Resposting di fotografie e aggiunta di commento asseritamente ingiurioso è coperto da safe harbour ex § 230 CDA?

Dice di si l’appello calforniano 1st appellate district – division one, 15 dicembre 2022, A165836, A165841, A.H e altri c. Labana.

A seguito della morte di George Floyd e del reperimento della foto su internet di alcuni alunni (della stessa scuola del figlio) col volto dipinto di nero (con significato razzialmnente derisorio), una mamma di colore organizza con altra mamma una marcia di protesta.

Crea allo scopo un “evento Facebook” che include la foto medesima (senza nomi; ma erano stati da altri identificati). Vi aggiunge il commento “This is a protest to [sic] the outrageous behavior that current and former students from SFHS did–A George Floyd [I]nstagram account making fun of his death, the fact that he could not breath [sic] and kids participating in black face and thinking that this is all a joke.

Does the SFHS administration think this is a joke? Please join us at the entrance of the school off of Miramonte St. and make sure this administration knows that this type of behavior will NOT be tolerated.

Please remember to practice social distancing, wear a mask and bring a sign if you would like! Feel free to add people to this list”.

Gli alunni rappresentati nella foto agiscono per difamazione anche verso questa mamma .

Il giudice di primo e secondo grado però confermano che opera il § 230 CDA come safe harbour (come internet service user, direi , non provider) dato che era stato accertato che la mamma no era autrice della foto stessa, trattandosi solo di reposting (condivisione).

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Mettere un like ad un post diffamatorio su Facebook non significa condividerlo nè divulgarlo

Secondo il  Tribunale distrettuale delle Hawaii (11 novembre 2022,  caso CIV. NO. 18-00364 LEK-KJM, Gallagher v. MATERNITYWISE INTERNATIONAL ed altri),   mettere un like ad un popst diffamatorio non è a sua volta diffamazione : cioè non amplifica il messaggio lesivo:

<< Considering the defamation principles that are well-established in Hawai`i law, this Court predicts that, under facts similar to the circumstances of this case, the Hawai`i Supreme Court would hold that clicking “Like” on a Facebook post that contains a defamatory statement does not constitute adoption or republication of the post >>.

(sentenza e link dal blog del prof. Eric Goldman)

Le etichette poste da Facebobok sopra i post degli utenti, a seguito di fact checking, non sono diffamatorie ma esercizio del diritto di parola

Facebook pone due etichette a due post (video) di un giornalista leggermente negazionsta circa il surriscaldamento globale:

  1. Missing Context” e sotto “Independent fact-checkers say the information could mislead people.” e sotto ancora a button with the words “See Why” (premendo il quale si aprono ulteriori finestre spiegatorie)
  2. “Partly False Information” s ttto “Checked by independent fact-checkers.”, sotto ancora appare il button with the words “See Why.” (premendo il quale si aprono ulteriori finestre spiegatorie)

Il giornalista cita Fb per diffamazione.

La corte del distretto nord della California con sentenza 11 ottobre 2022 Case 5:21-cv-07385-VKD , Stossel v. Meta, però rigetta perchè, stante la disciplina anti SLAPP (mirante ad evitare inibizioni o intimidazioni della libera espressione del pensiero su temi di pubblico interesse) , l’attività di Fb è coperta dal Primo Emendamento.

E’ veo che questo si applica a espressioni di giudizi e non di fatti, p. 12 righe 10-11: però l’attività di etichettatura da fact checking consiste proprio in giudizi.

Direi che la sentenza è esatta: ci mancherebbe che la piattaforma non potesse suggerire avvertenze di possibile falsità dei post dei suoi utenti.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Ritwittare aggiungendo commenti diffamatori non è protetto dal safe harbour ex 230 CDA

Byrne è citato per diffamazione da Us Dominion (azienda usa che fornisce software per la gestione dei processi elettorali) per dichiaraizoni e tweet offensivi.

Egli cerca l’esimente del safe harbour ex 230 CDA ma gli va male: è infatti content provider.

Il mero twittare un link (a materiale diffamatorio) pootrebbe esserne coperto: ma non i commenti accompagnatori.

Così il Trib. del District of Columbia 20.04.4022, Case 1:21-cv-02131-CJN, US Dominion v. Byrne: <<A so-called “information content provider” does not enjoy immunity under § 230.   Klayman v. Zuckerberg, 753 F.3d 1354, 1356 (D.C. Cir. 2014). Any “person or entity that is responsible, in whole or in part, for the creation or development of information provided through the Internet or any other interactive computer service” qualifies as an “information content provider.” 47 U.S.C. § 230(f)(3); Bennett, 882 F.3d at 1166 (noting a dividing line between service and content in that ‘interactive computer service’ providers—which are generally eligible for CDA section 230 immunity—and ‘information content provider[s],’ which are not entitled to immunity”).
While § 230 may provide immunity for someone who merely shares a link on Twitter,
Roca Labs, Inc. v. Consumer Opinion Corp., 140 F. Supp. 3d 1311, 1321 (M.D. Fla. 2015), it does not immunize someone for making additional remarks that are allegedly defamatory, see La Liberte v. Reid, 966 F.3d 79, 89 (2d Cir. 2020). Here, Byrne stated that he “vouch[ed] for” the evidence proving that Dominion had a connection to China. See
Compl. ¶ 153(m). Byrne’s alleged statements accompanying the retweet therefore fall outside the ambit of § 230 immunity>>.

Questione non difficile: che il mero caricamente di un link sia protetto, è questione interessante; che invece i commenti accompagnatori ingiuriosi rendano l’autore un content provider, è certo.

Il legale che invia ad Amazon l’istanza di notice and take down non commette diffamazione

interessante fattispecie concreta decisa dalla Corte dell’Illinois, east. divis., 11 marzo 2022, No. 21 C 3648, The Sunny Factory, LLC v. Chen, 2.

Il legale di un impresa titolare di copyright intima ad Amazon la rimozione dei prodotti di un’azienda presente nel suo marketplace, che asseritamente violerebbero il diritto della cliente.

Amazon rimuove e il terzo “rimosso” cita in giudizio i legali per diffamazione , tortious interference (perdite pesanti nelle vendite) e dolosa misrepresentation ai sensi del § 512.f del DMCA.

La lite viene però decisa in modo sfavolevole all’azienda intimata e attrice nel presente processo, essenzialmente per mancanza dell’elememto soggettivo (dolo o malizia a secodna dei casi)in capo ai legali convenuti.

Da segnalare che per il diritto usa c’è un privilegio a favore dei legali che agiscano per conto dei clienti quando mandano diffide nel corso di una lite, sia per diffamazione che per tortious interference, p. 5 e rispett. 7.

Strano aver lasciato  per ultima la questione del DMCA , che probabilmente era la prima in ordine logico: negando la responsabilità in base a tale dispisizone, diventava poi assai dfifficile, forse impossibile, ravvisarne in base a diverso titolo

(sentenza e link alla stessa dal blog del prof. Eric Goldman)

Copiare da un forum ad un altro threads, contenenti post diffamatori e soggetti a copyright, non preclude il safe harbour e costituisce fair use

Copiare post (anzi interi threads) da un forum ad un altro (in occasione ed anzi a causa di cambio di policy nel 2017) non impedisce la fruzione del safe harbour ex 230 CDA in caso di post diffamatori ; inoltre, quanto al copyright , costituisce fair use.

così il l’appello del primo circuito conferma il primo grado con sentenza 10.03.2022, caso n. 21-1146, Monsarrat v. Newman.

Quanto al § 230 CDA, il giudizio è esatto.

La prima piattaforma era LiveJournals, controllata dalla Russia; quella destinataria del trasferimento (operato da un moderatore) è Dreamwidth.

(sentenza a link alla stessa dal blog del profl Eric Goldman)

Diffamazione via Facebook verso il datore di lavoro con successivo licenziamento per giusta causa (e grave insubordinazione ex CCNL)

Qualche spunto utile in Cass. sez. lav. n. 27.939 del 13.10.2021, rel.  Patti , circa diffamzione compiuta dal lavoratore su Facebook ai danni del datore, che lo hapoi licenziato per giusta causa ex 2119 cc e art. 48B del CCNL.

1) circa la privatezza o meno del post a seconda che sia in gruppo chiuso o nel proprio profilo pubblico :

<<Premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile (Cass. 10 settembre 2018, n.21965: nella specie, conversazione in chat su Facebook composta unicamente daiscritti ad uno stesso sindacato), nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell’utilizzazione infunzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social : così secondo il Tribunale, come riportato alterz’ultimo capoverso di pg. 2 e al terz’ultimo di pg. 5 della sentenza impugnata) è, infatti, idoneo (secondo l’accertamento della Corte territoriale, ancherecependo dal provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13giugno 2013 il supporto tecnico di comprensione dell’articolata modulazione dei messaggi su Facebook e della diversa fruibilità esterna a seconda di essa: all’ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n.10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione ecostituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nelrapporto lavorativo)>>.

2) Sulla grave insubordinazione ex ccnl:

<<È insegnamento di questa Corte che la nozione di insubordinazione debba essere intesa in senso ampio: sicché, nell’ambito del rapporto di lavorosubordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale,alla violazione dell’art. 2104, secondo comma c.c.), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed ilcorretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazioneaziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile 2018, n. 9736, in riferimento adun rapporto di lavoro pubblico).

9.1. Infatti, ciò che conta, ai fini di una corretta individuazione di una condotta diinsubordinazione, nel contemperamento dell’interesse del datore di lavoro alregolare funzionamento dell’organizzazione produttiva con la pretesa dellavoratore alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, è il collegamento al sinallagma contrattuale: nel senso della rilevanza dei soli comportamenti suscettibili di incidere sull’esecuzione e sul regolare svolgimento dellaprestazione, come inserita nell’organizzazione aziendale, sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento (con riferimento al potere direttivodell’imprenditore), nonché dell’ordine e della disciplina, su cui si basa l’organizzazione complessiva dell’impresa, e dunque con riferimento al poteregerarchico e di disciplina (Cass. 13 settembre 2018, n. 22382). In particolare, lanozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alledisposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altrocomportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazioneaziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. 2 luglio 1987, n. 5804, citata):sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo dicorrettezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze ditutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sésuscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento chel’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigentie quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore,con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11maggio 2016, n. 9635)>>.

Responsabilità dell’editore per i commenti diffamatori postati dai lettori sulla sua pagina Facebook

La Suprema corte australiana ha affermato che l’editore di giornali è (cor-)responsabile per diffamazione circa il post diffamtorio dei lettori, pubblicati nella sua pagina Facebook come commento ad articolo giornalistico. In altre parole l’editore, dando visibilità ai post, ne diventa <publisher> .

Si tratta di Fairfax Media Publications Pty Ltd v Voller [2021] HCA 27, Nationwide News Pty Limited v Voller , Australian News Channel Pty Ltd v Voller, 8 Sep 2021, Case Number: S236/2020  – S237/2020  – S238/2020.

Il testo è leggibile qui e la sintesi per il pubblico qui.

La principale difesa degli editori consisteva (non soprrendentemente , dato l’innegabile loro contributo materiale) , nella mancanza di elemento soggettivo (consapevoleza della lesività): The appellants now contend that the common law requires that the publication of defamatory matter be intentional. It is not sufficient that a defendant merely plays a passive instrumental role in the process of publication. To be a publisher a person must intend to communicate the matter complained of, which is to say the relevant words. This is said to follow from what was said by Isaacs J in Webb v Bloch[1] and to accord with the holding in Trkulja v Google LLC[2], that Google’s intentional participation in the communication of the defamatory matter supported a finding of publication , § 18.

Secondo la Suprema Corte , però, tale elemento non è richiesto: The liability of a person as a publisher “depends upon mere communication of the defamatory matter to a third person”, Dixon J said[1] in Lee v Wilson & Mackinnon. No question as to the knowledge or intention of the publisher arises. His Honour said “[t]he communication may be quite unintentional, and the publisher may be unaware of the defamatory matter”, but the person communicating the defamatory matter will nevertheless be liable. The exception identified by his Honour was the case of certain booksellers, news vendors and messengers, to which reference will later be made, § 28.

E poi:  The Court of Appeal was correct to hold that the acts of the appellants in facilitating, encouraging and thereby assisting the posting of comments by the third-party Facebook users rendered them publishers of those comments, Concl. al § 55.

I giudici Gageler e Gordon:  98 Each appellant became a publisher of each comment posted on its public Facebook page by a Facebook user as and when that comment was accessed in a comprehensible form by another Facebook user. Each appellant became a publisher at that time by reason of its intentional participation in the process by which the posted comment had become available to be accessed by the other Facebook user. In each case, the intentional participation in that process was sufficiently constituted by the appellant, having contracted with Facebook for the creation and ongoing provision of its public Facebook page, posting content on the page the effect of which was automatically to give Facebook users the option (in addition to “Like” or “Share”) to “Comment” on the content by posting a comment which (if not “filtered” so as to be automatically “hidden” if it contained “moderated words”) was automatically accessible in a comprehensible form by other Facebook users.   99   Not to the point of the appellants having been publishers is the fact that: the appellants had no control over the facility by which the Facebook service was provided to them and to Facebook users; the “Comment” function was a standard feature of the Facebook service which the appellants could not disable; it was not possible for them to delete all comments in advance; or they could have effectively “hidden” all comments posted by Facebook users only by applying an extremely long list of common words as “moderated words”, §§ 98-99.

Dalla predetta  sintesi per il pubblico:
Fatto: The appellants are media companies which publish newspapers that circulate in New South Wales or operate television stations, or both. Each appellant maintained a public Facebook page on which they posted content relating to news stories and provided hyperlinks to those stories on their website. After posting content relating to particular news stories referring to Mr Voller, including posts concerning his incarceration in a juvenile justice detention centre in the Northern Territory, a number of third-party Facebook users responded with comments that were alleged to be defamatory of Mr Voller. Mr Voller brought proceedings against the appellants alleging that they were liable for defamation as the publishers of those comments.

Motivo: The High Court by majority dismissed the appeals and found that the appellants were the publishers of the third-party Facebook user comments. A majority of the Court held that the liability of a person as a publisher depends upon whether that person, by facilitating and encouraging the relevant communication, “participated” in the communication of the defamatory matter to a third person. The majority rejected the appellants’ argument that for a person to be a publisher they must know of the relevant defamatory matter and intend to convey it. Each appellant, by the creation of a public Facebook page and the posting of content on that page, facilitated, encouraged and thereby assisted the publication of comments from third-party Facebook users. The appellants were therefore publishers of the third-party comments.

Da vedere se nel diritto USA il fatto sarebbe stato coperto dal safe harbour ex § 230 CDA.

Recensione di uno studio legale su Google e diffamazione

La recensione dell’operato di un avvocato , costituita dall’avergli assegnato una sola stellina (su 5 , come parrebbe desumersi in Google Maps) e null’altro (cioè senza aggiunta di parole), non costituisce diffamazione.

Così la Corte di appello del Michigan, 18.03.2021, Gursten c. John doe1 e altri, No.352225, Oakland Circuit Court ,LC No.2019-171503-NO.

Così già la corte di primo grado (confermata) :

<<A one-star review is pure opinion and is not a statement capable of being defamatory. Even if the review implies that John Doe 2 had an experience with [p]laintiffs as [p]laintiffs contend, the Court does not find that this implication would render what would otherwise be pure opinion, defamatory. The implication of an experience with [p]laintiffs is not a defamatory implication regardless of whether it is provable as false. The Court has not been presented with []authority for the contention that a one-star review[,]standing alone[,]is defamatory because it was posted anonymously or pseudonymously.Moreover, in considering the context of the review, the Court cannot ignore that the one-star review at issue in this case was made on Google Review. Such websites are well-recognized places for anyone to place an opinion. Within this context, an ordinary [I]nternet reader understands that such comments are mere statements of opinion. To hold that the pseudonymous review in this case is defamatory would make nearly all negative anonymous or pseudonymous [I]nternet reviews susceptible to defamation claims.Because the court finds that the one-star review is not a statement capable of being defamatory, [p]laintiffs’ claim for defamation and business defamation fail as a matter of law>>

L’avvocato attore aveva negato di aver mai avuto quel cliente e attribuiva la recensione ad un collega (competitor attorney, p. 2 in nota 1).

Per la corte di appello è centrale appurare se prevalga l’onore o il diritto di parola e di critica, p. 4.

E conclude che <<a one-star wordless review posted on Google Review is an expression of opinion protected bythe First Amendment. Edwards, 322 Mich App at 13. We have previouslyheld that “[t]he context and forum in which statements appear also affect whether a reasonable reader would interpret the statements as asserting provable facts.” Ghanam, 303 Mich App at 546 (quotation marks and citations omitted). In the context of Internet message boards and similar opinion-based platforms, statements “are generally regarded as containing statements of pure opinion rather than statements or implications of actual, provable fact…. Indeed, the very fact that most of the posters [on Internet message boards] remain anonymous, or pseudonymous, is a cue to discount their statements accordingly.” Id. at 546-547 (quotation marks and citations omitted). As plaintiffs note, Google Review is an online consumer review service where posters can share their subjective experience with, among otherthings, a business, a professional, or a brand. We therefore conclude that Google Review is no different than the[I]nternet message boards in Ghanam; that is,it containspurely a poster’s opinions,which are afforded First Amendment protection>>, p. 5.

Per l’avvocato attore la <<one-star Google review was a defamatory statement by implication. Plaintiffs assert that “Google review is an [I]nternet-based consumer review service” where individuals can post reviews of a business or professional on the basis of their actual experience; therefore, by posting a wordless one-star Google review, the poster implies that hisor her experience with that business was a negative one. . Because Doe 2 failed to establish that he or she was a prospective, former, or current client, plaintiffs contend that the review is defamatory as it was implied that Doe 2 had an actual attorney-client experience and received legal services from plaintiffs.>>

Ma per la corte spettava all’avvocato provare che la recensione era  <<materially false. American Transmission, Inc, 239 Mich App at 702. Indeed, plaintiffs do not even know Doe 2’s true identity. While plaintiffs urge this Court to assume Doe 2 is a competitor-attorney because Doe 1 was identified as such, this is mere speculation without any factual basis>>.

Sul punto però si è formata una dissenting opinion che ritiene opportuno indagare proprio la questione della falsità o verità del post in questione,anche se vede difficile la posizione del’avvocato attore: <<At this point, we must assume that which plaintiffs’ have alleged—the poster’s expressed opinion rested on nothing more than economic or personal animus, not actual experience. I would remand to permit the parties to conduct discovery focused on identifying the poster and determining whether he or she was truly a client of the firm or a person who had otherwise had an unsatisfactory interaction with it. That said, plaintiffs have a difficult road ahead. Despite that Milkovich does not preclude their claim at this stage, the First Amendment does offer substantial protection of John Doe 2’s right to opine regarding plaintiffs’ competence, work product, and legal abilities. If a substantially true implication or real facts underlieJohn Doe 2’s opinion, the First Amendment likely shields him or her from tort liability. As a matter of constitutional law, however, it is too early to make that determination>> (dissenting opinion del giudice Gleicher).

Caso interessante, dato che le decisioni sulla offensività delle recensioni in internet sono poche (qualcuna su Tripadvisor, anche italiana) e ancor meno sull’operato di un avvocato.

(notizia e link alla sentenza e alla dissenting opinion tratti dal blog di Eric Goldman)

Safe harbour ex 230 CDA: un’applicazione semplice in una fattispecie di diffamazione

La Superior Court del Delaware, 11.02.2021, Page c. Oath inc., C.A. n° S20C-07-030-CAK,  decide una piana questione di safe harbour ex 230 CDA in una lite per diffamazione.

Carter Page (noto perchè legato all’affaire USA-Russia nell’amministrazione Trump) cita Oath inc. , capogruppo proprietaria di Yahoo e di theHuffington Post.com) per diffamzione circa  11 articoli lesivi, 4 di dipendenti e 7 ad opèera di collaboratori esterni, apparsi sulla seconda piattaforma.

Naturalmente Oath invoca il safe harbour.

Altrettanto naturalmente la Corte lo concede (pp. 17-19).

Pacificamente iatti ne ricorrono i tre requisiti:

1-che sia internet provider

2-che il provier non ne fosse l’autore

3-che l’azine svolta lo consideri come publisher/speaker.

Caso semplice, indubbiamente e lo dice pure la Corte: <<this is not a controversial application of sectine 230>, p. 19