Breve ma denso saggio su Nature intorno alla brevettabilità delle ivnenzioni prodotte da intelligenza artificiale: è meglio una legge ad hoc

Breve ma interessante intervento su Nature circa il tema in oggetto (George A.-Walsh T., Artificial intelligence is breaking patent law, Nature, 24.05.2022).

In tre pagine gli aa. illustrano efficacemente lo stato dell’arte.

Ritengono sia meglio una legge ad hoc che un’integrazione delle disposizioni esistenti.

Significativo è il ragionamento sui rapporti internazionali, sopratuttto in relazione agli Stati importatori di tecnologica che hanno poche risorse per pagare le licenze (e il caso dei vaccini anti covid19).   Propongono allora un trattato interenazinale

E’ proteggibile come copyright il claim pubblicitario che elabora un marchio altrui?

La risposta è negativa qualora la componente creativa non sia separabile/distinguibile dal marchio denominativo alla base.

Si tratta del noto claim  << 500%Fiat >>,  che si appoggia sul marchio/denominazione sociale della nota casa automobilistica.

La Cassazione , sez. 1, con sentenza 8276 del 14.03.2022, rel. Fraulini ha in tale senso osservato: <<Del resto, riguardato in via generale, Nell’ipotesi in cui il messaggio pubblicitario faccia riferimento a marchi particolarmente noti e comunque esposti all’ammirazione del pubblico, è evidente che ciò che si cerca di ottenere è l’effetto di trascinamento che, nel costume sociale, è riconnesso alla commercializzazione dei prodotti che recano il detto marchio. Una tecnica di marketing ormai estremamente diffusa, che riguarda non solo le persone fisiche che sovente prestano la loro notorietà a beneficio del prodotto sponsorizzato, ma anche gli slogan che, in tutto o in parte, contengono al loro interno il riferimento essenziale alla notorietà del marchio cui alludono. E tanto accade perché il messaggio pubblicitario viene veicolato facendo leva proprio sulla notorietà, sulla diffusione, sul successo o sulla fama del claim in esso rappresentato.    Di talché è ben vero che, nell’accoppiamento dell’elemento notorio con il quid pluris del messaggio, tale elemento innovativo potrebbe astrattamente essere qualificato come innovativo, siccome certamente non comunemente associato all’elemento noto. Ma certamente, in astratto, la necessità che il claim debba essere valutata nella sua complessità può certamente condurre il giudice del merito, cui in concreto spetta l’accertamento caso per caso, a concludere nel senso dell’inscindibilità del claim, siccome derivante da un motivato accertamento che, senza l’effetto di trascinamento dell’elemento notorio, il messaggio pubblicitario non avrebbe alcuna capacità evocativa nel consumatore del settore.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha congruamente motivato nel senso che nel claim in esame l’elemento notorio (marchio notorio Fiat) era inscindibilmente collegato all’altra parte del claim (la percentuale allusiva), siccome peraltro riferita a un modello di vettura di grandissima fama nell’ambito della gamma di prodotto della società. Di talché solo combinando i due fattori, il claim poteva elficamente divenire veicolo di comunicazione nei settori specializzati, come presso il grande pubblico, che non recepirebbe il messaggio pubblicitario convogliato tramite una sola parte (non allusiva al marchio notorio) del claim in esame.

Può quindi pronunciarsi il principio di diritto secondo cui: “In tema di diritto di autore, la rivendicazione, ai sensi della L. n. 633 del 1941, art. 2, n. 4, (legge sul diritto d’autore), del diritto di privativa per intervenuta registrazione di un messaggio pubblicitario (cd. slogan) postula che sia dimostrata l’originalità del creato, da escludersi in ipotesi di utilizzazione, nel medesimo messaggio, del riferimento a marchi già registrati e dotati di determinante capacità evocativa, sì che quel collegamento, per la sua forza evocativa autonoma, faccia venir meno la parte creativa del claim ed escluda l’elemento innovativo.>>

A nulla , concluide la SC, che la riforma del 2001 (d. lgs. 95 del 2001, art. 22) abbia tolto il requisito della scindibilità dala testo dell’artg. 2 n. 4 l. aut.

Precisazioni sul rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. , sez. III, 21.03.2022 n. 9.006, rel. Scarano, offre qualche precisaizone sull’oggetto, peraltro di corrente accettazione:

<<successivamente all’emanazione della suindicata L. n. 124 del 2017, si è da questa Corte sottolineato che in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento del danno biologico, quale pregiudizio che esplica incidenza sulla vita quotidiana e sulle attività dinamico-relazionali del soggetto, e di un’ulteriore somma a titolo di ristoro del pregiudizio rappresentato dal danno morale, quale sofferenza interiore sub specie di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione (v. Cass., 19/2/2019, n. 4878).

A tale stregua, si è da questa Corte precisato che, successivamente alla personalizzazione del danno biologico (specificamente disciplinata in via normativa (art. 138, n. 3 nuovo testo c.d.a.: “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale… può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%”), il danno biologico risultando normativamente definito (art. 138, punto 2 lett. a) quale “”lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato)), il danno morale -ove dedotto e provato- deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione, giusta il disposto di cui all’art. 138, punto 2, lett. e), nuovo testo C.d.A. (“al fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico… è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”), con il quale si è dal legislatore elevato a fonte normativa il principio da questa Corte da tempo affermato dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma danno morale non è suscettibile di accertamento medico-legale sostanziandosi nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende dinamico-relazionali della vita (che pure può influenzare) del danneggiato (v. Cass., 10/11/2020, n. 25164; Cass., 19/2/2019, n. 4878).>>

L’editorial judgment delle piattafrome social , in quanto esercizio del diritto di parola, è coperto dal Primo Emendamento

E’ stata data la notizia circa la sentenza di appello 23 maggio 2022 dell’11 circuito, USCA11 Case: 21-12355 , Netchoice LLc e altri c. ATTORNEY GENERAL, STATE OF FLORIDA (link fornito da varie fonti), circa la legittimità di una legge della Florida regolante e vincolante in vario modo le piattaforme social.

Soprattuto tre son i vincoli contestati:

i) restrizioni sulla content-moderation, ( p. 10);

ii) obblighi di disclosure (p. 12);

iii) obbligo di  fornire i dati all’utente in caso di deplatforming  (p. 13; disposzione invero molti interessante e probabilmente da accogliere, visti i recenti casi italiani di distruzioni immotivate del materiale postato negli anni dall’utente medesimo)

La corte di appello dell’11° circuito, adita dalle piattaforme la ritiene sostanzialmente incostituzionale, in quanto troppo inibente la freedom of speech tutelata dal Primo Emendamento.

Il presupposto , importante, è che le piattafforme sono soggetti privati titolari appunto dei diritti da First Amendement: <<The question at the core of this appeal is whether the Facebooks and Twitters of the world—indisputably “private actors” with First Amendment rights—are engaged in constitutionally protected expressive activity when they moderate and curate the content that they disseminate on their platforms. The State of Florida insists that they aren’t, and it has enacted a first-of-its-kind law to combat what some of its proponents perceive to be a concerted effort by “the ‘big tech’ oligarchs in Silicon Valley” to “silenc[e]” “conservative” speech in favor of a “radical leftist” agenda. To that end, the new law would, among other things, prohibit certain social-media companies from “deplatforming” political candidates under any circumstances, prioritizing or deprioritizing any post or message “by or about” a candidate, and, more broadly, removing anything posted by a “journalistic enterprise” based on its content. USCA11 Case: 21-12355 Date Filed: 05/23/2022 Page: 3 of 674 Opinion of the Court 21-12355

We hold that it is substantially likely that social-media companies—even the biggest ones—are “private actors” whose rights the First Amendment protects, Manhattan Cmty., 139 S. Ct. at 1926, that their so-called “content-moderation” decisions constitute protected exercises of editorial judgment, and that the provisions of the new Florida law that restrict large platforms’ ability to engage in content moderation unconstitutionally burden that prerogative. We further conclude that it is substantially likely that one of the law’s particularly onerous disclosure provisions—which would require covered platforms to provide a “thorough rationale” for each and every content-moderation decision they make—violates the First Amendment.

Accordingly, we hold that the companies are entitled to a preliminary injunction prohibiting enforcement of those provisions. Because we think it unlikely that the law’s remaining (and far less burdensome) disclosure provisions violate the First Amendment, we hold that the companies are not entitled to preliminary injunctive relief with respect to them>>

Sul conflitto tra editorial judgment/diritto di free speech in capo alle piattaforme social, da una parte, e diritto dello stato di chiedere conto dei criteri seguiti nella content moderation, dall’altro,  v. l’interessante saggio “Rereading Herbert v. Lando” di E. Douek-G. Lakier, 26 maggio 2022 , richiamante la cit. decisione della Suprema Corte del 1979.

Sulla legge della Florida v. Calvert, First Amendment Battles over Anti-Deplatforming Statutes: Examining Miami Herald Publishing Co. v. Tornillo’s Relevance for Today’s Online Social Media Platform Cases, NY Univ. law review-online, aprile 2022.

Ancora sull’applicabilità del safe harbour ex § 230 CDA alla rimozione/sospensione di contenuti dell’attore

In un  caso di lite promossa da dissidente dal governo arabo a causa della mancata protezione del proprio account da hacker governativi arabi e successiva sua sospensione, interviene il distretto nord della california 20.05.2022m, case 3:21-cv-08017-EMC, Al-Hamed c.- Twitter e altri. 

Le domanda proposte erano molte: qui ricordo solo la difesa di Tw. basata sull’esimente in oggetto.

La corte concede a Twitter il safe harbour ex § 230.c.1,  ricorrendone i tre requisiti:

– che si tratti di internet service provider,

– che si qualifichi il convenuto come publisher/speaker,

– che riguardi contemnuti non di Tw. ma di terzi .

E’ quest’ultimo il punto meno chiaro (di solito la rimozione/sospensione riguarda materiale offensivo contro l’attore e caricato da terzi)  : ma la corte chiarisce che la sospensione di contenuti del ricorrente è per definizione sospensione di conteuti non di Tw e quindi di terzi (rispetto al solo  Tw. , allora, non certo rispetto all’attore).

Ricorda però che sono state emesse opinioni diverse: <<Some courts in other districts have declined to extend Section 230(c)(1) to cases in which the user brought claims based on their own content, not a third party’s, on the ground that it would render the good faith requirement of Section 230(c)(2) superfluous. See, e.g., e-ventures Worldwide, LLC v. Google, Inc., No. 2:14-cv-646-FtM-PAM-CM, 2017 WL 2210029, at *3 (M.D. Fl. Feb. 8, 2017). However, although a Florida court found the lack of this distinction to be problematic, it also noted that other courts, including those in this district, “have found that CDA immunity attaches when the content involved was created by the plaintiff.” Id. (citing Sikhs for Just., Inc. v. Facebook, Inc., 697 F. App’x 526 (9th Cir. 2017) (affirming dismissal of the plaintiff’s claims based on Facebook blocking its page without an explanation under Section  230(c)(1)) >> (e altri casi indicati).

Si tratta del passaggio più interessante sul tema.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman).

E’ un credito , e non un diritto reale sui beni di impresa, il diritto del coniuge non imprenditore nella comunione de residuo ex art. 178 cc

Sono intervenute le sezioni unite sul tema in oggetto: Cass. Sez. un., 17.05.2022 n. 15.889 , rel. Criscuolo.

L’iter argomentativo è in sostanza questo:

 <<  7.3 Ritiene il Collegio che le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducano a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, come già evidenziato nell’illustrazione delle posizioni della dottrina.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l’intero all’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con la conseguente dimidiazione della garanzia patrimoniale dai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.

Ancora, appare priva di intrinseca razionalità la conclusione che si ricollega alla tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

Ne’ va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.

Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.

Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implica sempre la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto (si pensi all’ipotesi in cui dal matrimonio non siano nati figli, con la successione dei fratelli del de cuius, o l’individuazione di eredi terzi rispetto alla famiglia, nei limiti della disponibile).

D’altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell’avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Peraltro gli stessi fautori della tesi della natura reale del diritto ritengono in maggioranza che la comunione non insorga automaticamente sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi, nozione questa che sfugge alla costituzione di una contitolarità, presupponendo un calcolo di carattere economico), affermazione questa che per essere resa coerente con la premessa da cui si parte implicherebbe che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore. Il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è però un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, premessa questa che implica l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.

Il potenziale attentato che la tesi della natura reale è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell’impresa del coniuge denota altresì come siffatta opzione ermeneutica si ponga in controtendenza con l’esigenza, fortemente sostenuta a livello sovranazionale, ed in particolare unionale, di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, come appunto testimoniato dalla scelta legislativa, in vista dell’evento morte dell’imprenditore, compiuta con la previsione del cd. patto di famiglia (art. 768 bis e ss., introdotti dalla L. n. 55 del 2006).>>

Si tratta dunque di motivazione basata soprattutto sugli inconvenienti che produrrebbe l’opposta tesi del diritto di comproprietà.

Di fronte all’argomento contrario più forte (quello letterale), così replicano le S.U.:

<< 7.3 Ritiene il Collegio che le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducano a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, come già evidenziato nell’illustrazione delle posizioni della dottrina.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l’intero all’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con la conseguente dimidiazione della garanzia patrimoniale dai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.

Ancora, appare priva di intrinseca razionalità la conclusione che si ricollega alla tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

Ne’ va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.

Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.

Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implica sempre la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c., tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto (si pensi all’ipotesi in cui dal matrimonio non siano nati figli, con la successione dei fratelli del de cuius, o l’individuazione di eredi terzi rispetto alla famiglia, nei limiti della disponibile).

D’altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell’avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Peraltro gli stessi fautori della tesi della natura reale del diritto ritengono in maggioranza che la comunione non insorga automaticamente sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi, nozione questa che sfugge alla costituzione di una contitolarità, presupponendo un calcolo di carattere economico), affermazione questa che per essere resa coerente con la premessa da cui si parte implicherebbe che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore. Il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è però un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, premessa questa che implica l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.

Il potenziale attentato che la tesi della natura reale è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell’impresa del coniuge denota altresì come siffatta opzione ermeneutica si ponga in controtendenza con l’esigenza, fortemente sostenuta a livello sovranazionale, ed in particolare unionale, di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, come appunto testimoniato dalla scelta legislativa, in vista dell’evento morte dell’imprenditore, compiuta con la previsione del cd. patto di famiglia (art. 768 bis e ss., introdotti dalla L. n. 55 del 2006).>>

Principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data“.

Altra conferma (d’appello) che Twitter non è “State actor”, per cui nei suoi confronti non opera la protezione costituzionale del diritto di parola

Altra conferma che le piattaforme digitali non sono State actors ai fini della protezione da Primo  Emendamento: così Appello del 9 circuito, Rutenberg. c. Twitter e Dorsey , 18 05.2022, D.C. No. 4:21-cv-00548-YGR.

Motivazione breve , che conferma il primo grado:

<< The district court properly dismissed Rutenberg’s First Amendment claim: She did not allege sufficient facts to infer that the defendants (collectively, “Twitter” or “the company”) engaged in state action when the company moderated or suspended the former President’s Twitter account. The First Amendment’s Free Speech Clause “prohibits the government—not a private party—from abridging speech.” Prager Univ. v. Google LLC, 951 F.3d 991, 996 (9th Cir. 2020) (citations omitted). Dismissal was proper because the complaint lacked “a cognizable legal theory” or “sufficient well-pleaded, nonconclusory factual allegation[s]” to state a  plausible claim for relief. Beckington v. Am. Airlines, Inc., 926 F.3d 595, 604 (9th Cir. 2019) (internal quotation marks and citations omitted).

Rutenberg offers insufficient facts to infer the “close nexus” between Twitter’s conduct on the one hand and the government on the other, which is required to find that Twitter’s conduct constituted state action. Brentwood Acad. v. Tenn. Secondary Sch. Athletic Ass’n, 531 U.S. 288, 295 (2001). To the contrary, Rutenberg acknowledges that Twitter exercised its own “discretion and authority” in moderating President Trump’s account, and that Twitter acted as President Trump’s “opponent” in doing so. Twitter was not a “willful participant” in any “joint activity” with the President, and its conduct was not state action. Lugar v.
Edmondson Oil Co., Inc.
, 457 U.S. 922, 941 (1982) (quoting United States v. Price, 383 U.S. 787, 794 (1966)). Rutenberg’s contention that Twitter “abused” a delegation of authority when it moderated President Trump’s account is of no moment. This “abuse of authority” doctrine “does not apply” where, as here, “the
challenged action is undertaken by a private party rather than a state official.”
Collins v. Womancare, 878 F.2d 1145, 1152 (9th Cir. 1989) (emphasis omitted) (citing Lugar, 457 U.S. at 940). Indeed, it would be “ironic” to conclude that Twitter’s imposition of sanctions against a public official—sanctions the official “steadfastly opposed”—is state action. Nat’l Collegiate Athletic Ass’n v. Tarkanian, 488 U.S. 179, 199 (1988). >>

E del resto non ci fu alcuna delega dal presidente Trump a Tw. (chissà cosa aveva allegato l’attrice!!): << Similarly, President Trump did not delegate a “public function” to Twitter within the meaning of Supreme Court and circuit precedent. Halleck, 139 S. Ct. at 1929. The relevant function here—moderating speech on the Twitter platform—is not “an activity that only governmental entities have traditionally performed.” Id. at 1930; see also id. (“[M]erely hosting speech by others is not a traditional, exclusive public function . . . .”); Prager Univ., 951 F.3d at 998 (moderation of content on video-streaming platform was not a “public function”) >>

Si noti che l’attrice si doleva della rimozione ingiustificata dell’account Tw. non proprio ma del presidente Trump.

(notizia  e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Impugnazione di delibera del Cda da parte del socio: sul concetto di “deliberazioni lesive dei loro diritti” ex art. 2388 c. 4 c.c.

L’ottimo sito ilcaso.it dà notizia dell’interessante decisione cautelare sull’oggetto (Trib. Catanzaro RG 469/2022 del 27.04.22, giudice F. Rinaldi), che decide su  domanda di sospensione dell’esecuzione ex art. 2378/3 cc, pacificamente applciabile anche alle delibere del Cda (v. pure l’espresso richiamo nell’art. 2388).

Il socio ha legittimazione solo se la delibera lede “un suo diritto”.

Importante è la precisazione del Tribunale che ciò non avviene con la semplice violazione di legge o statuto (dovendo in tale caso semmai agire per revocare l’amminsitratore o gli ammiusntratori.).

Bisogna che ci sia invece una violazione diretta di un suo diverso diritto patrimoniale (anzi, non solo tale, direi): il Tribunle richiama l’analoga disposizione di cui all’rt. 2395 cc. Si v. i precedenti in tale senso citati a p. 5

Due sono le censure prospettate in causa e poi respinte.

1° – non costituisce tale lesione la violazione dell’iter procedimentale statutario che porta alla delibera << A ben vedere gli articoli sopra richiamati, che, secondo la prospettazione attorea, sarebbero stati violati con le delibere impugnate, cagionando un danno “diretto” al socio ricorrente, rappresentano delle disposizioni volte a regolare la costituzione ed il sistema di decisione dell’organo ammnistrativo della società convenuta.
Invero, come eccepito anche dalla difesa della occorre osservare – al fine di verificare l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla ricorrente ex art. 2388 c.c. – che, a fronte della dedotta violazione del disposto degli artt. 10.2. e 10.10 dello Statuto, è configurabile un generale interesse alla regolarità delle deliberazioni consiliari in conformità allo statuto e alla legge ma non anche un diritto del singolo socio direttamente pregiudicato.
Come già evidenziato, infatti, l’art. 10.2 dispone che la delibera che nomina i consiglieri di amministrazione deve indicare il socio che ha nominato l’amministratore mentre l’art. 10.10 dispone che le delibere consiliari sono valide solo se prese con il voto dei due amministratori nominati dai due diversi soci.
Alla luce del chiaro di tali articoli dello Statuto è, pertanto, evidente che l’unico interesse che potrebbe considerarsi leso è quello sociale e non, invece, un eventuale diritto partecipativo o amministrativo del singolo soci
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2°  – Nemmeno scelte gestionali scconsiderate costituiscono lesione del diritto del socio : << Infine, ritiene il Tribunale che non è condivisibile neppure l’assunto attoreo secondo il quale la legittimazione del socio ad impugnare ex art. 2388 c.c. discenderebbe dal fatto che sarebbe stato leso il diritto di “ad evitare l’adozione da parte del Consiglio di Amministrazione di scelte imprenditoriali sconsiderate che espongono a gravissimi pregiudizi…” come anche non è condivisibile l’affermazione per la quale la legittimazione deriverebbe dalla necessità di impugnare la nomina di un difensore della che si troverebbe in una situazione di conflitto di interessi.
Come evidenziato anche dalla difesa della società resistente, tali allegazioni non consentono di individuare il diritto patrimoniale, partecipativo o amministrativo leso del singolo socio ricorrente trattandosi, pure sotto questo aspetto, di doglianze espressione di un interesse sociale alla regolarità delle deliberazioni consiliari che devono essere prese in conformità allo statuto e alla legge, con conseguente impossibilità di riconoscere in favore del socio ricorrente il diritto ad impugnare le delibere consiliari oggetto di controversia.
Invero, per quanto già sopra esposto, il nostro ordinamento non consente al singolo socio di una società di capitali di opporsi ad una decisione del consiglio di amministrazione lamentando una qualche violazione da parte degli amministratori di una norma prescrittiva di fonte legale o statutaria che disciplini l’attività sociale in genere ma solo qualora tali violazioni, incorporate in una delibera, pregiudichino proprio il diritto del singolo socio ricorre
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Ora, la legge tace sul se debba trattarsi di lesione “diretta” di un diritto del socio e sul tipo di  diritto leso che permetta l’impugnazione.

Se sulla soluzione della seconda questione si può concordare, su quella della prima potrebbe sorgere  qualche dubbio.  La irregolarità procedimentale è in teoria una violazione di un diritto del socio: non si può infatti negare che esista un suo diritto alla corretta esecuzione del contratto di amministrazione , la quale a sua volta implica il dovere di gestire l’impresa secondo le regole di legge e statutarie.

La società è infatti una rete di contratti (nexus of contracts). Tale ricostruzione deve prevalere sul velo della distinzione soggettiva , quando non vi siano esplicite o implicite disposizioni ostative (come ad es, responsabilità limitata, identificazione del soggetto da citare in giudizio o destinatario di dichiarazioni recettizie, divieto di concorrenza etc.).

Però , a ben vedere, ciò toglierebbe d’un tratto il cit. velo della persona giuridica (il rapporto è formalmente tra amministratore e società) e rischierebbe di ingolfare le corti di cause.

Alla fine quindi il giudice catanzarese ha probabilmente deciso bene, almeno in fase cautelare. Un approfondimento maggiore in sede di decisione di merito, invece, potrebbe portare ad esito diverso (la giurisprudenza ivi ricordata è  del tutto contraria a questa ipotesi).

Sul risarcimento del danno da violazione di copyright (art. 158 legge d’autore)

Interviene con buon dettaglio sul tema in oggetto Cass. sez. I ord. n. 39762 del 13.12.2021 rel. Scotti (caso Mondadori-Saviano: l’attore originario – editore locale campano- aveva lamentato  l’illecita riproduzione di propri articoli).

Vediamo in passaggi più significativi:

– <2.6. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno da lucro cessante e resta a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Sez. 3, n. 8730 del 15.4.2011, Rv. 617890 01; Sez. 1, n. 14060 del 7.7.2015, Rv. 635790 – 01), a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (come ha avuto cura di precisare Sez. 1, n. 12954 del 22.6.2016, Rv. 640103 – 01)>.

Affermazione poco coerente con la disciplina comune civilsitica e che andrebbe spiegata.

– <2.7. Questa Corte, con l’ordinanza n. 21833 del 29.7.2021, ha recentemente affrontato in modo sistematico l’interpretazione delle regole fissate dall’art. 158 l.d.a. in tema di determinazione e quantificazione del danno conseguente alla violazione del diritto d’autore, chiarendo che:

a) il risarcimento del danno è liquidato nel rispetto degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., disposizione questa fin anche pleonastica, che serve solo a manifestare espressamente l’esigenza del rispetto delle regole comuni di liquidazione del danno, quanto a nesso causale, potere di liquidazione equitativa e concorso del fatto dello stesso debitore;

b) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’art. 2056 c.c., comma 2, ossia “con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, dunque ancora una volta ex art. 1226 c.c., cui si aggiunge però l’indicazione di un parametro esplicito, relativo agli “utili realizzati in violazione del diritto”;

c) è prevista infine la possibilità di liquidazione “in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”.

La norma prevede quindi due criteri alternativi, iscritti entrambi nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; anche se non è scandito esplicitamente un ordine rigido di preferenza fra i due criteri, l’espressione utilizzata dal Legislatore (“quanto meno”) sta ad indicare che il criterio del cosiddetto “prezzo del consenso” di cui al terzo periodo del comma 2, (detto anche della “royalty virtuale”) rappresenta una soglia minima della liquidazione.

Si è dunque osservato che due criteri si pongono come cerchi concentrici, in cui il secondo permette una liquidazione minimale, mentre il primo, che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente aumentati dai ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato.>

Che la royalty ragionevole sia il minimo , la legge non lo dice e pure questo è poco coerente con la disciplioa comune, in assenza di dato testuale; per cui l’affermaziuobne andrebbe meglio argomentata.

– <2.13. Si è detto in precedenza che il criterio del prezzo del consenso ha natura sussidiaria e residuale.

In tal senso si impone una interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Europea che per le violazioni dolose o colpose pretende che l’entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall’autore della violazione e considera solo come alternativa – da esperirsi ad esempio, in caso di difficoltà di determinazione dell’importo dell’effettivo danno subito la parametrazione dell’entità dal risarcimento alla royalty virtuale.

Il diritto Europeo esige infatti un risarcimento effettivo e proporzionalmente adeguato, calibrato su di una accurata considerazione di tutti gli elementi specifici e pertinenti del caso, tra i quali debbono essere inclusi il mancato guadagno subito dalla parte lesa e i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione.

Che gli utili realizzati dal contraffattore siano un criterio fondamentale nella liquidazione completa ed effettiva del danno è dimostrato anche dal paragrafo 2 dell’art. 13 della Direttiva che permette agli Stati membri di disporre il recupero dei profitti fin anche nel caso di violazioni non dolose o colpose (violazioni c.d. inconsapevoli).

Le disposizioni della legge nazionale sono ispirate allo stesso criterio, come sopra ricordato, con l’inequivoco impiego della formula “quanto meno”, che colora il criterio alternativo del prezzo del consenso con il tratto della residualità.

In questo senso, sia pur con riferimento all’art. 125 c.p.i., comunque riconducibile anch’esso alla matrice della stessa disposizione della Direttiva enforcement, è stato osservato nella recente giurisprudenza di questa Corte che il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore dei risarcimento del danno liquidato in via equitativa e che però esso non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 5666 del 2.3.2021, Rv. 660575 – 01).

2.14. Tale scansione preferenziale fra i due criteri ben si comprende, ove ci si soffermi a riflettere sull’esigenza di un pieno, completo ed effettivo ristoro risarcitorio del danno subito dal titolare di un diritto di proprietà intellettuale o industriale, perseguito dalla Direttiva Europea e si consideri la ratio del criterio del “prezzo del consenso”.

Questo criterio infatti finisce con l’imporre al contraffattore o al plagiario il pagamento all’esito del contenzioso di quello stesso importo che avrebbe potuto pattuire in via negoziale ove si fosse comportato correttamente, tanto che la giurisprudenza merito, tenuto conto del riferimento normativo al limite minimo indicato dalla norma e dell’esigenza di evitare la “premialità” di tale tecnica liquidatoria per il contraffattore, ritiene equa una congrua maggiorazione dell’importo rispetto alle tariffe di mercato.>

Solo che la legge prescrive il <quanto meno> solo per il prezzo del consenso e non per il risarcimento ordinario.