Sulla decadenza per non uso di marchio celebre

La Corte di Giustizia UE (poi: CG) risponde ad alcune questioni pregiudiziali sulla decadenza per non uso di marchio celebre (il TESTAROSSA di Ferrari) proposte da giudice di secondo grado di Dusseldorf.

Si tratta di GC 22.10.2020, C-720/18 e 721/18 cause riunite, Ferrari spa c. DU.

Il diritto pertinente è l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2008/95/CE.

Il marchio è:

Vi si leggono utili precisazioni su un istituto che appare sempre più utilizzato e dunque importante per motivi pratici.

Sulle questioni 1 e 3: è uso effettivo di un marchio, registrato per molti prodotti e per relativi pezzi di ricambio, anche l’uso solamente per alcuni di tali prodotti (auto sportive di alta gamma) e per i ricambi, § 53.

Sulla questione 2: è uso effettivo anche la rivendita di prodotto usato, se da parte del titolare e col marchio sub iudice, § 60.

Sulla questione 4: è uso effettivo del marchio per i prodotti registrati anche l’uso dello stesso nella prestazione di servizi , se direttamente relativi a tali prodotti, § 61-64 (punto impoorrtante perchè talora fonte di incertezze applicative).

Sulla questione 6:  l’onere della prova dell’uso effettivo grava sul titolare della registrazione. La dir. 2008/95 non contiene disposizione ad hoc, se non il cons. 6 che afferma la libertà nazionale circa le << disposizioni procedurali relative alla registrazione, alla decadenza o alla nullità dei marchi>> (la GFermania ha disposizioni specifiche).

Però, dice la CG, la disciplina dell’onere della prova non rientra in tale concetto, § 77: infatti bisogna che esista un regime europeo unitario e che questo gravi il titolare della prova dell’uso uso effettivo, §§ 79-82.

Si anticipa dunque il regime attuale: v. l’art. 121 c. 1  cpi (dopo la modifica apportata dal d. lgs. 15 /2019) , attuativo dell’art. 17  dir. 15/2436 (dal tenore però leggermente diverso, che induce a dubitare dell’esattezza della nostra attuazione).

Copyright, fair use e riproduzione di post contenente fotografia protetta

Un’editore di notizie sportive, che in un articolo riproduce un post su Instagram della tennista Caroline Wozniacki , annunciante il suo ritiro e contenente una fotografia che la rappresenta, viola il copyright sulla foto o invece costituisce fair use?

E’ giusta : costituisce fair use, secondo la U.S. D.C. Easter Distric di N.Y,, 02.11.2020, M. Barrett Boesen c. United Sports Publications, n°20-CV-1552 (ARR) (SIL) .

Ne ricorrono i requisiti:

  1. non è  pedissequa riproduzione ma tranformative use, Discusssion I.A;
  2. la natura dell’opera, informativa e creativa, induce a tanto, ivi, sub B;
  3. quantità della riprduzione: l’editore si è limitato a riprodurre tutto il post, che a sua volta tagliava la foto originale, ivi sub C;
  4. non cè concorrenza tra l’uso censurato e quello che può fare l’autore, ivi sub D.

La domanda del fotografo danese Boesen, dunque,. va rigettata.

L’articolo incriminato dovrebbe essere questo .

La disposizione sul fair use è il § 107 del titolo 17 del US Code.

Su streaming musicale, opere derivate, public performance e safe harbour

La corte di Atlanta si pronuncia su una lite promossa dalle major musicali contro un sito di download musicali via streaming.

Si tratta di Corte Distrettuale del Northern District della Georgia, divisione di Atlanta, 30.11.2020, Atlantic recording corporation e altri c. Spinrilla e I.D. Copeland (il fondatore), CIVIL ACTION NO. 1:17-CV-00431-AT.

Le major agiscono contro questi sito web di upload e download di musica hiphop, per lo più nella forma di raccolte (mixtape).

la lunga sentenza è divisa in due parti sotto il profilo sostanziale, dopo la parte in fatto. Di quest’ultima ricordo solo : – il cenno al software di filtraggio Audible Magic portato all’attenzione della convenuta da UMG recordings, uno degli attori,  P. 5; – , e i suggerimenti dati dal fondatore Copeland ai cosiddetti D.J. di rallentare la velocità per superare il filtro: allo scopo, secondo lo stesso Copeland, di trasformare l’opera in opera diversa da quella segnalata, p. 6.

Nella prima parte (sub III, p. 11) , oltre alla questione della necessità o meno del profilo soggettivo, esamina se ricorra  public performance nella mera messa a disposizione  e cioè senza attendere il download: e la risposta è positiva, come ovvio (v. spt. 33-34). Soluzione scontata anche da noi, visto l’art. 16 c.1 ult. parte l. aut.

Nella seconda parte esamina l’eccezione di esimente per safe harbour ex § 512 DMCA (sub IV, p. 34 ss).

Il safe harbour però sortisce solo all’esito di una fattispecie ricca di elementi costitutivi.

A p. 36 ss sono ricordati ed esamnati. Qui segnalo il fatto che la conoscenza effettiva o doverosa da allarme  (red flag) devono riferirsi a <fatti specifici>, p. 36 : cosa spesso dimenticata dai nostri studiosi e giudici .

Inoltre devono ricorrere dei requisiti formal/procedurali: cosa apparentemente banale ma necessaria per fruire dello safe harbour.

Precisamente il provider deve aver designato un agent per ricevere le notificazioni: p. 37 e § 512(c)(2).

INoltre deve anche aver adottato e ragionevolemente attuato una policy contro i violatori seriali (repeat infringer), p. 38 e § 512 (i)(1).

La corte si dilunga su cosa ciò significi, p 39 ss.

Quantomeno significherà che un service provider <<must respond to notifications or red flag knowledge of recurrent instances of specific  nfringement. Id. More clearly, a service provider loses the safe harbor defense if it enables users to evade detection of copyright infringement. See Aimster, 334 F.3d at 655 (holding that the defendant did not reasonably implement a repeat infringer policy when it invited users to infringe plaintiff’s copyrights and showed them how to encrypt their files for distribution in order to evade detection of copyright infringement). Service providers must also keep adequate records of users who commit copyright infringement in order to adequately implement a repeat infringer policy>>, p. 40-41.

Purtroppp Spirilla si adeguò ai due citt. requisiti (designated agent + policy per repeat infrigner) solo nel luglio 2017, p. 42.

Per questo motivo il safe harbour viene negato fino a quella data, p. 43.

Gli attori afermano che anche per il periodo successivo non spetta il safe harbour: ma la Corte ricorda che, come che sia, manca a monte il repsupposto della relativa notiica di take down notice, p. 44-45.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog del prof. Eric Goldman)

Marketplace di Amazon, § 230 e prodotti pericolosi

Poco comprensibile decisione statunitense di una lite relativa a responsabilità da prodotto difettoso. Si tratta di US Distr. Court-South D. of New York, 30.11.2020, Brodie c. Green Spot Foods, Amazon services ed altri,  caso n° 1:20-cv-01178-ER.

La sig.ra Brodie aveva acquistato su Amazon (poi: A.) un prodotto alimentare , sostitutivo della pasta, chiamato <Better than Pasta> , a base di radici orientali dette <konjak>. Il venditore era tale Green Spot Foods.

Il prodotto si era rilevato pericoloso, dato che aveva creato non piccoli problemi di salute all’acquirente.

Qui riporto sul problema della (cor-)responsabilità di A.

Il giudice accoglie la domanda per negligence e per breach of implied warranty  (claim I e II); la rigetta per il claim III (breach of express warranty); la rigetta pure per <Deceptive Practices and False Advertising Under N.Y. Gen. Bus. Law §§ 349 and 350> (claim IV), p. 11 ss

Qui interessa quest’ultimo (claim IV).

La domanda di pratica ingannatoria viene rigettata sulla base del safe harbour costituito dal § 230 CDA: disposizione che esenta da responsabilità il provider per informazioni provenienti da terzi e divulgate tramite la sua piattaforma.

Dice così la corte: <<In line with these cases, the Court inds that Amazon is immune under the CDA. The parties do not dispute that Amazon qualifies as a provider of an interactive computer service. Instead, the question is whether Amazon can be considered an information content provider with respect to Better than Pasta’s advertising, and the Court inds that it is not. There is insufficient factual pleading supporting the plausible inference that Amazon itself created or edited any of the Better than Pasta advertising content. Brodie alleges that Green Spot is “the primary entity responsible for” the product’s advertising and manufactured, packaged, and initially created all advertising for the product. … Further, while Brodie asserts that the BSA handed Amazon editorial control over what Green Spot materials were published,  ….. Brodie does not allege that Amazon actually exercised this control to alter or modify advertising materials received from Green Spot, nor alleges facts giving rise to such an inference>>.

Solo che poco sopra (p. 5 nota 3 e testo relativo) il giudice aveva preso per buona la concorde qualificazione  per cui A. è un retailer (rivenditore/dettagliante) e cioè dante causa della sig.ra Brodie. Ciò probabilmente per l’intenso coinvolgimento di A. nella gestione della presenza sul marketplace e delle vendite.

Ora, se A.  è rivenditore, non si vede come possa dirsi che l’informazione difettosa sul prodotto (il mancato avviso della sua rischiosità/pericoosità) provenga dal terzo venditore. E’ infatti A., in thesi, colui che vende al consumatore: pertanto le informazioni di ciò che vende vanno a lui ricondotte, anche se si fosse in toto affidato (de relato) ai contenuti informativi provenienti dal venditore operante sul suo marketplace.

Si tratta infatti di content provider: <<The term “information content provider” means any person or entity that is responsible, in whole or in part, for the creation or development of information provided through the Internet or any other interactive computer service.>>, § 230 (f)(3) CDA

Primo Emendamento e censura da parte di Google-Youtube

Un tribunale dell’Oregon decide la lite inerente una presunta violazione del diritto di parola (coperto dal Primo Emendamento) in relazione a post di commento ad articoli apparsi su Breitbart News: si tratterebbe di violazione ad opera di Google-Youtube (è citata pure Alphabet, la holding).

L’istante allegava la violazione del diritto di parola e poi pure del safe harbour ex § 230 CDA.

Sul secondo punto la corte rigetta in limine dato che non è stata prospettata alcuna violazione della citata normativa, trattandosi di safe harbour.

Sul primo punto, ribadisce l’orientamento prevalente per cui un forum privato (per quanto importante, aggiungo io) non costituisce <ambiente statale> (non vale “State action”) e per questo non è soggetto al PRIMO EMENDAMENTO. Tale  disposizione costituzionale, infatti, riguarda solo l’azione dello Stato.

<<Thus, fundamental to any First Amendment claim is the presence of state action …  Neither Alphabet, nor its subsidiaries, Google and YouTube, are state actors. See Prager Univ., 951 F.3d at 996 (noting that the defendants, YouTube and Google, operated their platforms without any state involvement). Google and YouTube do provide the public with a forum for speech, but that does not make them state actors>>.

Eì vero che talora le corti hanno affermato che <<a private entity was a state actor for First Amendment purposes, most notably when a private entity engaged in functions typically reserved exclusively to state or municipal government. See, e.g., Marsh v. Alabama, 326 U.S. 501 (1946). Belknap’s Complaint makes no allegations that Defendants’ are engaging in municipal functions. The Ninth Circuit, moreover, has explained that private entities who provide the public a forum for speech, including YouTube and Google, are not analogous to private entities who “perform [] all the necessary municipal functions.”>>.

La sentenza si appoggia abbondantemente al precedente di quest’anno Prager Univ. v. Google LLC (decisione di appello del 9 circuito) in cui il tema è analizzato con un certo dettaglio.

Purtroppo non è chiaro il contesto fattuale : non è chiaro se si trattasse di censura di commenti a video (cita Youtube) , magari su un canale o account di Breitbart, o di commenti ad articoli scritti (parla di articles).

Non si può quindi capire quale sia l’importanza della piattaforma portatrice dei post e dunque nemmeno se sia possibile un’applicazione analogica di tale protezione.

Si tratta di Distretto dell’Oregon  01.12.2020, Belknap c. Alphabet-Google-Youtube, caso n° 3:20-cv-1989-SI .

(notizia tratta dal blog di Eric Goldman)

Safe harbour (§ 230 CDA) e Zeran c. American OnLine: saggi sulla responsabilità dei provider

Due noti esperti del diritto di internet e delle piattaforme (Eric Goldman e Jeff Kosseff) hanno curato una raccolta di saggi sul celeberrimo caso Zeran v. America Online del 1997, da poco uscita.

Questo caso fu la prima applicazione del safe harbour,  istituito l’anno prima costituito dal  § 230 del Communications Decency Act (vedi la relativa voce in Wikipedia).

Questa decisione <<was the first appellate ruling to interpret 47 U.S.C. § 230 (Section 230), which had passed just the prior year. As we now known, Section 230 has become one of the most important laws about technology ever passed by Congress; and much of that influence is directly attributable to the Zeran opinion’s broad interpretation of Section 230. Together, the 1996 Section 230 law, plus the 1997 Zeran ruling, sparked the Web 2.0 revolution and the ascendance of user-generated content services that dominate the modern Internet.    This makes Zeran case one of the most significant Internet Law rulings of all time>> (dalla prefazione dei due curatori).

La raccolta è scaricabile da ssrn.com .

Ringraziamo i due editors e gli autori ivi presenti per la messa a disposizione dei saggi sull’importante tema.