 2008).

<< (…)  Infatti, qualora l’azione di simulazione di un contratto di compravendita sia proposta da un terzo, il quale – in ottemperanza agli artt. 2697 e 1417 c.c. – indichi indizi sufficienti del carattere fittizio dell’alienazione (come nel caso di specie), è l’acquirente che viene ad essere gravato dell’onere di provare l’effettivo pagamento del prezzo; tale onere non può dirsi osservato in forza della dichiarazione delle parti, contenuta nel rogito notarile, attestante che il prezzo è stato versato, trattandosi per l’acquirente di una mera dichiarazione a sé favorevole (ex multis Cass. 5326/2017, 12955/2014).

La Corte di merito, nell’ambito dell’apprezzamento del materiale probatorio, insindacabile in sede di legittimità, non ha ritenuto decisiva la controdichiarazione della de cuius che, in un primo momento, aveva ammesso l’esistenza della donazione in favore del figlio A.A. e, successivamente, l’aveva revocata. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato>>.

L?azione di riduzione è ammissibile se gli eredi hanno redatto tempestivamente l’inventario

Cass. sez. II, 11/07/2024 n. 19.010, rel. Cavallino (ove richiamo di altre Cass. sul quando il chiamato, agente in riduzione, abbia o meno l’onere di accettare col beneficio di inventario, sostanzialmente dipendente dal se sia o meno stato “pretermesso”):

<<Inoltre, l’azione di riduzione non può essere proposta neppure nel caso in cui l’inventario sia stato redatto allorché sia già decorso il termine di tre mesi dalla dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario. Infatti, in tale ipotesi non ricorrono le condizioni per applicare il disposto dell’art. 564 cod. civ. per il caso di decadenza dal beneficio di inventario, in quanto la tardiva esecuzione dell’inventario non integra un’ipotesi di decadenza dal beneficio di inventario. Nel solco di Cass. Sez. 2 15-7-2003 n. 11030 Rv. 56506101, secondo cui la tempestiva formazione dell’inventario è un elemento costitutivo del relativo beneficio, Cass. Sez. 2 9-8-2005 n. 16739 (Rv. 584307-01), in fattispecie del tutto analoga a quella del presente giudizio, ha statuito che l’art. 484 cod. civ., nel prevedere che l’accettazione con beneficio di inventario si fa con dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinea una fattispecie a formazione progressiva, di cui sono elementi costitutivi entrambi gli adempimenti ivi previsti; la dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato, ma non incide sulla limitazione della responsabilità intra vires, che è condizionata anche alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e semplice (artt. 485,487,488 cod. civ.), non perché abbia perduto ex post il beneficio, ma perché non lo ha mai conseguito; le disposizioni che impongono il compimento dell’inventario entro determinati termini non ricollegano all’inutile decorso del termine un effetto di decadenza, ma sanciscono sempre come conseguenza che l’erede viene considerato accettante puro e semplice, mentre la decadenza è ricollegata solo ed esclusivamente ad alcune condotte, che attengono alla fase della liquidazione e sono quindi necessariamente successive alla redazione dell’inventario (nello stesso senso, Cass. Sez. 2 26-3-2018 n.7477 e Cass. Sez. 2 29-122023 n. 36459, non massimate, per tutte)>>.

Donazione indiretta vs simulazione, azione di riduzione vs collazione

Altra lezione di diritto successorio/donativo dalla penna del dr Criscuolo in Cass., sez. 2 del 12 luglio 2024 n. 19.230:

profilo processuale:

<<5. La giurisprudenza di questa Corte ha progressivamente rivisto il precedente orientamento eccessivamente rigoroso in tema di allegazioni necessarie ai fini della ammissibilità dell’azione di riduzione, addivenendo alla conclusione per cui nel caso di esercizio della stessa, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva (Cass. n. 18199 del 02/09/2020), ma è pur sempre necessario che alla spendita della qualità di legittimario (sebbene non necessariamente finalizzata all’esercizio dell’azione di riduzione, ma alla tutela di diritto comunque correlati a tale qualità, cfr. Cass. n. 12317/2019, Cass. n. 16535/2020, Cass. n. 29821/2023).

Tuttavia è stato ribadito che effettivamente il ricorso alle agevolazioni probatorie concesse ai terzi per l’accertamento della natura simulata di atti di alienazione, in quanto dissimulanti donazioni, sebbene non direttamente suscettibili di aggressione con l’azione di riduzione, ma anche al solo fine di determinare tramite la riunione fittizia, la esatta misura della quota di riserva, suscettibile di recupero anche attraverso la rimodulazione delle quote ab intestato ex art. 553 c.c. (cfr. Cass. n. 17856/2023), presuppone in ogni caso la spendita della qualità di legittimario e l’allegazione che l’accertamento è comunque funzionale all’integrazione della quota di riserva, mediante le molteplici modalità che la legge assicura a favore del legittimario. (…) Questa Corte ha di recente puntualizzato i caratteri differenziali tra l’azione di riduzione e la richiesta di collazione, richiamando in parte le differenze puntualmente esposte nel corpo della sentenza d’appello, e ribadendo che, in tema di azione di riduzione, non sussiste l’onere di preventiva collazione da parte dei legittimari, atteso che quest’ultima attribuisce al coerede un concorso sul valore della donazione, di regola realizzato attraverso un incremento della partecipazione sul “relictum”, laddove il legittimario, per il valore che esprime la lesione di legittima, ha diritto a ricevere quel valore, in natura, con conseguente ammissibilità del concorso tra le due azioni (Cass. n. 17856 del 22/06/2023)>>.

Poi:

<<6. Una volta, quindi, reputata ammissibile la proposizione di entrambe le domande, stanti le segnalate differenze ed i diversi vantaggi che ognuna delle due offre, resta, però, altrettanto confermato il principio che dall’esercizio dell’azione di simulazione da parte dell’erede per l’accertamento di dissimulate donazioni non deriva necessariamente che egli sia terzo, al fine dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 1417 c.c., perché, se l’erede agisce per lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni – anche dissimulate – per ricostituire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra coeredi, subentra nella posizione del “de cuius”, traendo un vantaggio dalla stessa qualità di coerede rispetto alla quale non può avvantaggiarsi delle condizioni previste dall’art. 1415 c.c.; è invece terzo, se agisce in riduzione, per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo (cfr. ex multis Cass. n. 41132 del 21/12/2021). La sentenza d’appello ha però tratto dalla infondatezza dell’azione di riduzione, per la carenza delle allegazioni necessarie a verificare la effettiva sussistenza della lesione, e dalla strumentalità dell’accertamento della donazione indiretta alla eliminazione della lesione, in via conseguenziale anche l’impossibilità di accogliere la domanda di accertamento della natura liberale della fattispecie dedotta in giudizio in vista della collazione, ma nel compiere tale affermazione non ha tenuto conto della peculiarità della donazione individuata dagli attori, in quanto rientrante nel novero delle donazioni indirette. Il ragionamento sinora esposto, circa il differente trattamento dell’erede e del legittimario sul piano delle agevolazioni probatorie, onde rimuovere il limite che l’art. 1417 c.c. pone alle parti del negozio dissimulato, opera solo ove ad essere oggetto della materia del contendere sia una donazione dissimulata, diversa dovendo invece essere la conclusione nel caso in cui si assuma che il coerede sia stato beneficiario di una donazione indiretta>>.

La donazione indiretta differisce dalla simulazione:

<<Una volta ribadito che la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio. (Cass. n. 9379 del 21/05/2020), nella difesa degli attori si prospetta che l’acquisto dell’immobile è stato operato direttamente da parte della presunta donataria, che avrebbe assolto all’obbligo di pagamento del prezzo con denaro fornito da parte del genitore.

Si rientra pertanto nell’ipotesi di intestazione del bene a nome altrui che costituisce appunto una delle ipotesi di donazione indiretta (cfr. Cass. n. 13619/2017, secondo cui nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro).

Ancorché nella donazione indiretta, ai fini della stima della donazione debba guardarsi all’oggetto dell’acquisto, analogamente a quanto avviene per l’ipotesi della donazione simulata (che però resta una donazione immobiliare a tutti gli effetti), l’utilizzo di un meccanismo negoziale che assicura al donatario l’acquisto di un bene a titolo gratuito, senza che però tale bene sia mai appartenuto al donante, giustifica anche la conclusione per cui, ai fini della reintegrazione della quota di riserva ovvero della collazione, poiché non risulta messa in discussione la titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con esclusione di ogni possibilità di recupero in natura del bene, in caso di riduzione, ovvero di collazione in natura, ove l’accertamento sia funzionale a tale scopo.

La donazione indiretta resta però un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore e differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Ne consegue che la distinzione tra la donazione simulata e donazione indiretta non consente di estendere a quest’ultima le limitazioni probatorie dettate dall’art. 1417 c.c., e che la prova dell’effettiva natura liberale (in tutto o in parte), della fattispecie negoziale oggetto della domanda può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di legittimario (Cass. n. 19400/2019 che ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive; Cass. n. 6904/2022, Cass. n. 7872/2021, Cass. n. 1986/2016). La circostanza che la Corte d’Appello ha riscontrato che la difesa degli attori si era limitata ad allegazioni inerenti alla domanda di collazione, che è destinata ad operare in via automatica una volta che risulti proposta la domanda di divisione (sulla quale i giudici di merito si sono pronunciati), non consentiva di eludere la richiesta di accertamento della donazione indiretta effettuata dal genitore alla figlia facendo solo richiamo all’infondatezza della domanda di riduzione.>>

Quando è processualmente determinata la domanda di riduzione delle disposizioni lesive da parte del legittimario leso nonchè sulla provabailità per presunzioni

Importanti precisazioni operative in Cass. sez. II, ord. 3 giugno 2024 n. 15.465, rel. Criscuolo:

<<L’onere di allegazione della parte impone di offrire un quadro soddisfacente della situazione patrimoniale del de cuius ai fini del compimento delle operazioni di riunione fittizia e di imputazione, e ciò soprattutto nel caso in cui già gli elementi probatori addotti in giudizio denotino l’esistenza di beni costituenti il relictum ovvero il compimento di atti di liberalità da parte del de cuius. Una volta soddisfatto tale onere deve reputarsi che l’attore soddisfi l’onere di specificità della domanda impostogli dalla legge una volta che, richiamata la misura della sua quota di legittima, quale dettata dalla legge, assuma che per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero in conseguenza delle donazioni poste in essere in vita in favore di altri soggetti, e al netto di quanto ricevuto allo stesso titolo, residui una lesione.
In tal senso, non può però imporsi anche la quantificazione in termini di valore dei vari elementi destinati ad essere presi in considerazione, sia ai fini della precisazione del relictum che del donatum, e che l’individuazione della lesione debba avvenire in termini matematici con una sua precisa indicazione numerica, essendo viceversa sufficiente che si sostenga che, proprio alla luce del complesso assetto patrimoniale del defunto, quale scaturente dalle vicende successorie, il valore attivo pervenuto al legittimario sia inferiore a quanto invece la legge gli riserva>>.

(massima di Valeria Ciancolo in Ondif)

A cui va aggiunta Cass.  Sez. II, Ord., 28 maggio 2024 n. 14.881, Rel. Cons. Mondini:

<<Al riguardo deve tenersi conto del diverso principio, affermato da questa Corte, secondo cui (Cass. n. 1297 del 1971) la prova della consistenza dell’asse e della conseguente lesione dei diritti di legittimario può essere fornita anche a mezzo presunzioni purché munite dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., principio ribadito anche di recente (Cass. n. 1357 del 2017; Cass. n. 18199 del 2020) a mente del quale, ancorché il legittimario che agisca in riduzione abbia l’onere d’indicare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, determinando con esattezza il valore della massa ereditaria, nonché quello della quota di legittima violata, può, a tal fine, allegare e provare – anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti – a tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva, aggiungendo altresì che una volta ravvisata la ricorrenza delle presunzioni come sopra connotate, risulta legittimo anche l’esperimento della C.T.U. d’ufficio, atteso che, una volta che l’attore in riduzione ha assolto il suo onere probatorio, il giudice ha il dovere di disporre la C.T.U. per stimare il valore dei beni costituenti il relictum e il donatum (in particolare, per la riduzione di donazione modale v. Cass. n. 6925 del 2015). Del resto, l’imputazione non è una condizione dell’azione, a differenza della preventiva accettazione con beneficio di inventario nel caso di azione di riduzione esperita contro soggetti non chiamati come coeredi, ma è una prodromica operazione di calcolo di natura esclusivamente contabile, diretta al riscontro della effettiva lesione della legittima ed ancor prima di determinare con precisione la stessa entità della legittima spettante al legittimario.

In ogni caso va sottolineato che la puntuale individuazione delle componenti patrimoniali, sulla scorta delle quali procedere alla ricostruzione del relictum ed eventualmente del donatum, costituisce un’attività riservata alla fase introduttiva del giudizio che soffre delle preclusioni legate alla fissazione del thema decidendum avendo questa Corte ribadito, in ragione dell’applicazione anche alle controversie in materia di scioglimento della comunione del regime delle preclusioni dettato per il processo ordinario di cognizione, per cui nel giudizio di riduzione per lesione della legittima, come anche in quello di divisione, è esclusa la possibilità di allegare ovvero provare, per la prima volta in appello, l’esistenza di altri beni idonei ad incidere sulla determinazione del “relictum” e, conseguentemente, dell’effettiva entità della lesione, dovendo il potere di specificazione della domanda manifestarsi nel rispetto delle preclusioni previste dal codice di rito (Cass. n. 28272 del 2018), tuttavia ben potrebbe la stessa allegazione da parte delle convenute degli elementi patrimoniali da prendere in considerazione ai fini della riunione fittizia o in particolare in vista dell’imputazione ex se, ove connotata da specificità (ad esempio con la puntuale individuazione delle donazioni non indicate in citazione ovvero dei beni relitti del pari non indicati da parte attrice), consentire al giudice di poter comunque procedere, se del caso avvalendosi anche di una CTU (che proprio perché chiamata a valutare ben individuati componenti patrimoniali non avrebbe carattere esplorativo) alla verifica della ricorrenza della lesione ovvero della corretta individuazione del soggetto destinato a subire le conseguenze derivanti dall’accoglimento dell’azione de qua.

Va poi affermato che l’eventuale carenza di prova in merito all’effettiva esistenza delle componenti patrimoniali destinate ad incrementare il relictum ovvero il donatum determina invece il rigetto della domanda o il suo accoglimento in misura inferiore rispetto a quanto richiesto, risolvendosi appunto non più sul piano delle attività assertive e di allegazione ma sul diverso piano del soddisfacimento dell’onere della prova incombente su colui che agisce in giudizio.

L’onere di allegazione della parte effettivamente impone di offrire un quadro soddisfacente della situazione patrimoniale del de cuius ai fini del compimento delle operazioni di riunione fittizia e di imputazione, ma una volta soddisfatto tale onere (anche per effetto dell’attività di allegazione della altre parti del giudizio), deve reputarsi che l’attore soddisfi l’onere di specificità della domanda impostogli dalla legge una volta che, richiamata la misura della sua quota di legittima, quale dettata dalla legge, assuma che per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero in conseguenza delle donazioni poste in essere in vita in favore di altri soggetti, ed al netto di quanto ricevuto allo stesso titolo, residui una lesione.    Si deve, dunque, ritenere che la decisione di appello, nel confermare il rigetto della domanda di riduzione, senza dare alcuna contezza delle precisazioni ed allegazioni probatorie compiute dai ricorrenti sia nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado sia di quello in sede di gravame, non risulta essersi conformata ai principi di diritto di questa Corte, come sopra precisati, per cui va disposta la cassazione della decisione sul punto (Cass. n. 18199 del 2020), dovendo il giudice del rinvio tenere conto del principio per cui “Nel caso di esercizio dell’azione di riduzione, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva”  >>;

Azione di riduzione (con scelta tra conguaglio monetario e separazione del bene in natura), collazione e divisione ereditaria

Cass. sez. II Ord. 06/03/2024  n. 5.978, rel. Picaro:

<<Anzitutto va evidenziato che l’impugnata sentenza ha affermato il principio che il legittimario vittorioso ai fini della reintegrazione della quota riservatagli dalla legge possa optare – in luogo dell’assegnazione del bene, o dei beni in natura, che sono stati oggetto della donazione lesiva della legittima inefficace nei suoi confronti a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione – per la corresponsione di una somma in danaro equivalente al valore della quota medesima, richiamando a giustificazione del principio l’art. 560 cod. civ. con una motivazione meramente apparente, inidonea a spiegare le ragioni effettive del principio.

Tale norma, infatti, intitolata “Riduzione del legato o della donazione d’immobili”, al primo comma prevede all’opposto, per l’ipotesi in cui oggetto della donazione da ridurre sia un immobile comodamente divisibile, che la riduzione avvenga mediante la separazione in natura e la conseguente assegnazione al legittimario nella misura occorrente alla reintegrazione della quota legittima, separazione a maggior ragione attuabile sempre in natura quando, come nella specie, oggetto della donazione da ridurre erano più beni immobili distinti (nel caso in esame quattro distinti terreni ed un fabbricato in Tolve vico III Vignali delle Corti), che almeno in parte avrebbero potuto essere trasferiti in proprietà al legittimario pretermesso, allo scopo di reintegrare la quota di legittima lesa, mentre al secondo comma si riferisce all’ipotesi, non verificatasi, in cui l’immobile oggetto di donazione da ridurre non sia comodamente divisibile, ed al terzo comma attribuisce al donatario, e non certo al legittimario pretermesso, la facoltà di ritenere l’immobile oggetto della donazione da ridurre compensando in denaro quest’ultimo, sempre che il valore dell’immobile donatogli non superi l’importo della porzione disponibile e della quota che gli spetta come legittimario. Neppure può ritenersi idonea a giustificare il riportato principio la sottolineatura fatta dall’impugnata sentenza in ordine alle indiscusse diversità di petitum e di causa petendi dell’azione di riduzione per lesione di legittima e per l’azione di divisione, che non possono fare trascurare però che in caso di accoglimento dell’azione di riduzione per lesione di legittima delle donazioni compiute dal defunto, che non abbia lasciato beni alla sua morte a favore del legittimario pretermesso, si determina solo tra quest’ultimo ed il donatario una comunione relativamente ai beni oggetto della donazione da ridurre, che – ove richiesto (come nel caso di specie) – può essere anche oggetto di divisione nell’ambito dello stesso giudizio e che deve essere sciolta nel rispetto dei criteri dettati dagli articoli 560 e 561 cod. civ.

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, in caso di legittimario pretermesso, le azioni di riduzione e di divisione possono essere proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 1206/1962).

Il principio è stato ribadito anche di recente, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 31125/2023; Cass. n. 19284/2019).

Venendo all’esame delle lamentate violazioni di legge per error in iudicando, questa Corte già in passato ha affermato che (Cass.n. 1079/1970) nel caso di azione tendente alla riduzione di disposizioni testamentarie (e lo stesso principio vale per le donazioni) che si assumano lesive della legittima, il giudice deve anzi tutto accertare quale sia la quota di legittima spettante all’attore legittimario (nel caso in esame in relazione al solo donatum in assenza di beni relitti dal de cuius), e deve, a tal fine, riunire fittiziamente i beni e determinare l’asse ereditario, procedendo poi alla sua valutazione secondo i valori del tempo dell’apertura della successione e tenendo conto anche della qualità dei beni, se fruttiferi o meno. Accertata così la quota di legittima, nel procedere alla sua liquidazione, deve tenersi presente che il legittimario ha diritto di conseguirla in natura e solo eccezionalmente in denaro, e che, in questo ultimo caso, il credito del legittimario non è di valuta, ma di valore, per cui, operando l’aestimatio rei, per il soddisfacimento del suo diritto, deve aversi riguardo alla quantità di denaro occorrente per attribuirgli il valore che aveva diritto a conseguire, di modo che detta aestimatio deve riferirsi alla data in cui l’integrazione e la liquidazione si determina, cioè al momento della pronuncia giudiziale che la effettua.

Più recentemente è stato sottolineato come (Cass. n. 39368/2021; Cass. n. 22097/2015) una delle differenze più significative tra la collazione e l’azione di riduzione consista proprio nel fatto che quest’ultima obbliga alla restituzione in natura dell’immobile donato, mentre l’altra ne consente l’imputazione di valore, sicché (vedi Cass. n. 28196/2020) se la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, e può comportare di fatto l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione porzioni uguali, ciò non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore.

Trattasi di una conseguenza derivante dalla stessa natura della pronuncia che accolga l’azione di riduzione (vedi in tal senso Cass. n. 39368/2021, cit.), che determina l’inefficacia per il legittimario della disposizione lesiva e che comporta, ove la disposizione abbia ad oggetto determinati beni, l’instaurarsi di una comunione tra beneficiario della disposizione lesiva e legittimario, nella quale la quota di compartecipazione del secondo è determinata in misura corrispondente al valore proporzionale della lesione da recuperare sul bene in rapporto al valore del bene stesso.

Tale conclusione trova poi il conforto dell’art. 560 cod. civ., che regola proprio la disciplina della comunione così determinatasi, prevedendo che preferibilmente la quota di legittima debba essere reintegrata mediante la separazione della parte del bene necessaria per soddisfare il legittimario, aggiungendo però che, laddove la separazione in natura non sia possibile, ed il bene quindi sia non comodamente divisibile, lo scioglimento della comunione avverrà sulla base di criteri preferenziali specificamente individuati dal comma 2° ed in deroga a quelli di carattere generale posti dall’art. 720 cod. civ.

E’ pur vero che la giurisprudenza si è occupata anche dell’ipotesi di reintegra della quota del legittimario in denaro, ritenendo che in tal caso l’obbligazione abbia natura di debito di valore, necessitante di adeguamento, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore dei beni in natura esistenti nell’asse, ma ciò presuppone che la reintegra in denaro o sia frutto di una concorde volontà delle parti, nella specie insussistente per la contraria volontà espressa da Pe.Ro., o che scaturisca dallo scioglimento della comunione secondo le modalità specificamente dettate dall’art. 560 cod. civ.

Ma ove non ricorrano tali condizioni, resta fermo che l’inefficacia della donazione lesiva, quale effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione, determina il subentro del legittimario nella comunione dei singoli beni oggetto della donazione, e quindi la reintegra in natura (vedi Cass. n. 39368/2021, cit.).

Ritiene il Collegio di dover quindi assicurare continuità a quanto di recente affermato con le pronunce di questa Corte n. 39368/2021 (cit.) e n. 16515/2020, le quali hanno ribadito che la reintegrazione, in linea di principio, va fatta in natura, mediante attribuzione, in tutto o in parte secondo che la riduzione sia pronunciata per intero o per una quota, dei beni oggetto delle disposizioni ridotte. E’ pur vero che tale affermazione viene di norma compiuta a tutela del diritto del legittimario, che non è in linea di principio suscettibile di essere convertito in un diritto di credito, ma ciò non toglie che l’osservanza della regola possa essere pretesa anche dal soggetto che subisce la riduzione, nella specie il donatario Pe.Ro., che non può essere costretto, contro la sua volontà, a liquidare in denaro la lesione che il legittimario ha diritto di recuperare in natura, e ciò soprattutto nel caso in cui, per effetto dell’andamento del mercato immobiliare e del lungo tempo trascorso tra l’apertura della successione e la conclusione delle operazioni divisionali, il mercato immobiliare abbia subito una fluttuazione in negativo, che renda quindi la reintegra in denaro svantaggiosa rispetto all’ipotesi in cui la reintegra sia realizzata in natura>>.

Applicazione alla fattispecie sub iudice:

<<La Corte d’Appello di Potenza, che peraltro ha interpretato la disponibilità espressa da Pe.Ma. ad ottenere un conguaglio in denaro (non la compensazione in denaro della quale parla l’art. 560, comma 2°, ultima parte cod. civ.) come volontà di ottenere la reintegrazione della quota riservatale in denaro anziché in natura, traendone inammissibilmente conferma da quanto richiesto dagli eredi di Pe.Ma. solo nella comparsa di costituzione del giudizio di secondo grado, non si è attenuta a tali principi, in quanto, una volta determinata la misura della lesione, avrebbe dovuto verificare in via prioritaria se sussistevano le condizioni per la reintegrazione della legittima in natura, determinando la quantità di beni oggetto della donazione ridotta secondo il valore degli stessi alla conclusione delle operazioni divisionali occorrenti a questo fine (Cass. n. 2006/1967) e l’importo dell’eventuale conguaglio, non potendo procedere direttamente alla reintegra dell’intera quota riservata in denaro.

Il modo di procedere nella reintegrazione della quota riservata a Pe.Ma. seguito dalla sentenza impugnata, confermativa di quella di primo grado, ha avuto, inoltre, come effetto quello di attribuire agli eredi del legittimario pretermesso la rivalutazione monetaria sul valore della quota riservata dalla data dell’apertura della successione alla sentenza conclusiva delle operazioni divisionali ed i frutti civili sotto forma di interessi su di essa, anziché i frutti naturali dei beni assegnati per la reintegrazione della quota a partire dalla domanda giudiziale ex art. 561, ultimo comma, cod. civ., con applicazione degli articoli 820 e 821 cod. civ.

Dovrà farsi applicazione per i beni assegnati a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione al legittimario pretermesso Pe.Ma., alla quale sono subentrati gli eredi Sa.Ro., Sa.Lu., Po.An. e Po.Do., del principio, di recente ribadito dalla sentenza n. 31125 dell’8.11.2023 di questa Corte, per cui in tema di divisione i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione sono di proprietà di tutti i partecipanti, in conformità del disposto degli articoli 820 e 821 cod. civ. e non possono quindi, salva diversa volontà delle parti, diventare di proprietà esclusiva del condividente cui sia stato assegnato il bene che li ha prodotti. Invece, nell’ipotesi in cui i frutti stessi non siano stati ancora separati al momento della divisione, è operante l’efficacia retroattiva prevista dall’art. 757 cod. civ., con la conseguenza che il condividente assegnatario ha il diritto di percepire per l’intero i frutti stessi anche se riferibili al periodo in cui il bene che li ha prodotti era comune (Cass. n. 2975 del 20/03/1991, richiamata in n. 25021/2019).

Sull’autonomia (e sulla revocabilità) della dispensa da imputazione ex se, inserita nella donazione, rispetto alla donazione stessa

Cass. sez. I del 06/02/2024, n. 3.352, rel. Cavallino:

<<4.1. Si deve considerare che la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione è attribuzione che si aggiunge a quanto spetta al beneficiario a titolo di legittima, per cui l’intento del donante ereditando è quello di conferire al donatario un vantaggio ulteriore, che si concreta nell’esenzione dall’imputazione; con la dispensa dall’imputazione, disciplinata dall’art. 564 co. 2 cod. civ., il legittimario trattiene la donazione e in più ha diritto a ottenere la sua quota di legittima intera e non decurtata dalla donazione. Come evidenziato da Cass. Sez. 2 26-11-1971 n. 3457 Rv. 355068-01 la dispensa dall’imputazione ex se crea a favore del beneficiario una posizione di indiscutibile vantaggio, consentendogli di limitare o, addirittura, di escludere l’efficacia delle liberalità disposte in favore di altri legittimari e di conservare le proprie. Secondo la corretta riflessione della dottrina, la dispensa dall’imputazione comporta l’espansione della legittima, in quanto ha l’effetto di accrescere la quota riservata al legittimario, attribuendo allo stesso il diritto di trattenere la donazione ricevuta e nel contempo di conseguire l’intera quota di legittima. Quindi se, anziché dire che la donazione in conto disponibile con dispensa dall’imputazione grava sulla disponibile, si dice che tale donazione si incorpora nella quota di legittima aumentandone il valore, meglio si spiega come tale disposizione si sottragga all’azione di riduzione.

Tale disposizione con la quale il donante regolamenta la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione, anche se contenuta nell’atto di donazione, è per definizione destinata a produrre effetti dopo la morte del disponente e ha specifica funzione mortis causa, quale atto di ultima volontà, palesemente distinta dalla donazione, negozio tipicamente inter vivos. Per queste ragioni, si deve condividere e dare continuità a quanto già statuito da Cass. Sez. 2 29-10-2015 n.22097 Rv. 636879-01 laddove, richiamando l’insegnamento sulla questione della dottrina prevalente, ha dichiarato che la dispensa dall’imputazione costituisce un negozio autonomo rispetto alla donazione, traendo da tale considerazione la conseguenza che la dispensa relativa all’imputazione di una donazione possa essere indifferentemente effettuata nello stesso atto di donazione o in un successivo testamento o in un successivo atto tra vivi. Non ostano a tale conclusione i precedenti di Cass. Sez. 2 1-10-2003 n. 14590 Rv. 567254-01, Cass. Sez. 2 7-5-1984 n. 2752 Rv. 434793-01 e Cass. Sez. 2 27-7-1961 n. 1845 Rv. 882772, in quanto ai fini della presente decisione è sufficiente osservare che la definizione data in quei precedenti alla dispensa dalla collazione quale clausola accessoria al contratto, come tale non eliminabile ex post per volontà di uno solo dei contraenti, non si attaglia alla dispensa dall’imputazione, destinata a produrre effetti dopo la morte del donante attribuendo al donatario divenuto erede il vantaggio ulteriore riferito all’attribuzione della sua intera quota di legittima, in aggiunta alla donazione già ricevuta.

Non può essere condiviso l’ulteriore rilievo svolto da parte della dottrina, secondo la quale la dispensa dall’imputazione contenuta nell’atto di donazione costituisce negozio a causa di morte a struttura inter vivos e quindi irrevocabile da parte del solo disponente: in senso contrario risulta convincente e deve essere recepito quanto pure osservato in dottrina, in ordine al fatto che la natura e la funzione del negozio non si modificano con riferimento all’atto che lo contiene. Anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua autonomia rispetto alla donazione e incide solo dopo la morte del de cuius nell’assetto successorio-patrimoniale dei coeredi; la morte non è solo l’occasione degli effetti della dispensa ma è il suo presupposto esclusivo e determinante, così da non potere essere la dispensa concepita in modo avulso dall’eventualità di successione futura a favore di più coeredi.

Pertanto si deve concludere che, anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua natura di atto unilaterale di ultima volontà sempre revocabile in forza del principio posto dall’art. 671 cod. civ., senza assumere struttura bilaterale così da potere essere sciolta solo per mutuo consenso. Del resto, se si ritenesse diversamente che l’accettazione della donazione da parte del donatario abbia a oggetto anche la dispensa dall’imputazione, così da rendere la dispensa irrevocabile unilateralmente da parte del donante, ci si dovrebbe porre la questione del configurarsi di un patto successorio istitutivo; ciò in quanto l’accordo tra il donante-futuro dante causa e il donatario-futuro erede, comprendendo anche la dispensa dall’imputazione così resa irrevocabile, sarebbe accordo avente a oggetto anche la futura successione con riguardo all’assetto delle attribuzioni di legittima e disponibile, in violazione del divieto posto dall’art. 458 cod. civ.>>

Interpretazione testamentaria e distinzione tra istituzione di erede (con divisione del testatore) e assegnazione di legato (in sostituzione di legittima)

Cass . sez. II, 11/01/2024  n. 1.149, rel. Pirari:

<<3.2 La censura, pur complicata dalla complessità della sua stesura e dal non necessario frazionamento delle singole argomentazioni, è fondata.

Essa impinge la sentenza impugnata in merito all’interpretazione data alla scheda testamentaria di Gi.Fr. – che, come dalla stessa riportato, aveva lasciato a ciascuno dei quattro figli la nuda proprietà di un cespite specificamente individuato e alla moglie il diritto di usufrutto su ciascuno di essi e la proprietà dei restanti suoi beni -, allorché ha qualificato i lasciti nei confronti dei figli in termini di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 cod. civ., anziché di istituzione di erede, arguendolo dall’inciso, pure contenuto nel testamento, secondo cui, in caso di premorienza della moglie, i medesimi beni sarebbero stati devoluti in parti uguali ai figli, e fatto derivare da ciò l’infondatezza dell’azione di riduzione esercitata dalle ricorrenti, non avendo esse rinunciato ai legati ed essendo inammissibile, una volta confluiti i beni nel loro patrimonio, la resipiscenza tardiva sul punto, esercitata, in particolare, attraverso la rinuncia operata solo con la memoria ex art. 183 cod. proc. civ., depositata il 26/4/2013, oltretutto asseritamente prescritta in quanto intervenuta dopo dieci anni dall’apertura della successione del 12 ottobre 2002.

Avverso tali considerazioni, le ricorrenti sono insorte, lamentando, innanzitutto, la violazione delle norme in tema di interpretazione del contratto, quindi insistendo per la qualificazione del lascito in termini di istituzione di erede, con volontà divisoria, come arguibile anche da un atto successivo al testamento che invitava il fratello alla collazione, o, al più, di legato in conto di legittima, con conseguente ammissibilità dell’azione di riduzione senza previa rinuncia al legato, e, a cascata, l’erroneità della statuizione di tardività della rinuncia, anche in ragione dell’affermata e non comprovata, acquisizione del possesso dei beni da parte loro, ancorché contestata e contraddetta dai certificati di residenza, e della prescrizione, siccome decorrente, a loro dire, dalla conoscenza della scheda testamentaria e non dall’apertura della successione.

Orbene, andando con ordine, occorre, in primo luogo, ricordare come, secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice debba accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 cod. civ., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, badando al significato pratico e concreto delle espressioni usate, al quale deve dare prevalenza rispetto a quello meramente letterale, tenendo presente, nei casi dubbi, il complesso delle disposizioni e quegli elementi estrinseci che siano stati idonei ad influire sulla determinazione della volontà del testatore e a rivelare le ragioni, il contenuto delle disposizioni e le finalità con esse perseguite (Cass., Sez. 2, 26/2/1970, n. 469) e, dunque, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, e salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass., Sez. 2, 14/10/2013, n. 23278, Rv. 628013; Cass., Sez. 2, 14/01/2010, n. 468, Rv. 610814; Cass., Sez. 2, 21/02/2007, n. 4022, Rv. 595401).

Andando più nello specifico, è proprio attraverso l’utilizzo delle comuni regole ermeneutiche che va individuata la distinzione tra erede e legatario ai sensi dell’art. 588 cod. civ. e che può ravvisarsi l’istituzione di erede ex re certa allorché la volontà del testatore sia stata quella di attribuire uno o più beni determinati come quota del suo patrimonio e non già come lascito autonomo senza conferimento della qualità di erede, ossia il legato (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773), tenendo conto che l’assegnazione di beni determinati dà luogo ad una successione a titolo universale qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto oppure ad un legato se egli abbia voluto attribuirgli singoli, individuati, beni (Cass., Sez. 2, 25/10/2013, n. 24163, Rv. 628231; Cass., Sez. 2, 1/03/2002, n. 3016, Rv. 552709).

Peraltro, mentre in base al primo comma dell’art. 588 c.c. l’istituzione di erede va desunta dal contenuto strettamente obiettivo dell’atto, di guisa che la volontà testamentaria, che pur sempre va ricercata, non ha il potere di determinare un’istituzione di erede che prescinda da un preciso rapporto con l’universalità di beni del testatore o con una quota di esso, con la conseguenza che, sempre che la chiamata venga in universam rem o pro quota si ha istituzione di erede quali che siano i termini, anche se impropri, usati dal testatore e anche nell’eventualità che parte dell’asse sia destinata a legati, viceversa, in base al secondo comma dello stesso articolo, accanto al criterio obiettivo dell’interpretazione desunta dal contenuto dell’atto, viene introdotto quello soggettivo dell’interpretazione ricavata dall’intenzione del testatore di assegnare beni determinati come quota del patrimonio, interpretazione cui è dato pervenire attraverso i comuni canoni della volontà testamentaria, sicché alla stregua del secondo comma dell’art. 588 cod. civ., anche l’assegnazione di determinati beni o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, tutte le volte che risulti che il testatore abbia inteso assegnare quei beni come quota del suo patrimonio, considerandoli, cioè, nel loro rapporto con il tutto (Cass., sez. 2, 8/7/1964, n. 1800).

Il risultato di tale interpretazione non è sindacabile in sede di legittimità ove non si alleghi la violazione di un preciso canone interpretativo o il vizio della motivazione della sentenza (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773; Cass., Sez. 2, 21/1/1978, n. 269), risolvendosi l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (Cass., Sez. 2, 6/10/2017, n. 23393).

Ebbene, le ricorrenti, pur avendo lamentato la violazione dell’art. 1362 cod. civ., non hanno chiarito in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, sicché deve operare il principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., Sez. 3, 10/2/2015, n. 2465; Cass. 3, Sez., 26/5/2006, n. 10891).

Pertanto, avendo nella specie i giudici motivato adeguatamente sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di qualificare le disposizioni testamentarie in termini di legato e non di istituzione ex re certa e non avendo, per converso, le ricorrenti chiarito i termini della lamentata violazione delle norme ermeneutiche applicabili, la censura deve ritenersi sotto questo profilo infondata.

Diversamente deve opinarsi con riguardo alla ritenuta configurabilità del legato in sostituzione di legittima, in luogo di quello in conto di legittima preteso, invece, dalle ricorrenti.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, al fine della configurabilità del legato in sostituzione di legittima, occorre che dal complessivo contenuto delle disposizioni testamentarie risulti, in modo certo e univoco, la volontà del de cuius di tacitare il legittimario con l’attribuzione di determinati beni, precludendogli la possibilità di mantenere il legato e di attaccare le altre disposizioni per far valere la riserva, laddove, in difetto di tale volontà, il legato deve ritenersi “in conto” di legittima (Cass., Sez. 2, 19/11/2019, n. 30082).

A tali fini, non occorre che la scheda testamentaria usi formule sacramentali, siccome non richieste dalla norma, potendo l’intenzione del testatore di soddisfare il legittimario con l’attribuzione di beni determinati senza chiamarlo all’eredità essere desunta anche dal complessivo contenuto della scheda testamentaria attraverso un’opportuna indagine interpretativa da cui risulti tale intenzione (Cass., Sez. 2, 16/1/2014, n. 824), senza che possano essere considerati elementi estrinseci al testamento se non espressamente richiamati nell’atto stesso (Cass., Sez. 2, 9/9/2011, n. 18583).

Lo stabilire se una disposizione testamentaria a favore di un legittimario integri un legato in sostituzione oppure in conto di legittima costituisce anch’esso accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato ed immune da violazione dei canoni ermeneutici che devono presiedere all’interpretazione delle disposizioni di ultima volontà (v. Cass., Sez. 2, 26/5/1998, n. 5232; Cass., Sez. 2, 10/6/2011, n. 12854; Cass., Sez. 2, 29/7/2005, n. 16083) [no: è questione di diritto; dI fatto è solo  quella sulla ricostruzione del contenuto semantico della scheda].

Ebbene, a tali principi non si sono attenuti i giudici di merito, i quali hanno qualificato le disposizioni testamentarie paterne in termini di legato in sostituzione di legittima alla stregua dell’attribuzione ai figli della sola nuda proprietà di alcuni beni, lasciati in usufrutto alla moglie in uno con le sue restanti proprietà, e della loro devoluzione in parti uguali ai figli soltanto in caso di premorienza della moglie, ossia sulla base di elementi che si rivelano del tutto incoerenti con la qualificazione della disposizione in termini siffatti.

In ragione di quanto detto, il motivo deve, dunque, ritenersi fondato>>.