Recesso per mutamento delle condizioni di rischio (art. 2497 quater.c cod. civ.) e per rimozione di vincoli alla circolazione della partecipazione (art. 2437.2.b cod. civ.)

Cass. 20.546 del 27 giugno 2022 , rel. Fidanzia, interviene sui due temi in oggetto.

Circa il primo (in particolare circa il requisuito della alteraizone delle condizoni di rischio) , insegna che basta sia potenziale:

<<Non vi è dubbio che, affinchè possa ritenersi integrato il secondo requisito della causa di recesso previ(OMISSIS) dall’art. 2497 quater lett c) c.c., si condivide, in linea di principio, l’impostazione della ricorrente secondo cui non è indispensabile che l’inizio della direzione e coordinamento abbia già prodotto un’immediata alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento, essendo, invece, sufficiente l’esistenza di una potenzialità modificativa (in peius) delle stesse, e che la prova di tale alterazione possa essere fornita valorizzando circostanze successive alla dichiarazione di recesso>>.

Affermazione importante.

Nel caso specifico però non ravvisa la fattispecie legale: <<Va, tuttavia, osservato che la Corte d’Appello ha, in modo assorbente, comunque esaustivamente argomentato come l’incremento dell’appostazione del fondo rischi, nel bilancio 2013 di (OMISSIS), non avesse determinato un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento in quanto svincolato da nesso di causalità con la modifica della direzione e controllo.

In particolare, la Corte d’Appello ha motivatamente escluso che l’incremento della posta “accantonamento per rischi e oneri futuri” costituisse attività gestoria discrezionale riconducibile alla direzione e coordinamento della nuova controllante, atteso che i fatti generatori della perdita erano antecedenti alla gestione della nuova società e l’incremento era stato imposto dalle risultanze delle due consulenze tecniche.>>

(non chiaro come l’aumento della posta di accantonamento possa alterare le condizioni di rischio).

Circa il secondo tema, dice che basta una rimozione purchessia, anche se relativa al solo caso di vendita a società controllate, per far scatare il diritto di rrcesso:

<<Questo Collegio condivide l’impostazione della ricorrente secondo cui, al fine di accertare la legittimità del recesso, a norma dell’art. 2437 c.c., comma 1 lett a), è sufficiente verificare se la modifica statutaria abbia rimosso un limite alla circolazione delle azioni prima esistente, indipendentemente dal fatto se tale modifica abbia o meno una rilevanza sostanziale rispetto alla precedente disciplina.

In primo luogo, assai persuasiva è la valorizzazione del dato letterale in altra ipotesi di recesso concernente la modifica della clausola che disciplina l’oggetto sociale, a norma dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., è stato lo stesso legislatore a richiedere espressamente la rilevanza sostanziale della modifica statutaria. Ne consegue che se, nell’ipotesi di cui è causa, il legislatore non ha richiesto tale ulteriore requisito, vuol dire che ai fini del recesso è sufficiente una qualsiasi modifica statutaria idonea a rimuovere i limiti alla circolazione delle azioni (sul punto, la previsione, nel caso di specie, della possibilità di cedere liberamente le azioni alle società controllate, prima non contemplata, si muove indubbiamente in quella direzione).

Anche gli altri argomenti di natura sistematica evidenziati dalla ricorrente sono convincenti: nell’ipotesi previ(OMISSIS) dall’art. 2437 comma 1 lett a) c.c. la legge richiede, a differenza che nell’ipotesi di cui al comma 2 lett b) dello stesso articolo – quella di cui è causa – la modifica so(OMISSIS)nziale della clausola dell’oggetto sociale, dal momento che, trattandosi di una ipotesi tassativa ed inderogabile di recesso, per scongiurare che la società sia privata delle fonti del proprio approvvigionamento (costituite dai conferimenti dei soci) anche a fronte di modifiche solo formali delle proprie clausole, è necessario che la variazione abbia avuto un impatto significativo. Al contrario, in caso di introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione delle azioni, non si pone l’esigenza di tale ulteriore cautela, dal momento che il diritto di recesso può comunque essere convenzionalmente escluso dalle parti (l’art. 2437 comma 2 cod. cv. esordisce, infatti, con la locuzione “salvo che lo statuto disponga diversamente).

In particolare, in questo caso, le parti hanno già uno strumento per soddisfare l’esigenza di evitare che il recesso possa essere collegato a modifiche da essi non considerate sostanziali, potendo, a monte, escludere per le stesse modifiche la stessa astratta possibilità del recesso.

Infine, depone per un’interpretazione dell’art. 2437 comma 1 lett a) c.c., che assicuri, in radice, la certezza sulle condizioni di uscita da una società per azioni, il disposto dell’art. 2355 bis comma 4 c.c., che impone tutte le limitazioni alla circolazione delle azioni debbano risultare dal titolo azionario: se il legislatore ha prescritto che l’introduzione e la rimozione dei vincoli debba essere sempre comunque annotata sul titolo, anche quando non si tratta modifica sostanziale, sarebbe incoerente introdurre, invece, in caso di recesso, tale ulteriore requisito, che comporta necessariamente delle valutazioni di natura discrezionale.>>

Affermazione condivisibile ma non difficile da sostenere, in assenza di ogni dato testuale a supporto della tesi contraria.

Infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi di gruppo (art. 2634 c.c.) : spetta all’amministrare provarli, alla società basta provare la distrazione/lesione

Secondo l’art. 2634 (rubricato Infedelta’ patrimoniale) c. 3, c.c., <<non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo>>

La Corte di Cassazione (sez. I penale, n. 20494-2019, 12.06.2018, dep. 13.05.2019, rel. Vannucci) sul tema ha  precisato che, per invocare questa norma, l’amministratore deve (allegare) e provare gli ipotizzati benefici indiretti derivanti dall’appartenenza al gruppo. Aggiungerei che deve trattarsi di benefici specifici, cioè aventi una loro individualità e calcolabilità economica.

E’ vero secondo la S.C. che la razionalità delle operazioni economiche va accertata non in modo atomistico, ma tenendo conto della realtà del gruppo in cui la singola società è inserita. Va senz’altro ammessa <<la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa
prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto
all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che
quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.>> (p. 6).

La Corte aggiunge però che il vantaggio non può essere posto in termini ipotetici. Dopo che la società ha dimostrato il danno cagionatole da una certa condotta distrattiva o lesiva dell’amministratore (anche questa allegazione -aggiungo- deve essere specifica), la prova di suoi paralleli effetti positivi tocca all’amministratore: in particolare, non può essere ritenuta presente per la mera appartenenza al gruppo. Questo è il passaggio più significativo della sentenza.

Precisamente si legge così: <<In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio  della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al  patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società, la quale abbia agito contro il proprio amministratore, l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore, che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta>> (p. 6-7).

La Corte riassume così: <<In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del  diritto delle società di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal d.lgs. n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra società non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo,  che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della società controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale società: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla società controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca>>.

Il tenore della norma (“conseguiti o fondatamente prevedibili”) conforta tale conclusione.

La quale è confermata pure dalla norma civilistica corrispondente (art. 2497 c.1 ult. periodo, cc): <<Non vi e’ responsabilita’ quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette>>. Una volta provato il danno alla società, per affermare la mancanza di esso (sin da subito o dopo specifiche operazioni) bisogna analogamente individuare e provare specifici vantaggi: come avviene con l’istituto della compensazione civilistica. Si tratta infatti di un caso di compensatio lucri cum damno.

Individuazione che, secondo la regola generale dell’art. 2697 cc, costituisce fatto estintivo della pretesa risarcitoria avanzata dalla società: quindi gravante sull’amministratore.

La norma penale (il c. 3 cit. ) però non è ben formulata . Da un lato pare riferire il profitto alla società collegata o al gruppo, invece che  all’amminstratore (o a terzi generici) ,  come avviene nel c. 1. Dall’altro lato, compensa questo fine di profitto per altra società (o gruppo) col danno della società da lui amministrata. Invece, stante l’autonomia delle società appartenenti al gruppo (ribadita dalla SC in esame), la compensazione, per escludere l’infedeltà patrimoniale, dovrebbe avvenire tra poste passive e attive riferite esclusivamente alla società da lui amministrata (come avviene nella formulazione della norma civilistica)